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Autore: RowanHeyJude    09/07/2010    0 recensioni
L'unica cosa che posso dirvi e che la storia si ispira ad un disegno di Victoria Francès, scrittrice e illustratrice spagnola che apprezzo molto. Il capitolo è incompiuto.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La morte,cos’ è la morte? Possiamo definirci morti quando il cuore che abbiamo in petto smette di battere? Siamo solo fantasmi intrappolati in uno specchio invaso da malinconia e gelida luce che folgora le nostre figure? Ed io,in questo limbo,sono viva o morta? Gelido è il mio corpo e candida la mia pelle. La mia ombra continua a percorrere i corridoi di questa prigione eterna alla ricerca del calore perso. Alla ricerca del sole,che possa distruggere le mie lacrime di pietra scese dagli occhi di una povera illusa,innamorata di qualcuno che non esiste. Il mio lamento possa invadere il vostro cuore fermo e sicuro,affinchè possiate capire il sentimento di un Ofelia intrappolata dalla melma, baciata dal notturno candore. Possa la mia aurea toccare il tiepido viso di voi giovani vergini,poiché non cadiate nella stessa tentazione mortale di cui fui la vittima. Suonate i vostri strumenti, componete ed esprimete il vostro estro prima che l’inchiostro distrugga le vostre parole,prima che il veleno che avete in corpo corroda il vostro cuore. Il ferro delle vostre penne incide cicatrici sulla pelle di coloro che morirono in procinto di nascere come nuove donne,scolpendo sui loro cuori i vostri desideri carnali. Ed io qui vi prego,vi avverto , spero che udendo le mie parole dure non cadiate nella tela del destino immortale. Meditate sulle mie parole,che quello che è stato non si ripeta su di voi. Sperando che il vostro sussulto emesso mentre le vostre dame stringono i lacci dei vostri lussuosi corpetti non sia l’ultimo della vostra vita. Voglio uscire sotto il temporale,voglio sentire la pioggia che mi cade sul petto,voglio entrare dentro il tuono nella folgore del fulmine. Voglio sentirmi viva sotto la luna piena e splendente,una luna paonazza delle offerte a lei recate. Voglio , ma non posso. Relegata nella mia stanza con questa tunica bianca impregnata di umidità. Il pavimento di legno scricchiola sotto i miei piedi che si avvicinano alla finestra,per godere dell’improvviso temporale estivo. Non ho bisogno di candele,le piccole vetrate fanno entrare la luce necessaria,la luce pallida della luna. La luna! Guarda gli uomini dal cielo,guarda le promesse degli amanti,mentre Giove ride di esse. Ci aiuta a far maturare il grano,impedendo al sole di bruciarlo. I marinai attenti la scrutano da sopra le loro barche,le vele spiegate ed attente per cogliere il momento in cui si alza il vento diretto a nord. I lupi la venerano cantando ogni notte per lei , pregando per la propizia caccia,mentre la preda fugge ascoltando il lungo ululato. Un tuono rimbomba nel cielo,sempre più lontano,sempre più vicino alla mia infelicità. Domani sarà un altro giorno, un altro giorno monotono di cavalieri e dame,ricevimenti e benedizioni. Il temporale se ne va,mi lascia sola nello sconforto,e la grande melodia diventa un grande organo stonato e dai suoni cupi. Domani ci sarà messa: ogni donna indosserà il suo più bel vestito, le contadine cucineranno carne , gli uomini faranno curare i loro cavalli e i cavalieri mostreranno fieri le loro cicatrici di guerra. Il mio vestito giace inanimato sulla sedia,pronto per essere indossato l’indomani,alla grande festa di mezz’estate. Mi guardo intorno,cerco un appiglio nel buio , spero in qualcosa che possa cambiare la monotona giornate che mi aspetta. Ma niente,e allora cado in un profondo sonno, e sogno, sogno di essere fatta d’aria,di essere trasparente e leggera,di poter guardare il mondo da un altro punto di vista,di poter accarezzare le guance dei miei fratelli,e improvvisamente mi sento parte di qualcosa di grande,di più grande del mondo,ma che non so spiegarmi. Un raggio di sole mi colpisce sul viso,sento piccoli passi nella mia camera che indaffarati corrono di qua e di la. “Mia signora” mi saluta con un inchino la dama di mia madre. “Devo aiutarla a vestirsi”. Non parlo,cos’altro potrei dire? Faccio scivolare la tunica bianca e gli ispidi capelli mi toccano la schiena,mi avvio verso il centro della stanza,dove la dama mi aspetta con il mio bel vestito color ghiaccio. Il pavimento di legno di quercia profuma più del solito,evidentemente l’acqua deve sprigionare le forze in esso contenute. Le mie scarpette sono dall’altro lato del letto, e i piedi mi fanno male,ma decido non prenderle. La dama, Phebe si chiama,tende le braccia verso di me,e mi cala una fredda tunica sulla testa,che scende sempre più giù,fino a toccare le mie esili caviglie. Un corpetto mi cinge i fianchi,Phebe si appresta a stringerlo il più possibile. Un sussulto,due, sempre più stretto. Le campane della cattedrale si fanno sentire,ma non gli presto molta attenzione. Sono occupata nel guardare un paio di scarpette in velluto poggiate accanto al mantello. “E’ un regalo di vostro padre”, mi dice Phebe che ha notato il mio stupore. Mio padre. Mio padre mi amava e mi conosceva meglio di chiunque altro. E io lo amavo come nessuno. Lui mi aveva insegnato a scrivere,era stato in un convento di amanuensi,prima di fare fortuna come mercante. Veniva da una famiglia povera del feudo,che non poteva permettersi di allevarlo. Mi chiedo se ora sapessero quello che è diventato, trentacinque anni fa l’avrebbero abbandonato di nuovo. Mio padre. Sempre lui. Il forte,il bello,il viaggiatore. Conosceva l’odore delle spezie delle coste dove sbarcavano i crociati,e aveva assistito alle cruente battaglie di una guerra santa combattuta nel nome di un dio chiamato oro. E ne portava la conseguenza sulla guancia sinistra,ormai coperta dalla barba. Mi aveva insegnato a cavalcare,suscitando orrore tra i nobili del luogo,perfino tra i suoi compagni ,così freddi nei confronti delle mogli e delle figlie. Dicevano che si sarebbe meritato la punizione di Dio per quel che faceva. Ma io non gli prestavo importanza. Phebe aveva quasi finito di pettinare i miei lungi capelli che ogni notte si intrecciavano durante i miei sogni. Mi pose una coroncina di candidi fiori sulla fronte. La moda del tempo esigeva una fronte larga e priva di capelli,ma io preferivo rimanere fuori dalle mode delle nobildonne che sottopormi a tale dolorosa tortura. Scesi piano le scale,una ad una. Il sole filtrava dalle finestre di alabastro, e scintillava sul mio mantello di velo e pizzo,sempre un regalo di mio padre,che aveva portato dalla Francia. Phebe era scomparsa dalla mia vista,ma non ne feci una tragedia: era sempre scontrosa con me ed averla fuori dai piedi per un po’ non mi dava per niente fastidio. Mio fratello mi aspettava di sotto. Mi prese per mano, e chiesi dove fosse mio padre. Non mi arrivò nessuna risposta,soltanto l’ordine di viaggiare verso la cattedrale,le cui vecchie campane si facevano sempre più forti, a richiamo dei fedeli che lavoravano nei campi. Uno stallone nero e una cavalla grigia ci aspettavano nel cortile. Era lui il cavallo che mio padre aveva comprato nelle lontane terre della frisia. Era bello,alto imponente. E nero come un corvo. Ma non era destinato a me,che amavo tanto quelle splendide bestie.
  
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