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Ricorda la storia  |      
Autore: SignorinaEffe87    14/06/2010    3 recensioni
"Gli uomini ti diranno che è in base alle stelle che bisogna tracciare la rotta. Tuttavia, si dimenticano troppo spesso che, senza il chiarore della luna ad illuminare il nostro cammino, noi non sapremmo nemmeno in quale direzione muovere il primo passo. Ricorda queste parole, ogni momento in cui avrai di nuovo paura."
Nell'imminenza della fine, la Gatta prega la Luna di salvarle la vita. Non immaginerebbe mai il modo in cui verrà esaudita.
[Terza classificata e Premio Originalità al "Pieces of a Journey Contest" di Pagliaccio di Dio]
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LaGattaELaLunaefp Citazione scelta: #08. Quell'uomo possedeva la stessa luce che riflette la luna.
Disclaimer: La canzone citata nella storia ("La Gatta") appartiene a Gino Paoli. I personaggi, invece, sono frutto della mia immaginazione, pertanto di mia esclusiva proprietà.
Io non ho la benché minima idea di come parli e ragioni un gatto, ma mi piace immaginarlo aulico e supponente.
Questa storia è affettuosamente dedicata a Micia, Burundi, Boris, Molly e Picci, i gatti della mia inseparabile socia Kam, per essersi inconsapevolmente prestati ad essere fonte d'ispirazione per questa mia, anche se non la leggeranno mai.
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LA GATTA E LA LUNA


"Il gatto andava qui e là,(...)
Solo, importante e saggio,
E leva alla luna mutevole
I suoi occhi mutevoli."
William Butler Yeats, "Il Gatto e la Luna"


C'era qualcosa di tristemente ironico nel morire in una notte di luna piena.
La Gatta si lasciò sfuggire un flebile sospiro malinconico, mentre si acciambellava su se stessa in un angolo della scatola di cartone rigido. Cercava, invano, di sottrarsi al morso gelido dell'acqua, che, salmastra e maleodorante, sciabordava incessantemente contro le pareti della sua zattera improvvisata, penetrando attraverso gli spigoli già fradici e sciogliendo, goccia dopo inesorabile goccia, quel precario rifugio. Aveva soltanto pochi, sbiaditi ricordi dei momenti che avevano preceduto il brusco risveglio nel più cupo incubo della sua ormai breve vita; una mano umana che le artigliava la collottola pelosa, le sue rabbiose velleità di ribellione, fra soffi feroci e graffi inflitti a casaccio, il buio impenetrabile in quella prigione quadrata e poi più nulla, se non il silenzio indifferente del cielo nero sopra la sua testa ed il mugghiare cavernoso dell'acqua, altrettanto nera, sotto di lei.
Se, come tutti i rappresentanti della sua specie, non fosse nata priva dell'umiltà necessaria per supplicare al fine di ottenere qualcosa in cambio, avrebbe pregato una di quelle due distese deserte di inghiottirla anche subito, pur di non sentire più il pungolo feroce della paura rodere ogni singolo nervo teso del suo corpo esile. Invece, non cedette, obbedendo all'impulso ancora più implacabile di uno strenuo istinto di sopravvivenza. Lei non era un topo, una di quelle creaturine patetiche, ma appetitose, capaci solo di dimenarsi tra pietosi squittii e mendicare la loro inutile vita, non appena cadevano fra gli artigli famelici dell'anello successivo nella catena alimentare. Lei avrebbe combattuto anche quella volta, come ci si aspettava da un fiero e letale predatore della sua razza, benché non avesse ancora la più pallida idea né del se, né del modo in cui si sarebbe tolta d'impiccio.
Un impiccio decisamente critico, al di là di ogni futile dimostrazione di temerarietà felina.
Sollevò uno sguardo guizzante verso l'alto, dove una repentina folata di vento aveva sparpagliato tutt'attorno un banco di nuvole grigiastre, alla maniera di una coda annoiata che scacci dal muso un pugno di mosche, così da permettere ai bagliori perlacei del disco lunare di piovere dolcemente su quella scena, ammantandola del livido chiarore elegiaco che ancora le mancava per essere impeccabilmente deprimente.
La carezza impalpabile di quel tremolante lucore sulla pelliccia umida le riportò alla mente la prima occasione in cui quella palla vagabonda era entrata a far parte della sua esistenza: allora, aveva da poco spalancato i suoi occhioni ambrati e curiosi sul mondo, per lei costituito dall'imponente figura di un antico cascinale diroccato. Nonostante l'aspetto cadente, l'edificio era ancora abitato da una coppia di esseri umani e una dozzina di galline, che i gatti maschi più scapestrati del circondario si divertivano a spaventare, mentre becchettavano qua e là fra l'erbetta rada dell'aia, acquattandosi all'ombra dei muretti a secco e balzando loro addosso a fauci snudate, solo per gioco, per strappare a quei goffi volatili pavidi qualche strida infastidita. Lei sarebbe rimasta ore, immobile, a studiare le loro mosse da cacciatori consumati, sdraiata a pancia in giù sotto i tiepidi raggi del sole, in cima ad una balla di fieno tagliato di fresco, il suo profumo pungente, ma piacevole, ad invaderle le narici.
Tuttavia, ad un tratto, improvviso come le raffiche ululanti che si portarono via la calura e i giochi estivi in un turbinio violento, giunse l'inverno, il più rigido da molti anni a quella parte, almeno a memoria di uomo e di gatto. Questo era quanto si mormorava con un po' di preoccupazione fra i membri più anziani della famiglia, quando si radunavano tra i muri disadorni del fienile, per racimolare un briciolo di calore l'uno dal corpo dell'altro e raccontarsi storie mirabolanti su lontani paesi esotici dai nomi molto complicati, in cui quelli come loro, diverso tempo fa, erano stati venerati alla stregua di creature divine, solo perché in grado di dare la caccia ai roditori, e non tollerati a malapena, come accadeva adesso.
A lei non importava granché delle memorie gloriose del proprio lignaggio. Si augurava, con infantile e struggente desiderio, di non doversi svegliare un altro giorno intirizzita dalla punta del naso a quella della coda, di non essere costretta a trascorrere tediose giornate d'inerzia con il musetto premuto contro il vetro impolverato della finestra, guardando l'aia brulla e il cortile di terra battuta spruzzati di quella poltiglia candida e freddissima, come se un contadino un po' matto vi avesse rovesciato sopra il contenuto di mille e più sacchi di farina bianca annacquata. Soprattutto, non desiderava in alcun modo vivere immersa in quell'oscurità continua, che la opprimeva, come un panno scuro gettato sulla sua testa, e distorceva anche le sagome più familiari in grotteschi giganti sconosciuti.
Aveva paura del buio, fobia alquanto risibile per una creatura che la maggior parte degli umani considerava alla stregua di un sodale del Demonio, ma a lei non faceva ridere affatto. Se ne stava rincantucciata sotto un mucchietto di paglia secca per tutto il giorno, in disparte, nella speranza di poter, prima o poi, riaprire gli occhi ed essere di nuovo accecata dalla tanto rimpianta luce del sole.
Com'era prevedibile, sua madre se ne accorse, per quanto lei si affannasse a negare, quindi, da quell'assennata ed amorevole guida che era, decise di spiegarle perché non aveva niente da temere da quella notte insolitamente duratura. A mezzanotte in punto, dopo che le campane della chiesa lì accanto ebbero battuto il loro ultimo rintocco assordante, le strinse piano la collottola fra i denti, poi, incurante del suo vivace dissenso, la portò sul tetto del fienile, depositandola su una tegola sbreccata al proprio fianco.
Un refolo frizzante di brezza fischiò fra le travi di legno scricchiolanti e sotto la morbida coltre delle loro pellicce, punzecchiando la pelle sensibile della Gatta alla maniera di una pulce affamata. Si addossò alla figura rassicurante della madre, insinuando il muso nell'incavo soffice del suo collo, prima di seguire la traiettoria del suo sguardo, perso nella contemplazione assorta del cielo terso oltre le loro teste.
"Che guardi, mamma?"
"Tu che cosa vedi, piccola mia?" le chiese di rimando l'altra. La Gatta titubò, si sentiva sempre molto impacciata e a disagio, quando era costretta a rispondere alle domande degli altri, soprattutto quelle che suonavano tanto ovvie, e alla fine si rivelavano non esserlo mai: "Le... Le stelle?"
Lo sparuto sciame di puntolini luminosi, quasi al centro di quella remota prateria blu cobalto, aveva calamitato sin dal principio la sua attenzione, pertanto le parve una replica abbastanza ragionevole da dare. Le vibrisse sottili della madre sussultarono in un enigmatico cenno d'approvazione, che riempì la Gatta d'imbarazzato orgoglio per essersi dimostrata all'altezza della situazione, quindi la più anziana aggiunse, alzando una zampa in avanti: "E di quella, che mi dici?"
Le costava ammetterlo, ma non si era affatto accorta di quel grosso cerchio lattiginoso e butterato, il quale dava l'inquietante impressione di osservarle con il medesimo, spiccato interesse con cui loro lo stavano scrutando. Anzi, a dirla tutta, non avrebbe mai creduto possibile vedere qualcosa di così simile al suo amato sole, nella tenebra algida e interminabile in cui l'inverno l'aveva precipitata. D'accordo, la sua luce era solo una pallida imitazione priva di tepore, ma era di gran lunga preferibile al buio pesto.
Allora, si ritrovò a supporre, in un fil di voce: "Quella dovrebbe... dovrebbe essere la luna, giusto, mamma?"
"Esatto, piccola" la rassicurò la madre, in un miagolio complice, prima di asserire, con la disinvoltura lieve di chi conosce la verità su molte cose per averla appresa grazie all'esperienza personale: "Gli uomini ti diranno che è in base alle stelle che bisogna tracciare la rotta. Tuttavia, si dimenticano troppo spesso che, senza il chiarore della luna ad illuminare il nostro cammino, noi non sapremmo nemmeno in quale direzione muovere il primo passo. Ricorda queste parole, ogni momento in cui avrai di nuovo paura."
Quanto tempo poteva essere trascorso da quella notte indimenticabile, nel bene e nel male?
Sebbene la gravità irreparabile della circostanza le avesse fatto smarrire un'esatta cognizione, aveva buone ragioni per credere che fosse molto poco, era stata la catastrofica serie di eventi successivi a rovinarle addosso in maniera repentina e frenetica. Da un giorno all'altro, l'estate aveva fatto ritorno, ma il sole e i giochi non erano stati altrettanto entusiasmanti; sua madre se n'era andata, ritenendola abbastanza adulta da essere in grado di badare a se stessa, e un gruppo di umani con dei buffi cocomeri insapori sulla testa- lo sapeva perché ne aveva morso uno, con lo sconsolante risultato di schivare all'ultimo secondo una pedata furente- aveva ridotto la vecchia cascina ad un cumulo di polvere e macerie, mentre lei...
...Beh, lei sarebbe morta affogata, fine della storia.
Aveva mantenuto la promessa, non aveva dimenticato quella frase, eppure eseguire tutto secondo le regole e i consigli della mamma non sarebbe servito a salvarla. Il brillio eburneo della luna avrebbe forse contribuito a mitigare il suo mai davvero sopito timore dell'oscurità, ma quella sfera screziata e distratta non sarebbe rotolata giù dal suo parco giochi cosmico per strapparla a quel crudele destino ormai scritto ad inchiostro indelebile, a porgerle il conforto improbabile di una zampa amica, nell'imminenza della fine.
Per questo, non poté impedirsi di esalare un veemente gnaulio stupefatto, nell'attimo in cui una mano umana apparve appena oltre il bordo della scatola, prima di tastare il cartone mezzo liquefatto con la netta intenzione di dirigersi verso di lei. Dal momento che stava sperimentando di persona quale tipo di riconoscenza gli uomini fossero degni di ricevere da parte sua, contrasse ogni muscolo ancora sensibile e reattivo del fisico pressoché congelato e si appallottolò nell'unico cantone asciutto rimasto, quindi sfoderò gli artigli e drizzò di rabbia quel che restava della sua pelliccia grondante d'acqua, nell'efficace imitazione di un vaporoso porcospino aggressivo.
Tutt'altro che dissuasa da quella cocciuta dimostrazione di ostilità, la mano si chiuse dolcemente attorno alle sue costole e la issò fuori dallo scatolone, mentre una voce maschile, roca ed un po' affannata, si premurava di tranquillizzarla: "E' tutto a posto, ora ti porto via di qui."
In quale dannato modo poteva ficcargli in quella zucca vuota che, a costo di essere inghiottita da quella marea putrida e tumultuante, non desiderava affatto essere toccata da lui?
Benché gli umani lo ignorino, com'è loro abitudine nei confronti di qualsiasi cosa reputino troppo vile per meritare interesse, i gatti hanno un codice di comportamento non scritto, ma molto chiaro, al riguardo, al quale si attengono in maniera scrupolosa. E' sempre e solo il felino a concedere a qualcuno di quei bipedi spelacchiati, qualora ritenuto meritevole di fiducia, di oltrepassare le barriere della decenza, permettendogli così di tuffare quelle loro dita viscide e mollicce nel proprio prezioso pelame.
Prima di quella beffarda svolta del fato, la Gatta non si era mai trovata nella condizione di dover decidere se accordare o meno una tale confidenza ad uno di loro, i proprietari della cascina in cui era nata oscillavano fra una tenera sopportazione, finché era stata un grazioso batuffolino claudicante, e una larvata insofferenza, mentre i demolitori dell'unico luogo che era stata abituata a chiamare casa non avevano esitato a infischiarsene di qualsiasi arcano cerimoniale gattesco, pur di levarsela di torno.
Perciò, combattuta fra l'obbedienza fedele alle leggi della razza e l'ardente speranza di vedere almeno l'alba del giorno successivo, si abbandonò ad una paralisi cadaverica nella presa dello sconosciuto salvatore. Nel frattempo, questi si era messo ad arrancare controcorrente, le frequenti bordate d'acqua fetida e grigiastra che gli s'infrangevano addosso spumeggiando all'altezza del petto, fino a quando non riuscì, in un balzo sfinito, a franare supino sulla sponda del fiume.
La Gatta rimase stesa al suo fianco, esausta come se fosse stata lei a trascinarlo fuori da lì, e non viceversa, assaporando in un fremito d'insospettabile gradimento il contatto con la stabile distesa di ciottoli lisci della riva. Quando ritenne di aver recuperato forza sufficiente per poter essere utile all'anonimo benefattore, ovvero non appena zampe, orecchie e coda si mossero prontamente in risposta agli stimoli, si risollevò non senza fatica da terra, zampettò cauta nella sua direzione e gli diede un colpetto di testa esplorativo all'addome.
Dal canto proprio, l'umano ricambiò il timido interessamento erompendo in un chiassoso accesso di tosse secca, che gli squassò il corpo atletico per qualche secondo e fece appiattire lei al suolo, coda in resta e sensi all'erta. Poi, l'altro si puntellò sui gomiti per rimettersi seduto e strizzarsi gli abiti intrisi d'acqua fino all'ultima fibra, in un gesto rassegnato, prima di ansimare: "Per quanto possa valere, io detesto i gatti."
Ecco, l'ennesima dimostrazione del fatto incontrovertibile che gli esseri umani non sanno davvero comportarsi in maniera decente, nei rapporti diplomatici con gli altri sudditi del regno animale!
La prosperità della loro tirannide indiscussa perdurava esclusivamente perché, da svariate ere geologiche, non era più esistito nulla di abbastanza gigantesco da poterli inghiottire in un sol boccone ed insegnare loro un po' di sana modestia, altrimenti ci sarebbe stato di che ridere sotto i baffi.
Nessun felino si sarebbe mai neppure lontanamente permesso di essere tanto schietto, anzi, maleducato; ci sono modi molto più sottili, ma altrettanto eloquenti, grazie ai quali è possibile manifestare il proprio limpido disprezzo nei confronti di un essere inferiore. Così, appunto, agì la Gatta: squadrò lo straniero a sopracciglia aggrottate, in un misto di riserbo e alterigia, dimenando la coda a destra e a sinistra per lasciar trasparire la propria piccata disapprovazione.
Non essendo stato in grado di interpretare il messaggio subliminale indirizzatogli, l'uomo proseguì, mentre la tosse si placava: "Sai, quando ero ancora un adolescente, mio nonno mi portava sempre a caccia insieme ai suoi amici, perché ci sapevo fare alla grande con i cani da posta: diceva che mi obbedivano come se fossi stato uno di loro..."
Qualsiasi considerazione irritata sullo stomachevole egocentrismo di quelle scimmie nude venne sopravanzata dalla viscerale vampata d'avversione che ribollì nelle sue vene al solo udire la parola cane.
Per fortuna, fino a quel momento aveva avuto ben poche occasioni d'incontro con la propria nemesi naturale, gli ottusi omologhi quadrupedi degli umani avevano una posizione decisamente bassa nella lista delle sue frequentazioni preferite. I rari esemplari che, di tanto in tanto, gironzolavano nei paraggi della cascina le erano parsi niente più che mucche bavose e senza corna, con la deprecabile propensione ad abbaiare insulti contro qualsiasi cosa si muovesse all'interno del loro campo visivo.
Il suo verdetto nei loro confronti era stato immediato ed inappellabile: beceri, inutili idioti.
"Ma a te tutto questo non interessa granché, vero, micetta?"
D'un tratto, l'uomo rinsavì, miglioramento che non mancò di stupire positivamente la Gatta, la quale, distendendo i tratti del muso in un'espressione più indulgente, gli accordò una seconda opportunità di fare buona impressione e lo esaminò con un'occhiata insistente, dall'alto in basso, senza ritegno alcuno.
L'umano era giovane rispetto a quelli che aveva incrociato sulla propria strada fino a quella notte, soprattutto se paragonato ai due attempati contadini della cascina, dalla pelle ruvida e nodosa quanto la corteccia di un olivo secolare. Lui pareva piuttosto scattante come un pioppo maturo, oltre che tenace nella maniera infestante di cui solo l'edera è capace, almeno a giudicare dalla sua spiccata vena ciarliera.
Di colpo, un curioso ricordo riaffiorò da uno dei molti giorni sereni della sua infanzia: si stava esercitando a zigzagare fra i vasi di begonie in fiore, sul davanzale della casupola degli anziani, nel tentativo di emulare la camminata sicura ed elegante della madre, finché un trillo garrulo, cogliendola di sorpresa, per poco non l'aveva fatta schiantare sull'aia in un ruzzolone ignominioso. Cacciati gli artigli nella pietra friabile per mantenere l'equilibrio, aveva sbirciato all'interno dell'abitazione, impaziente di scoprire quale fosse la fonte di quel baccano sconosciuto. Quel che vide la deluse non poco, poiché si trattava di un polletto mingherlino, della stessa tinta fumosa delle stoppie bruciate, che zampettava a saltelli su un trespolo di legno e gracchiava parole a caso nella lingua degli uomini, solo con una vocetta più squillante.
Sì, il ragazzo umano che l'aveva salvata dai flutti gorgoglianti del fiume aveva una somiglianza stupefacente con quel bizzarro uccello, nei corti ciuffi color carbone arruffati sulla testa a mo' di piumette ribelli, nel naso a becco dal colorito olivastro, nel brillio vispo degli occhi scuri e, in particolar modo, nell'inarrestabile parlantina sciolta.
Difatti, fu di nuovo lui a rompere il silenzio, prima interrotto soltanto dallo stormire quieto delle fronde dei platani alle loro spalle. Le strinse una zampa nel palmo della propria mano, con una cordialità un po' irruente, quindi si presentò: "Io mi chiamo Riccardo Maltese, sono un investigatore privato a tempo pers... Ehm, pieno."
Si bloccò, di colpo, quasi che fosse riuscito a percepire la gelida sciabolata di disappunto con cui le pupille giallastre della Gatta lo avevano trapassato da parte a parte, non appena aveva ripreso a ciarlare di sciocchezze prive di senso compiuto.
Non senza lasciar trapelare una moderata perplessità, il giovane si affrettò a spiegare, dopo averle additato la luna, ormai veleggiante verso il punto più alto della sua scampagnata notturna: "Diciamo che il mio lavoro assomiglia al suo, in qualche modo: me ne vado in giro quando il resto del mondo ronfa della grossa e, da brava zitella impicciona, mi diverto un sacco a spiare i loschi peccatucci di altri amanti del buio, con la sola differenza che io vengo pagato per farlo... D'accordo, non proprio ogni volta, ma questo non c'entra... mentre lei non ha altra alternativa.
A dirla tutta, ero impegnato anche stasera, ma credo che tu avessi decisamente bisogno di me, molto più della mogliettina nevrotica dell'assessor Carmagnola."
Oh, doveva convenire che si trattava di una coincidenza quantomeno interessante.
Provvidenziale, senza dubbio, se i gatti avessero ammesso la possibilità che il mondo fosse retto da una causalità superiore, infallibile quanto loro.
"Sarà il caso di alzare le chiappe, non ho per niente voglia di restare qui fino a quando non sarò diventato un surgelato Findus..." sentenziò infine Riccardo, prima di scattare in piedi, rabbrividendo dentro ai vestiti zuppi, e muovere qualche passo in direzione del sentiero sterrato che serpeggiava fra la sponda del fiume ed l'alto filare di alberi poco distante.
Sebbene non lo volesse affatto, la Gatta esalò un debole pigolio affranto.
Quell'uomo era importuno, sbracato e dotato di un infimo senso dell'umorismo, ma era anche il suo unico punto di riferimento, all'infuori della luna, tanto muta quanto lontana; ciò che restava del suo passato era un mucchio inabitabile di calcinacci, una madre saggia tacitamente rimpianta ed una mano crudele che per un soffio non l'aveva annegata. Al contrario dei tanto esecrati cani, che reputavano onorevole legare la loro vita ad un padrone umano, quelli come lei avevano bisogno di un luogo in cui riposarsi dopo un'estenuante giornata di caccia, di cui vantarsi a dismisura nelle chiacchiere con gli altri gatti conoscenti.
A cui appartenere, insomma.
Non aveva la benché minima intenzione di trascorrere il resto della sua esistenza nella pelliccia di una randagia, appellativo grave quanto un indicibile anatema, che sua madre ed altre gatte adulte della cascina avevano borbottato a denti stretti, ammiccando in direzione di una femmina dalla coda mozza e il pelo infeltrito come un vecchio gomitolo di lana, la quale vagava a debita distanza da loro, lo sguardo vacuo piantato sulle zampe piagate.
Tutto questo è spaventoso, e ingiusto, aveva pensato allora, dinanzi a quel triste spettacolo.
Lo pensò di nuovo, solo con maggior afflizione, perché temeva di vedere presto se stessa al posto di quella gatta macilenta, emarginata e senza futuro.
"Detesto dover dare ragione a Costanza, ma davvero non ho cervello..." interloquì a quel punto il giovane, scavalcando le sue fosche meditazioni, per poi stupirla di nuovo.
Girò rapido sui tacchi, la raggiunse e, in una presa inesperta che qualunque mamma gatto avrebbe criticato, se la strinse al petto, fra l'impermeabile svolazzante e il maglione bagnato.
"Molto meglio, vero, micetta?"
I gatti non arrossiscono.
Sua madre si era raccomandata anche riguardo a questo, dopo averla strattonata a viva forza per convincerla ad abbandonare la mietitrebbiatrice, sotto la quale si era nascosta, traboccante di vergogna, dopo che un amabile gatto tigrato suo coetaneo le era andato incontro, sull'aia, per porgerle il passero morto che portava in bocca.
I felini, dinanzi ad una situazione che li mette a disagio, possono reagire solo con una resa di malavoglia o uno sdegnoso rifiuto. Eppure, per quanto si sforzasse di restare fedele ai dettami della propria schiatta, non riusciva a trovare niente di così deplorevole nel brulichio sotto pelle che le solleticava il muso, mentre si strofinava piano contro gli abiti dell'uomo.
Costui, intanto, aveva indossato a propria volta quel buffo cocomero insapore- azzurro, per giunta: l'umano era davvero matto- ed era salito a bordo di uno di quei loro assurdi trabiccoli a due zampe, rumorosi e puzzolenti, il quale si era messo faticosamente in movimento dopo una serie di singhiozzi sincopati, affini in maniera a dir poco inquietante ai lamenti di un cavallo afflitto dalle coliche.
Mentre sfrecciavano a balzelloni verso le luci remote della città, il giovane prese a canticchiare, fra sé e sé: "C'era una volta una gatta, che aveva una macchia nera sul muso, e una vecchia soffitta vicino al mare con una finestra a un passo dal cielo blu..."
Niente di paragonabile ai canti popolari dei gatti, ma pur sempre discreto; e poi, non si poteva negare che avesse una voce apprezzabile.
"Ti piace? Me la cantava sempre mia nonna, quando ero piccolo: cosa non si doveva inventare per convincermi a mangiare, poverina...
Non ha mai ottenuto alcun risultato, però mi è rimasta impressa, e mi pareva appropriata..." le raccontò, con una diligenza affettuosa che le rammentò, in un sussulto nostalgico, sua madre, per poi riprendere la propria distratta cantilena: "Se la chitarra suonavo, la gatta faceva le fusa ed una stellina scendeva vicina, poi mi sorrideva e se ne tornava su..."
Arrivarono a destinazione prima di quanto avrebbe immaginato. L'umano fermò il macinino spernacchiante in corrispondenza di una piazzetta acciottolata, la rientranza di una viuzza tortuosa, lungo la quale le case, più fatiscenti che antiche, svettavano ammucchiate l'una sull'altra alla stregua delle spighe bionde di un florido campo di grano. La Gatta lo vide alzare lo sguardo in direzione di un abbaino malmesso, tappato da una persiana bucherellata da cui si erano staccati, o erano stati rimossi, alcuni listelli.
"Quella lassù è la soffitta in cui vivo: non c'è il mare, ma solo la pioggia che gocciola dalle tegole scassate che il padrone di casa non aggiusterà mai; non c'è la chitarra, perché è già tanto che io abbia imparato a suonare come si deve il citofono... E non c'è neanche il cielo blu, grazie all'imposta sconnessa che ormai si è saldata al resto degli infissi ed è praticamente inamovibile.
Uhm, detto così non sembra poi molto invitante, vero, micetta?"
In un impulso irrefrenabile di qualcosa che avrebbe potuto etichettare soltanto come follia, la Gatta miagolò d'impazienza e gli rifilò un colpetto complice sotto il mento, perché si sbrigasse a portarla in un posto magari poco accogliente, ma di sicuro più asciutto e desiderabile di una scatola di cartone zuppa d'acqua lercia.
Invece, il giovane si fermò, proprio al centro dello scialbo cono di luce proiettato sulla scena dal lampione all'angolo, la sollevò afferrandola all'altezza dei garretti anteriori, in maniera disagevole per entrambi, fino ad avvicinare il proprio volto al suo muso, quindi si dedicò all'ennesima meditazione querula ad alta voce: "Forse dovremmo trovarti un nome decente, vero, micetta?
Dunque, sei tutta bagnata e rugosa come un cespo d'insalata... Ecco, potrei chiamarti Lettuce: che ne pensi?"
A volte, anche i gatti rimangono senza parole.
Infatti, in quel preciso istante, quando i suoi occhi increduli scorsero quel chiarore giallastro ed artificiale illuminare il più affascinante e fastidioso tipo di umano in cui si fosse mai imbattuta, la Gatta ammutolì, improvvisamente consapevole che le sagge parole della madre si erano avverate, seppur in modo del tutto impensato.
Quell'uomo possedeva la stessa luce che riflette la luna, era apparso senza dare spiegazioni, senza essere stato chiamato, per salvarla dalla tenebra gelida e irrimediabile in cui era sprofondata tutt'a un tratto la sua vita. Incostante e scanzonato, custode e non padrone, aveva rischiarato il suo cammino, aveva guidato i suoi passi senza dirigerli e prometteva di tramontare e sorgere ancora per lei, per lei sola. Era disposta persino a concedergli il tenero arbitrio di imporle un nome, tanto le appariva futile ed insensato il pertinace orgoglio felino dinanzi all'impudente surrogato terreno dell'errante disco lunare.
Tuttavia, non appena Riccardo ebbe fatto scattare la serratura, spalancando il portoncino in un cigolio raccapricciante di cardini non oliati da tempo immemore, lei non perse l'occasione di educarlo fin da subito riguardo a quali fossero i termini del contratto di pacifica convivenza e sopportazione reciproca. Si divincolò dalla presa con uno gnaulio scocciato, atterrò in un tuffo elastico sulle quattro zampe e lo precedette impettita lungo le scale.
Perché lui poteva anche essere la sua luna personale, ma lei restava sempre e comunque una Gatta.
Anzi, Lettuce.


FINE



Solito finale tirato via, solita sintassi alla Demostene dei poveri...
Comunque, gioite, lettori miei! Stavolta, niente note!
O forse, qualcuna sì...
Gli eventi narrati si svolgono nella mia città, Pavia, nello specifico:
A) Il cascinale in cui abitava la Gatta è, o meglio, era la cascina poco distante dal mio condominio, in cui ho giocato da bambina. Oggi, nel caso a qualcuno interessi, è un centro residenziale di indubbia bruttezza, oltre che tormentato dalle infiltrazioni delle marcite.
B) Il fiume inquinato e puzzolente in cui la Gatta rischia di affogare è il Ticino, un tempo chiamato addirittura Il fiume azzurro... Sì, un tempo.
C) La mansarda di Riccardo si trova in Via Cardano, strada medievale del centro storico che amo e in cui non abiterò mai (ç_ç).
Inoltre, vengono citati i nomi di Costanza, dell'assessore Carmagnola e della di lui moglie; la storia di costoro e dei loro rapporti con Riccardo è dettagliatamente spiegata nell'altra mia "It's Too... Cliché". Ad ogni buon conto, si tratta rispettivamente del capo dell'agenzia investigativa per cui lavora Riccardo, nonché sua migliore amica, e di due ex compagni di liceo.
Spero di non aver dimenticato nulla e, soprattutto, di avervi fatto trascorrere qualche piacevole momento di lettura.
Ringrazio sentitamente Pagliaccio di Dio, la giudice del "Pieces of a Journey Contest", per avermi dato l'occasione di mettermi alla prova; i miei complimenti di cuore anche alle altre podiste e concorrenti.

Alla prossima!


Giudizio finale di Pagliaccio di Dio ("Pieces of a Journey Contest")

MistralRapsody - La Gatta e la Luna [ PREMIO ORIGINALITA' ]


Aspetto grammaticale e lessicale:

Sono rimasta davvero colpita nel leggere la tua storia, sia dal punto di vista grammaticale che sotto altri che svilupperò in seguito. Sulla grammatica, appunto, assolutamente nulla da dire: perfetta, non una virgola fuori posto o un verbo toppato nel tempo. Lessicalmente apprezzabile, soprattutto per il registro che hai scelto di utilizzare -molto alto, terrei a precisare-; un registro non facile da tenere a bada, ma che tu sei riuscita a domare senza far apparire il tuo scritto troppo pesante o sgradevole alla lettura. Molto scorrevole.

Punteggio: 10 / 10

Stile:

Hai uno stile pieno di potenzialità. Accattivante, riesce a far precipitare il lettore nella storia, facendogli toccare con mano il paesaggio ed i sentimenti dei protagonisti. Solo un punto non è stato propriamente così piacevole: il corpo della fic. E' molto pesante, senza spazi e con pochissimi andamenti a capoverso che rendono il tutto difficile alla lettura, nonostante il testo in per sè stesso non lo sia affatto.
Il mio consiglio è di cercare di dividere in blocchi la storia, per riuscire a farla apprezzare come davvero merita.

Punteggio: 8.5 / 10

Originalità dell'opera e delle idee:

Potrei riassumere tutto il giudizio in una sola parola, ma poi penso perderei la mia serietà di giudice. Che dire? E' originale dall'inizio alla fine. Non mi sai mai aspettata una storia con protagonista una gatta -lasciatelo dire, io adoro i gatti da impazzire-, nè tantomento che venisse utilizzato il suo punto di vista. Una storia davvero dolce, apprezzabile tutta; molto carino ed originale la personificazione della luna in Riccardo che, dalla descrizione che ne hai fatto, è tutto fuorchè pallido. Complimenti, davvero.

Punteggio: 10 / 10

Caratterizzazione dei personaggi:

Qui il protagonista è a dir poco insolito, devo dire, ma ne ho apprezzato davvero la caratterizzazione. Hai reso la Gatta tanto bene quanto si può rendere bene un essere umano, l'hai dotata di sentimenti, di ragione e di... acume, direi, propri dell'uomo facendola diventare, appunto, una Gatta con la g maiuscola. Apprezzabile anche la caratterizzazione di Riccardo, anche se spicca di meno rispetto alla protagonista e risulta addirittura un po' banale. Ma, per il resto, assolutamente niente da dire se non brava.

Punteggio: 9 / 10

Punteggio: 37.5 + 4 = 41.5 / 45 PUNTI

   
 
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