Ero là.
Infine si stava concretizzando il timore in predicato di accadere sin
da quando tutto questo era iniziato. Prigioniero. Una parola
aleggiante sul mio essere per anni, senza mai però aver
rivelato il proprio peso; educatamente potrei dire. Una parola
sospesa nel limbo della mia coscienza, troppo invaghita di se stessa
per prenderla in considerazione, sorda ai suoi avvertimenti,
insensibile alle sue richieste. Eppure adesso quella parola,
prigioniero, è diventata una condizione, mutandosi da debole
in forte, poiché nelle sue nuove lugubri vesti non più
è costretta a seguire petulante la tronfia coscienza, bensì
la schiaccia, la opprime, quasi come un giacobino con un nobile della
Rivoluzione.
Prigioniero
dunque. Sapere di esserlo non richiede sforzo di memoria o atto di
intelligenza. Basta affidarsi ai sensi per capirlo. Il buio, profondo
per la mancanza d'aria e opprimente per l'odore di merda e piscio
misti a sangue e vomito, stava aspettando il mio risveglio, gioendo
intimamente del proprio immenso potere. Lo immaginavo il supponente a
sogghignare della propria forza, tale da rendermi travagliato il
constatare la differenza tra vita e morte, solo, com'ero, in assenza
di stimoli dal mondo. Cercai perciò di ricordare, di capire,
mi aggrappai in quella tremenda oscurità alla mente, perché
mi portasse fuori, perché creasse luce laddove era nulla,
perché evocasse sole laddove era notte. Capii di esser vivo
nel momento in cui rimembrai la mia cattura e la mia memoria disvelò
i segni delle botte prese, come un panno leva la polvere da un
vecchio mobile rivelandone i graffi. E a mano a mano che le guardie
mi colpivano nel mio passato, fitte lancinanti straziavano il mio
presente. Capii allora di esser vivo e il buio subitaneo e beffardo
mi colpì alla bocca dello stomaco, facendomi crollare a terra,
nel rivelarmi la mia condizione: prigioniero. Un vortice di
sensazioni mi attraversò in un istante. Sapevo la sorte che mi
attendeva e a questo pensiero la più ottenebrante disperazione
si impadronì di me, sconquassandomi, squarciandomi: sentii le
braccia afflosciarsi lungo il busto; le gambe anch'esse divenire
molli, tanto che ebbi paura di perderle, di vederle staccarsi dal
bacino per cercare la fuga solitaria e allora mi raggomitolai, le
cercai con le mani e le presi e le strinsi a me, mentre iniziai a
piangere il mio terrore.
Non so per
quanto continuai a piangere, incatenato in quella posizione, senza
più cognizione di me. So che il mio pensiero iniziò a
vagare, librandosi leggero sulla mia terra, lasciandosi trasportare
dalla brezza carica di salmastro su sino ai verdi campi che la
mattutina rugiada ancora stava dorando prendendo a strumento i primi
tenui raggi del sole. Ed ancora esso andava; sino ad una piccola
casa, che percepivo essere la mia casa, così calda e
rassicurante. Di fronte alla porta di ingresso indugiò qualche
istante, come ad assaporare la gioia di un rientro a lungo atteso.
Poi entrò. E là, seduta su una poltrona, immersa in una
lettura, ti vidi. Ti vidi amore mio. Dapprima non ti accorgesti di me
ed io ebbi il privilegio di poterti osservare, rapita, concentrata,
assorta, come se in quel momento il tuo corpo meraviglioso non stesse
esistendo nel mondo. Poi mi percepisti e ti girasti a guardarmi con
quegli occhi puri e cristallini, curiosi e intelligenti. Corresti ad
abbracciarmi e baciarmi e tutta la mia tensione, il mio affanno, si
sciolsero tra le tue braccia e le tue soffici labbra e il tuo:”Mi
sei mancato”. Chiusi gli occhi e mi parve di sentirlo il tuo corpo
attaccato al mio, stretto, inscindibile. Ma quando gli aprii trovai
solo oscurità ad attendermi. E allora una rabbia cocente mi
vinse, facendomi formicolare sino alla punta delle dita, straziando
la mia disperazione e la mia paura; urlai con quanto fiato avevo,
balzando in piedi e correndo all'impazzata per la stanza. Inciampai
innumerevoli volte e sempre mi rialzai sempre più furente.
Gridai forte il tuo nome, A.; gridai per la mia libertà;
gridai senza senso, non riuscendo più la bocca ad esprimere la
volontà della mente. Continuai a correre ed andai a sbattere
contro i muri, che in quel buio erano ovunque. Sino a che non crollai
a terra esausto, vinto dalla spossatezza ed abbandonato
dall'adrenalina del furore. Non ti avrei più vista, né
avrei più udito la tua melodiosa voce, dolce come la carezza
di un'amante. No, niente di tutto ciò sarebbe stato. Sarei
morto là. Forse per la prima volta me ne resi conto; di colpo
un peso tremendo nel ventre si materializzò con veemenza tale
che fui costretto a cedervi e a vomitare. Dolorosi furono quei conati
che sballottavano il mio corpo quasi fosse una pallina da tennis: me
li immaginavo su un campo di terra rossa che giocavano concentrati e
competitivi scambiandomi da una parte all'altra della rete. Scoppiai
a ridere, rotolando lontano da dove ero, inseguito dal tanfo della
mia creazione. Risi; risi. Per il puzzo, per il dolore, per la
disperazione, per l'angoscia. Risi sino a che le mascelle iniziarono
a dolermi e credetti si rompessero lasciandomi la faccia deformata in
una posa innaturale. A poco a poco l'ilarità però scemò
via, lasciandomi di nuovo solo, ormai completamente svuotato. Quel
buio opprimente a cui ero per un po' sfuggito tornò a regnare
sul mio mondo, cancellando tutto, non solo forme e colori, ma anche
pensieri e ricordi. Mi sopraffece ed io altro non potei fare che
rimanere immobile, già morto pur senza ancora esserlo. Il buio
così entrò dentro di me, invadendo la mia intimità,
perquisendo i miei sensi come un gendarme con un criminale. Stava
portandosi via tutto, tutto ciò che era il mio essere.
Mentre stavo
già scivolando dalla vita, d'un tratto accadde. Semplicemente.
Inaspettato, improvviso, un punto minuscolo di bianca luce si
materializzò poco più a destra di me; da esso scaturì
un lieve raggio che fendette la mia disperazione, vi entrò
dolcemente, la abbracciò teneramente come facevi tu, A.
Allungai la mano verso quel mistero e mi stupii nel veder comparire
un dito. È buffo un dito staccato dal corpo, come una vanga
senza fattore o una lenza senza pescatore. Pensai che quello non
fosse il mio dito. Perché insomma avrei dovuto sentirlo più
familiare, più affine, più mio. Ecco, avrebbe dovuto
dirmelo che era mio. E invece se ne stava là, tranquillo,
ignaro o disinteressato al mio tormento, come se non avessimo
vomitato insieme poco prima, come se non ci fossimo disperati, non
avessimo riso, non avessimo amato ed odiato, come se non avessimo
vissuto. Ah, dito, dito! Che delusione! Però a pensarci bene
non lo ho forse io deluso di più? In fondo non ho mai fatto
caso a lui, no. Lo ho usato come mero prolungamento della mia
volontà, lo ho piegato alla mente senza mai preoccuparmi di
chi egli fosse, senza mai distinguerlo dagli altri nove. Certo, sì,
lo ho curato, ma questo era mio dovere. E confesso che l'ho fatto per
identificazione con il mondo, per essere civile. Guardai il mio dito
da più vicino e gli promisi che se mai fossimo usciti gli
avrei dato un nome. Però solo se fossimo usciti: perché
è inutile nominare una cosa morta.
La luce
intanto si stava ingrossando, il raggio era più spesso:
dolorosamente percepii pulsare dentro di me un'emozione, la speranza.
Cercai di combatterla, di cacciarla lontano. Ma troppo forte essa
avanzava. Troppo potente in quell'oscurità la presenza
luminosa! Mi arrischiai ad avvicinare il viso al fascio di luce: e fu
primavera, lo sbocciare di un fiore, il volare di un'ape, la corsa in
un campo, la raccolta delle more, il pigiare l'uva, il fare l'amore,
la danza, lo stringere il figlio, il ridere, il volare, il vivere.
Caddi in ginocchio piangendo e tremante cercai di afferrare quel
singolo raggio, di prenderlo, di possederlo, perché fosse mio
e mio soltanto e non svanisse più. Non riuscii ed allora gli
parlai cercando di convincerlo. Gli raccontai della mia vita, di come
ero arrivato a tanto, di quanto ti amassi, A. Pensai che di certo non
poteva rimanere insensibile, che doveva avere un cuore pure lui,
cazzo, non poteva abbandonarmi così. Ma dopo poco cominciò
ad affievolirsi ed io ebbi paura: paura di averlo offeso, di essere
stato troppo insistente, scortese, pedante, noioso. Lo pregai di
restare, gli raccontai cose buffe, strafalcioni, aneddoti. Sordo a
tutto se ne stava andando. Allora un nero terrore, il nero terrore si
impadronì di me. E cominciai a fremere e a gemere, a
strillare, a straziare, a gridare, a piangere sempre di più.
Persi la dignità nell'inseguire la luce che sempre più
si affievoliva, sempre più si rifugiava lontano da me
mendicante, sempre più svaniva. Mi aggrappai al piccolo foro
nel muro con ferocia. Graffiai, annaspai, colpii e di nuovo graffiai.
Eppure fui sconfitto. Tra i singhiozzi e il dolore, mi sedetti di
fronte al buco e rimasi immobile a guardare l'ultimo sprazzo di luce
mentre lievemente mi abbandonava. Gli raccomandai di venirti a
cercare e di scaldarti nelle gelide ore mattutine. Ebbi la sensazione
che ci fosse rimorso nel suo abbandono. Che dopotutto avrebbe voluto
restare, confortarmi, cullarmi con la sua speranza. Lo vidi però
svanire tramutandosi nel greve solitario buio.
Ed in quell'istante, io morii.