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Autore: crimsontriforce    14/06/2010    1 recensioni
Jecht viene informato da fonte autorevole del significato ultimo del suo sacrificio. Jecht ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché le verità di Zanarkand - dell'altra Zanarkand, la sua Zanarkand - fanno veramente schifo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bahamut, Jecht, Magus Sister , Shiva, Valefor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dieci anni fa, la stessa strada'
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F3.U.CK.S. Fest di Fiffi, parte quinta @ settenote. La canzone che ho scelto è To Zanark... Earth Song di Michael Jackson. La versione originaria della fanfic, che ho postato settimane addietro su Fiffi, è lunga 609 parole come da challenge, ma l'idea era troppo più lunga di 609 parole perché rendesse bene. Questa è la versione espansa.

Il pezzo di canone astruso su cui si poggia è il seguente: le Fayth (Intercessori), fino a dieci anni prima degli eventi di gioco, spalleggiavano Yevon. Amavano la loro Zanarkand di sogno e sostenere il sistema di Sin, che impediva all'umanità di espandersi abbastanza da raggiungerla, sembrava loro la cosa giusta da fare. La storia di Jecht, che veniva dalla loro preziosissima Zanarkand di sogno, è stata lo spunto del loro cambiamento: quando lui ha deciso di sacrificarsi per Spira invece di tornare nell'immobilità perfetta della loro patria, i signorini si sono resi conto della mostruosità che avevano compiuto e hanno assunto la mentalità che vediamo nel gioco. Questo è canone (Ultimania dixit, tanto per cambiare). Il significato di Sin che verrà accennato nella fanfic, pure. Il resto è roba mia.

Pochi giorni prima della Calma di Braska, dunque, allo Zanarkand Dome – o un soffio e un sogno più a nord...





C'è un mondo là fuori

I'm leaving this city for the skies above
(Nobuo Uematsu, The skies above)

Did you ever stop to notice
This crying Earth these weeping shores?
(Earth Song, Michael Jackson)




Jecht era confuso.

“Vieni”, diceva una voce infantile rimbombando nelle sue orecchie. “Vieni.”
Vieni dove? Non avrebbe nemmeno saputo dire dove si trovava. Aveva coscienza solo del suo corpo e di quanto lo sentisse pesante e sbagliato, intorpidito e immobile.
Una mano sfiorò la sua, afferrandola con dolcezza. Sembrava un bambino che gli voleva mostrare qualcosa, ma non poteva essere il suo bambino: il suo bambino non l'avrebbe chiamato con dolcezza, mai, e il suo bambino era in un altro mondo, quindi la cosa non gli interessava. Ma perché insisteva?
“Vieni.”
Non posso venire, avrebbe voluto urlargli per farlo smettere, Braska ha bisogno di me. Ma la testa pulsava come se stesse per scoppiare e la gola era così secca che era un miracolo che riuscisse ancora a respirare – fatto salvo che Jecht in quel momento non stava respirando, non più.
Oh.
Svuotato e dolorante, iniziava a ricordare. La strega, la strega l'aveva squarciato e scavato e fatto pietra e lui, lui se l'era lasciato fare, sotto lo sguardo inflessibile del suo evocatore. Se avesse ancora avuto uno stomaco, Jecht avrebbe vomitato. Invece si sentiva solo pieno di un male denso e unitario che non poteva buttar fuori in nessun modo. Che schifo.
“Vieni”, ripeté la voce, ora accompagnata da altre. “Ti piacerà.”
Era così stanco. Si lasciò andare.




Sentì il pavimento delle stanze di Yunalesca svanire in un turbine sotto la sua schiena, rimpiazzato dalla luce fredda di una lastra liscia e fluorescente. Tendendo di colpo i muscoli, incurante del dolore che pochi istanti prima era stato in grado di paralizzarlo, Jecht scattò sgraziatamente a sedere, incredulo. Zanarkand! La sua Zanarkand! Zanarkand con le sue guglie illuminate, i suoi ponti sospesi, l'arco acquatico che sovrastava i grattacieli.

Era attorniato da una decina di figure dalle fattezze più disparate, scure contro il cielo di luci della sua città. Erano fermi in mezzo a una strada e la folla sciamava loro accanto, senza prestare attenzione a quel gruppetto male assortito né, notò con stizza, al suo campione. Un uomo passò attraverso a tre di loro e Jecht prese in considerazione l'ipotesi che si trattasse di un sogno, o di un delirio febbrile. Ma non ricordava brezza e odori nei suoi sogni, e lo stadio da blitzball era lontano. Se era un sogno, non era il suo.

“Guardala”, disse il bambino, un moccioso dalla pelle scura nascosto sotto un cappuccio viola più grande di lui. Non il suo bambino. “Ammirala oggi com'era mille anni fa, al culmine del suo splendore.”
“Senti il suo abbraccio”, aggiunse un guerriero da dietro il suo elmo.
“È tua madre come fu nostra madre, fratello nostro. Ed è figlia dei nostri fratelli che sognano sulla montagna, figlio nostro”, dissero tre voci alle sue spalle che potevano essere una sola.
“Non vale forse la pena di combattere per lei?”
Jecht annuì assente, frastornato dalla storia incredibile che tutti i suoi sensi sembravano raccontargli. Era tornato a casa! Certo che valeva la pena combattere per casa, era il motivo per cui aveva impugnato la spada fino al giorno prima.
Ma poi si era arreso, perché non aveva trovato un modo per tornare. E nel mezzo aveva fatto delle promesse.

“Chi siete voi?”, chiese, ancora col culo per terra. Lo scrutavano tutti con un'aria carica di aspettative. E altro. Ma non riusciva a distinguerlo – aveva imparato, nel viaggio, che gli uomini portavano dentro sfumature che il grande Jecht non era in grado di distinguere neanche sotto il sole, e qui osservava degli sconosciuti che non sembravano del tutto uomini, nel buio sotto il cielo di luci della sua città.
“Siamo la tua gente, ora.”
“Hai già visto il nostro sogno, unito al sogno del tuo evocatore.”
“Ti abbiamo portato qui perché è la nostra casa eterna, la tua vecchia casa, la tua nuova casa tramite noi.”
“Per farti comprendere ciò che difenderai.”
“Non doveva andare così”, s'intromise una ragazzina vestita di giallo e viola, che tratteneva a stento le lacrime. Parlava a loro, più che a lui, ma la sua sofferenza sembrava sincera. “Dovevi rimanere figlio, non fratello. Ti abbiamo guidato, sorretto, sussurrato in ogni brezza. Ma ora hai scelto la tua rovina, hai scelto il compito di perdizione.”
“E volevamo donarti un ultimo ricordo.”
“Di lei, di Zanarkand la bella, che risplende eterna nella culla del mare del Nord.”
“Perché sei parte di lei e parte di noi. E combatterai per lei. Come noi combattiamo da allora, come i fratelli sulla montagna combattono da allora per mantenere il sogno di ogni luce.”
“Come Yu Yevon combatte da allora, donando loro la forza, sempre saldo, sempre fedele.”
“Lo farai, vero?”
“Perdonaci.”

Jecht traballava sotto quel discorso unico e scomposto di cui non capiva una parola. E quello che gli sembrava di aver capito era tutto al contrario.
“Diventerò Sin, sì”, s'intromise, ripetendo meccanicamente quello che aveva appreso nelle sale di Yunalesca e sperando di trovarci un senso meno labile di allora. “E difenderò questo mondo, questo è chiaro. Fin quando riuscirò a combattere Sin da dentro.” Che non era un bel pensiero, ma era la cosa giusta da fare: un solo viaggio per le strade piangenti di Spira gliel'aveva mostrato.
“Spira è transitoria e imperfetta”, lo corresse il bambino, mormorandogli la loro verità più preziosa. “E non merita salvezza. Zanarkand è eterna, ma così fragile... un tocco e svanirebbe in un'eco del tempo. Spira cresce come una bestia impazzita, desidera mutare ed estendersi fino alle nostre coste. Non deve arrivare fino a qui. Questo è Sin.”
“Mi prendete per il culo?”
“L'abbiamo visto sorgere il primo giorno, fiera rivalsa sulle rovine della nostra sconfitta. Da allora sogniamo al suo fianco.”
“Ma tu – nostro fratello, nostro figlio – tu non dovevi combattere”, gli confidò una donna, inginocchiandosi accanto a lui per accarezzargli i capelli. Jecht si scostò. “Nato dall'oceano, la terra ferma mal ti si attaglia. Eri fatto per restare, per godere di ogni onda.”
“Protetto, non protettore.”
“Perdonaci. Ci capisci?”
“La guida che offrimmo fu insufficiente.”
“Ma quale guida!”, tuonò Jecht, che aveva sempre avuto poca sopportazione per i discorsi astratti, men che meno quelli biascicati tre parole alla volta da un coretto che gli levava l'aria. “L'ho scelto io! E se è stata una cazzata bene, ne ho fatte tante, fatemi fare le mie cazzate e lasciatemi pace!”
Ma il gruppo scosse la testa come un unico organismo.
“La tua strada per il Nord è stata una nostra scelta, un bisbiglio sussurrato all'orecchio del tuo evocatore, del nostro evocatore. Uno fra tanti, eppure l'unico che l'avrebbe ascoltato. È prezioso.”
“Ti abbiamo aperto la via affinché tu tornassi, oltre la montagna, oltre le rovine, fino alla tua patria sempre viva. Ma ti sei offerto. E ora soffrirai per noi.”
“L'altro, non tu figlio, doveva offrirsi. Si sarebbe offerto. Perdonaci, ti abbiamo lasciato troppo a lungo nel mondo che muta. Non doveva andare così.”
“Ora capisci le nostre scelte? Perdonaci. Ma ti sei offerto e combatterai, per tuo figlio e per gli altri figli della città luminosa.”
“È eterna, ma così fragile.”
“Proteggila.”

Aspettative e coda di paglia, la verità dietro quei sorrisi enigmatici era solo una gran coda di paglia. Scuse, scuse, scuse. Jecht non era nella posizione di dare lezioni morali a chicchessia – mai stato – ma, già che nel sentire anche quell'ultima confessione era rimasto con la bocca aperta a prendere aria e luci fatue, tanto valeva richiuderla emettendo fiato. Non sarebbe servito a niente, ma non poteva restare zitto.
“Io soffro e combatto e voi non fate nulla?”, sbottò. “Siete là fuori da mille anni, tutti vi chiamano, tutti vi vogliono e voi non fate nulla? Sapete tutto e non dite nulla? Nulla ogni volta che Sin attacca, ogni volta che – com'è – mutila la crescita di questa bestia impazzita? No, no. Mi piaceva di più come la diceva la strega, sapete? Che era una gran bugiarda, ma almeno aveva un senso. Mi fate vergognare del mio, di sogno, quello di tornare a casa, da mia moglie, da Tidus. Ma me ne sbatto della pace di qui se il prezzo da pagare è tutto quello che succede là fuori. Le avete mai sentite, le urla? ”
“Sono effimere”, rispose piano il bambino.
“L'avete visto il sangue che avete sparso? O ve ne andate sempre prima?”, incalzò Jecht. “Che razza di sogni promettete?”
Scossero ancora la testa. “Sogni eterni.”
“Vi siete mai fermati per un momento a guardare Spira? Un momento soltanto?”



“C'è una... cosa, nel Blitz. Un principio. Che quando arrivi a un certo livello, la squadra sei tu che te la scegli. E io non voglio avere niente a che fare con dei figli di puttana come voi.”


*



Braska aveva abbandonato i paramenti e giaceva riverso sulla statua della sua evocazione finale, spossato dai riti e dal pianto. Respirava appena.

Jecht riapparve al fianco del suo evocatore, girandogli attorno con passi lenti e misurati e un ringhio fermo in gola che avrebbe tenuto lontano anche Sin. Fuori dalla mia testa, ordinò, e dalla sua. Fuori!
Non era rimasto molto di umano in Jecht, che dentro si sentiva già un ribollire di squame e corna e artigli, ma certo abbastanza per capire da che parte stare. Avrebbe trovato un modo. L'aveva promesso.


Nell'altra Zanarkand, Bahamut rifletteva sul cambiamento.















-
Insomma, probabilmente il briefing sul perché e percome di Sin gliel'ha fatto direttamente Yu Yevon a tempo debito, però mi piace pensare a quest'incontro coi suoi simili, fra quando è diventato Fayth e quando è diventato Sin.
E probabilmente le Fayth sono arrivate da sole a cambiare idea, ma forse c'è stato bisogno di questo calcione nel fondoschiena in più (Sublimely Magnificent Jecht Shot Mark III, that is) a tutta la brigata.
Btw, mi rendo conto che “mondo che muta” riferito a Spira sia... un azzardo, nel minimo. Ma muta sempre più di dream!Zanarkand...



   
 
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