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Autore: Shakta    17/06/2010    2 recensioni
breve racconto sulla degenerazione della mente umana in stato di prigionia
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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uomo in carcere

Ero là. Infine si stava concretizzando il timore in predicato di accadere sin da quando tutto questo era iniziato. Prigioniero. Una parola aleggiante sul mio essere per anni, senza mai però aver rivelato il proprio peso; educatamente potrei dire. Una parola sospesa nel limbo della mia coscienza, troppo invaghita di se stessa per prenderla in considerazione, sorda ai suoi avvertimenti, insensibile alle sue richieste. Eppure adesso quella parola, prigioniero, è diventata una condizione, mutandosi da debole in forte, poiché nelle sue nuove lugubri vesti non più è costretta a seguire petulante la tronfia coscienza, bensì la schiaccia, la opprime, quasi come un giacobino con un nobile della Rivoluzione.
Prigioniero dunque. Sapere di esserlo non richiede sforzo di memoria o atto di intelligenza. Basta affidarsi ai sensi per capirlo. Il buio, profondo per la mancanza d'aria e opprimente per l'odore di merda e piscio misti a sangue e vomito, stava aspettando il mio risveglio, gioendo intimamente del proprio immenso potere. Lo immaginavo il supponente a sogghignare della propria forza, tale da rendermi travagliato il constatare la differenza tra vita e morte, solo, com'ero, in assenza di stimoli dal mondo. Cercai perciò di ricordare, di capire, mi aggrappai in quella tremenda oscurità alla mente, perché mi portasse fuori, perché creasse luce laddove era nulla, perché evocasse sole laddove era notte. Capii di esser vivo nel momento in cui rimembrai la mia cattura e la mia memoria disvelò i segni delle botte prese, come un panno leva la polvere da un vecchio mobile rivelandone i graffi. E a mano a mano che le guardie mi colpivano nel mio passato, fitte lancinanti straziavano il mio presente. Capii allora di esser vivo e il buio subitaneo e beffardo mi colpì alla bocca dello stomaco, facendomi crollare a terra, nel rivelarmi la mia condizione: prigioniero. Un vortice di sensazioni mi attraversò in un istante. Sapevo la sorte che mi attendeva e a questo pensiero la più ottenebrante disperazione si impadronì di me, sconquassandomi, squarciandomi: sentii le braccia afflosciarsi lungo il busto; le gambe anch'esse divenire molli, tanto che ebbi paura di perderle, di vederle staccarsi dal bacino per cercare la fuga solitaria e allora mi raggomitolai, le cercai con le mani e le presi e le strinsi a me, mentre iniziai a piangere il mio terrore.
Non so per quanto continuai a piangere, incatenato in quella posizione, senza più cognizione di me. So che il mio pensiero iniziò a vagare, librandosi leggero sulla mia terra, lasciandosi trasportare dalla brezza carica di salmastro su sino ai verdi campi che la mattutina rugiada ancora stava dorando prendendo a strumento i primi tenui raggi del sole. Ed ancora esso andava; sino ad una piccola casa, che percepivo essere la mia casa, così calda e rassicurante. Di fronte alla porta di ingresso indugiò qualche istante, come ad assaporare la gioia di un rientro a lungo atteso. Poi entrò. E là, seduta su una poltrona, immersa in una lettura, ti vidi. Ti vidi amore mio. Dapprima non ti accorgesti di me ed io ebbi il privilegio di poterti osservare, rapita, concentrata, assorta, come se in quel momento il tuo corpo meraviglioso non stesse esistendo nel mondo. Poi mi percepisti e ti girasti a guardarmi con quegli occhi puri e cristallini, curiosi e intelligenti. Corresti ad abbracciarmi e baciarmi e tutta la mia tensione, il mio affanno, si sciolsero tra le tue braccia e le tue soffici labbra e il tuo:”Mi sei mancato”. Chiusi gli occhi e mi parve di sentirlo il tuo corpo attaccato al mio, stretto, inscindibile. Ma quando gli aprii trovai solo oscurità ad attendermi. E allora una rabbia cocente mi vinse, facendomi formicolare sino alla punta delle dita, straziando la mia disperazione e la mia paura; urlai con quanto fiato avevo, balzando in piedi e correndo all'impazzata per la stanza. Inciampai innumerevoli volte e sempre mi rialzai sempre più furente. Gridai forte il tuo nome, A.; gridai per la mia libertà; gridai senza senso, non riuscendo più la bocca ad esprimere la volontà della mente. Continuai a correre ed andai a sbattere contro i muri, che in quel buio erano ovunque. Sino a che non crollai a terra esausto, vinto dalla spossatezza ed abbandonato dall'adrenalina del furore. Non ti avrei più vista, né avrei più udito la tua melodiosa voce, dolce come la carezza di un'amante. No, niente di tutto ciò sarebbe stato. Sarei morto là. Forse per la prima volta me ne resi conto; di colpo un peso tremendo nel ventre si materializzò con veemenza tale che fui costretto a cedervi e a vomitare. Dolorosi furono quei conati che sballottavano il mio corpo quasi fosse una pallina da tennis: me li immaginavo su un campo di terra rossa che giocavano concentrati e competitivi scambiandomi da una parte all'altra della rete. Scoppiai a ridere, rotolando lontano da dove ero, inseguito dal tanfo della mia creazione. Risi; risi. Per il puzzo, per il dolore, per la disperazione, per l'angoscia. Risi sino a che le mascelle iniziarono a dolermi e credetti si rompessero lasciandomi la faccia deformata in una posa innaturale. A poco a poco l'ilarità però scemò via, lasciandomi di nuovo solo, ormai completamente svuotato. Quel buio opprimente a cui ero per un po' sfuggito tornò a regnare sul mio mondo, cancellando tutto, non solo forme e colori, ma anche pensieri e ricordi. Mi sopraffece ed io altro non potei fare che rimanere immobile, già morto pur senza ancora esserlo. Il buio così entrò dentro di me, invadendo la mia intimità, perquisendo i miei sensi come un gendarme con un criminale. Stava portandosi via tutto, tutto ciò che era il mio essere.
Mentre stavo già scivolando dalla vita, d'un tratto accadde. Semplicemente. Inaspettato, improvviso, un punto minuscolo di bianca luce si materializzò poco più a destra di me; da esso scaturì un lieve raggio che fendette la mia disperazione, vi entrò dolcemente, la abbracciò teneramente come facevi tu, A. Allungai la mano verso quel mistero e mi stupii nel veder comparire un dito. È buffo un dito staccato dal corpo, come una vanga senza fattore o una lenza senza pescatore. Pensai che quello non fosse il mio dito. Perché insomma avrei dovuto sentirlo più familiare, più affine, più mio. Ecco, avrebbe dovuto dirmelo che era mio. E invece se ne stava là, tranquillo, ignaro o disinteressato al mio tormento, come se non avessimo vomitato insieme poco prima, come se non ci fossimo disperati, non avessimo riso, non avessimo amato ed odiato, come se non avessimo vissuto. Ah, dito, dito! Che delusione! Però a pensarci bene non lo ho forse io deluso di più? In fondo non ho mai fatto caso a lui, no. Lo ho usato come mero prolungamento della mia volontà, lo ho piegato alla mente senza mai preoccuparmi di chi egli fosse, senza mai distinguerlo dagli altri nove. Certo, sì, lo ho curato, ma questo era mio dovere. E confesso che l'ho fatto per identificazione con il mondo, per essere civile. Guardai il mio dito da più vicino e gli promisi che se mai fossimo usciti gli avrei dato un nome. Però solo se fossimo usciti: perché è inutile nominare una cosa morta.
La luce intanto si stava ingrossando, il raggio era più spesso: dolorosamente percepii pulsare dentro di me un'emozione, la speranza. Cercai di combatterla, di cacciarla lontano. Ma troppo forte essa avanzava. Troppo potente in quell'oscurità la presenza luminosa! Mi arrischiai ad avvicinare il viso al fascio di luce: e fu primavera, lo sbocciare di un fiore, il volare di un'ape, la corsa in un campo, la raccolta delle more, il pigiare l'uva, il fare l'amore, la danza, lo stringere il figlio, il ridere, il volare, il vivere. Caddi in ginocchio piangendo e tremante cercai di afferrare quel singolo raggio, di prenderlo, di possederlo, perché fosse mio e mio soltanto e non svanisse più. Non riuscii ed allora gli parlai cercando di convincerlo. Gli raccontai della mia vita, di come ero arrivato a tanto, di quanto ti amassi, A. Pensai che di certo non poteva rimanere insensibile, che doveva avere un cuore pure lui, cazzo, non poteva abbandonarmi così. Ma dopo poco cominciò ad affievolirsi ed io ebbi paura: paura di averlo offeso, di essere stato troppo insistente, scortese, pedante, noioso. Lo pregai di restare, gli raccontai cose buffe, strafalcioni, aneddoti. Sordo a tutto se ne stava andando. Allora un nero terrore, il nero terrore si impadronì di me. E cominciai a fremere e a gemere, a strillare, a straziare, a gridare, a piangere sempre di più. Persi la dignità nell'inseguire la luce che sempre più si affievoliva, sempre più si rifugiava lontano da me mendicante, sempre più svaniva. Mi aggrappai al piccolo foro nel muro con ferocia. Graffiai, annaspai, colpii e di nuovo graffiai. Eppure fui sconfitto. Tra i singhiozzi e il dolore, mi sedetti di fronte al buco e rimasi immobile a guardare l'ultimo sprazzo di luce mentre lievemente mi abbandonava. Gli raccomandai di venirti a cercare e di scaldarti nelle gelide ore mattutine. Ebbi la sensazione che ci fosse rimorso nel suo abbandono. Che dopotutto avrebbe voluto restare, confortarmi, cullarmi con la sua speranza. Lo vidi però svanire tramutandosi nel greve solitario buio.

Ed in quell'istante, io morii.

  
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