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Autore: SinnerCerberus    29/06/2010    0 recensioni
Bene, questa è la mia main story ri-scritta. Non ho nulla da dire in particolare, solo: leggete.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La casa dove mi sono svegliato non ha serrature, posso entrare ed uscire tranquillamente quando voglio. Ladri e malintenzionati non troverebbero nulla di interessante, quindi non me ne faccio un problema. Come immaginavo, non trovo nessuno quando torno. Decido di poter chiamare casa quel luogo. Non ho fame, e non mi preoccupo di cercare viveri. Ho solo un dannato dolore alle ossa, ed anche alle articolazioni. Cosa posso fare? Vorrei un attimo per riflettere, curiosare ed indagare, ma mi mancano le energie. Sono talmente demotivato e pieno di pensieri. Alle otto e quindici lascio perdere tutto e mi stendo su quel letto di ferro, in quella stanza piena di cavi. E' adattato alla mia forma in un modo così perfetto che non sento fastidio, nel dormirci su. Mi addormento immediatamente, mandando al diavolo tutta la logica ed il buonsenso. Il giorno dopo mi sveglio senza problemi, senza aver bisogno di un orologio so già che ore sono, e con naturalezza torno a scuola, nonostante la lezione sia l'unica cosa che non m'interessava. Guardo quella ragazza, la biondina, mentre il professore parla. Tra l'altro anche oggi c'è solo lui, ed ogni tanto se ne va per fatti suoi portandosi dietro una paperella di gomma. Non mi perdo nella contemplazione generale della bionda, ma questa volta osservo i lineamenti, il volto, il sorriso. Sebbene, credo, non sia nulla di speciale, non riesco a smettere di guardarla. E' una calamita, di quelle potenti, ed io non son altro che un insulso pezzo di metallo, in balia del suo potere. Non posso fare altro che essere attratto. E' come se il mio sguardo sia un piccolo chiodo fissato a lei, ogni suo movimento è una vampa di calore; non mi importa di essere notato. A fine lezione perde tempo nel raccogliere alcuni quaderni che aveva fatto impacciatamente cadere. Come voglio salutarla, aiutarla, non lo so, voglio rendermi utile. Purtroppo il tempo è crudele, e lei se ne va senza che io possa raccogliere abbastanza coraggio. Il ragazzo con la frangia attese pazientemente che finissi di sbavare sulla bionda, me ne accorgo solo adesso, e mi chiede – Vuoi venire a casa mia? – Accetto ed usciamo da scuola insieme. Parliamo delle cose che abbiamo in comune. Anche lui si è svegliato in un posto singolare; una stanza al quinto appartamento del quinto piano di un palazzo, il quinto della quinta via. Non ricorda nulla, come me. Solo che io non ho una casa in un posto così figgo. Camminiamo sul marciapiede mentre macchine e motorini creano il traffico. – Non credi che dovremmo avere un nome? Insomma, come possiamo chiamarci? – Mi chiede. – Non lo so – Rispondo in tutta sincerità. – Abbiamo perso tutto della nostra identità, se ci inventiamo anche dei nomi, perderemo ogni possibilità di ricordare. Non vorrei riempirmi di informazioni. – – Vuoi dire che non t'importa di avere un nome? – – Preferisco rimandare. – Cade il silenzio. Il ragazzo sembra immerso nei suoi pensieri, ed anche un po' deluso. Continuamo a camminare, in silenzio. Lui vuole andare avanti, io invece resto qui, senza progressi. Arriviamo, dopo interi minuti di silenzio che parevano ore. Il portiere saluta con aria insolitamente vivace ,mentre chiacchera con qualche vicina. L'ascensore un po' sporco e malconcio ronza in modo inquietante, e si possono sentire i cani dei vicini abbaiare ad ogni minimo rumore. Ciò che vedo a casa sua non mi piace per niente, per le sensazioni che mi dà. Se quel palazzo sembra malconcio, quella casa è una discarica. Sembra la classica casa abbandonata, piena di stracci, polvere, calcinacci e così via. Eppure mi sembra così dannatamente familiare. Attraverso la casa a grandi passi. Il corridoio decrepito, le stanze rovinate, l'odore deprimente di una casa in malora, con la carta da parati bagnata e puzzolente, la muffa stantia fanno parte de particolare arredamento. La delusione mi avvolge, sto guardando qualcosa a cui ero affezionato, sicuramente, ma come se fosse passata una decina di anni. Non c'è nessun'altra spiegazione, ho già visto questo posto. Molte stanze hanno mobili, ma sono ricoperti da teli bianchi. – Ho provato a toglierli, ma non ci riesco. Sembrano più che incollate, non ho idea di che senso abbia. – Ci sediamo su una poltrona rotta e parliamo del più e del meno per un po' di tempo. Se si fa silenzio, mi dice lui, si può sentire un flebile suono di carillon da una stanza situata al centro del corridoio. Tutta via la porta non vuole saperne di aprirsi, e la melodia inafferrabile sfugge ai sensi appena stai per catturarla. Mi trattengo fino a tarda notte, ed alla fine decidiamo che sarebbe meglio se rimanessi lì a dormire, ma non passo una notte piacevole. Non riesco ad addormentarmi. Neanche una goccia di sonno scorre sui miei occhi, e per qunto potesse essere comodo un divano pieno di buchi, non mi sento molto a mio agio. Passo la notte da sveglio a cercare di comprendere la melodia che aleggia nella casa. Non è un carillon, questo è sicuro. E' una musica indistinta, che cambia e si trasforma dolcemente, e quasi non ci fai caso. La mattina dopo lo vedo sbadigliante e bisognoso di una colazione. – Dannazione, muoio di fame, mi mangerei un bue intero. Vivono buoi da queste parti, che dici? – Mi chiede sbadatamente. Io invece non ho fame. Non ce l'ho da quando mi sono ricordato di esistere. Metto da parte questo pensiero ed andiamo a scuola. Non mangiare non è un problema, secondo me al mio vecchio io non piaceva molto mangiare, adesso non m'importa definitivamente. A scuola il professore si addormenta ascoltando col suo lettore mp12 musica tantrica. Alle undici e venticinque secondi, il rosso si gira per parlarmi – E così non ricordi chi sei, eh? E nemmeno il francese lì? – Chiede. Il ragazzo con la frangia, che già era in piedi, si avvicina interessato. – Così pare. – rispondo io. – Nemmeno quel tipo lì se lo ricorda, lo sapete? – Indica il ragazzo dai capelli neri, truccato. Lui si ferma qualche secondo, pensa, e poi risponde. – Rosso, rosso, rosso. Qualcuno ti ha mai insegnato a chiudere il becco quando parli di me? Non farlo più a meno che non te lo ordini io. – Dice il ragazzo dai capelli neri. Il rosso sorride e dice – Io mi dimentico un sacco di cose ultimamente, se può esservi di conforto. – – No, non lo è. – Risponde il francese. Dopo qualche secondo interviene il ragazzo truccato – Io non ho bisogno del mio passato, poco m'importa. Ho tutta la vita davanti, mi sto già divertendo così, comando tutto io, belli. Sapete come mi chiamo, adesso? Il lupo, mi chiamo il Lupo.– – Interessante, Lupo. Come mai hai scelto questo nome? – Chiede il ragazzo con la frangia, mentre rotea distrattamente la sua cravatta, sembra proprio rapito. Lui, il Lupo, è seduto ritto, gambe aperte e braccia conserte. Noto che pensa sempre qualche secondo, prima di rispondere, come se dovesse valutare se la risposta da dare fosse degna di essere ascoltata. – L'ho sentito dentro di me, è l'unica cosa che mi appartiene. Non sono legato a nulla, e se ciò è nato da me, vuol dire che mi appartiene, interamente. Anche voi dovreste fare lo stesso, belli. – Non sono interessato. – Commento timidamente. Gli altri la prendono male, la reputano una sciocchezza e mi guardano storto. – Wow, anche io voglio un nome del genere! A stento mi ricordo il mio. – Sghignazza il rosso. Il discorso finisce tra qualche sghignazzo e commenti stupidi, poi cala il silenzio ed ognuno torna a pensare ai fatti suoi. Osservo il Lupo, che ha trovato una soluzione a questo stato anormale, ovvero l'autoreaizzazione della propria strada. Beato lui. La notte stessa la passo con il francese, ma non parliamo del Lupo, non parliamo di niente in particolare. Come al solito non mangio, né dormo, né mi faccio qualche domanda. Dopo nove ore, il mio amico con la frangia si sveglia e va a fare colazione, io lo guardo silenzioso. Erano le sei e due minuti e trentatré secondi.. trentaquattro.. trentacinque.. Ho una buona concezione del tempo. Anzi, intuisco l'orario fin troppo bene, come se avessi un orologio preciso da qualche parte, dentro di me. Interessante. Sorpreso di questo particolare, decido di fare un resoconto veloce. Mi sono svegliato in una stanza vuota, su un letto duro e pieno di cavi, e solo lì riesco a dormire. Non ho fame. Quando cerco di ricordarmi qualcosa di importante ,automaticamente metto da parte i particolari preoccupante. Nessuno si ricorda di me. Non ho mai fame. Non ho mai fame.. dormo nel mio letto, e mi sento bene. Rifletto, penso al mio letto, a come prendo immediatamente sonno quando mi stendo e poggio la testa sulla rientranza metallica, che ospita la mia testa. Ai cavi, ai fili elettrici, a tutte quelle cose meccaniche ed elettriche che dal letto partono dappertutto, a che possono servire? Al senso di caricamento spontaneo, immediato. Allora mi viene un dubbio, un dubbio che solo ad un idiota può venire. Collego l'idea della rientranza sul letto concava, quella che ospita la mia testa, sulla sua utilità. Tocco la mia testa, tasto i miei capelli, la nuca, ed ecco, li sento. Sono fori, ho dei fori sul collo, sulla schiena, sul cranio. Che diamine sono? Lo so, ovvio. Mi è naturale saperlo, come faccio? Fanno parte di me, di quella coscienza immersa nell'insolito. Sono umano? La consapevolezza è diversa di fronte a questa domanda, la mia mente non mi devia, non sono distratto. Sul serio, lo sono o no? Devo rispondermi. Come faccio già a sapere la risposta? Infilo le unghie nella carne del braccio, e tiro. Fa male, ed è una reazione esagerata, ma mi darà la risposta. Le unghie non si spezzano, ignoro il dolore e tiro, stringo e mi ferisco. Finché finalmente non strappo la carne, per vedere il sangue che ho all'interno. Il sangue che indica che sono umano, un essere vivente, che sono una creature di Dio. Il sangue che non c'è. Mentre il mio braccio si ricompone a vista d'occhio, coprendo i fili metallici dentro di me, tristemente capisco. Il francese entra e mi chiede che diamine sto facendo. – Uhm – Rispondo. – Non sono umano. –
  
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