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Autore: Beads and Flowers    12/07/2010    0 recensioni
Questa è la mia prima fanfic, vi prego, siate clementi. Si tratta di una storia comica-dark, inventata da me e i miei amici, trattante l' avventura di una delle più famose tate italiane alla presa con il suo peggior incubo: degli adolescenti decisamente fuori dal comune.
Genere: Comico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Tate contro i MEREH'
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Camilla Rizzi fissava, incredula, quella costruzione davanti al quale era arrivata da più o meno 5 minuti.
Non ne era sicura neppure lei. Tre ore fa era in un piccolo villaggio, chiedendo spiegazioni agli abitanti sulla locazione del “Maniero”, il nome che Gabriele aveva dato alla sua casa in un bigliettino allegato alla lettera.
La cosa strana, tuttavia, era che ogni volta che Camilla chiedeva spiegazioni agli abitanti del grazioso paesino molinesiano, essi rispondevano con un pallore improvviso, una scossa violenta della testa e, infine, la maggior parte di loro scappava via, come se rimanere accanto a colei che nominava quel luogo fosse peccato capitale.
Solo una giovane madre, parlandole a voce bassissima, guardandosi continuamente intorno e stringendo a sè una bambina dall’ aria imbronciata che si succhiava ancora il pollice, le rivelò dove si trovava il luogo.
“Senta, se proprio ci tiene a morire, le dirò dove si trova il Maniero. Esca dal paese, verso le montagne opposte al fiume Trigno, seguendo il sentiero. Ad un certo punto arriverà di fronte ad un cancello alto e nero, che separa la strada da un bel giardino ordinato, pieno di fiori, morbida erbetta e numerosi alberi da frutta... non tocchi nulla,però, mi raccomando! Quel terreno appartiene ai...” esitò un attimo “... ai Mereh. Non mi chieda cosa vuol dire, nessuno lo sa... sappiamo solo che si chiamano così dato il fatto che un cartello con quel nome è appeso all’ entrata. Il Maniero è poco più avanti, al limite opposto del terreno. E’ un po’ vasto, ma la costruzione è talmente grande che si può vedere dai 2 Km che lo separano dall’ entrata senza problemi. Le riuscirà facile orientarsi, ne stia certa.”
“E lei come sa tutto ciò?”
La donna arrossì.
“Vede, da bambina io e miei amici ci andavamo spesso per giocare con la padroncina del luogo. Uno dei ragazzi, Paolo, venne attirato con una mela dalla bambina nella casa. Nessuno l’ ha più visto. Quando raccontai alla nonna cosa era successo, lei mi rivelò che lei, e sua madre prima di lei, arano andate a giocare da quella bambina che aveva offerto una mela simile ai loro amici... da bambina non ci credevo, ma qualche anno fa andai lassù, e la trovai immutata. Era ancora una bambina. Io non ci voglio avere niente a che fare, e lo stesso deve valere per te!” Diede uno strattone alla figlia, la quale smise subito di succhiarsi il pollice.
Riprese, in tono più calmo, “Vede, qualche anno fa altri quattro bambini si diressero là: una bambina molto vivace, un bambino vestito come uno di quegli strambi adolescenti che fanno della musica strampalata e un piccolo bimbo in fasce, tutti guidati da un bambino un po’ più grande dall’ aria mesta. Da allora strane cose sono successe... beh, io le ho detto già troppo, addio.” Esitò nuovamente, poi aggiunse “Buona fortuna, ne avrà bisogno.”
Camilla fece come la donna le aveva detto. La passeggiata, molto faticosa per la maggior parte delle vecchiette, non la scoraggiò minimamente. Una volta arrivata a destinazione, rimase a bocca aperta. Il prato ben tenuto aldilà dell’ imponente cancello era, in effetti, molto grazioso, pieno zeppo di fiori e coperto fino all’ orlo di splendidi meli da cui pendevano numerosi frutti dall’ aria succosa e saporita. Molto più in là si stagliava una possente sagoma nera. Capì che si trattava del Maniero dei Mereh. Si chiedeva cosa stesse a significare quello strano nome. Magari era il nome di quella che aveva tutta l’aria di essere un’ antica casata, forse di origine turca o araba. Si fermò ad esaminare il cancello. Era coperto  pesantemente di ruggine ed era di un nero pece, sormontato da numerosi simbololi bianchi: rune. Su entrambe le colonne, ad ambo i lati dell’ entrata, erano inchiodati dei... crani? Sì, erano proprio crani umani, su cui era intagliato con un coltello: “Tenuta dei Mereh, attraversate il bosco ed arriverete al Maniero.”
Ora, la Tata aveva una abnormale dose di sangue freddo, ma una volta constatato il fatto che quelli erano effettivamente crani umani e non modellini di plastica... diciamo che la sua stabilità vacillò. Ma si riprese subito. Una volta scoperto che il cancello era aperto, entrò senza esitare. Il giardino era proprio ben tenuto, solo dopo un po’ si poterono scorgere alcune insignificanti zolle d’ erba secca. Più in avanti, però, si notava chiaramente la mancanza dei fiori. Alcuni alberi erano secchi. Alla fine, non rimasero che sassi, erba secca e vecchi ceppi carbonizzati. Dopo un quarto d’ ora di caldo, sete e stanchezza, finalmente Camilla arrivò a destinazione. Ora, tutto la Tata si aspettava, tranne questo. Lei si era abituata a graziose casette, ben arredate, dove i bambini erano allegri  spensierati, al massimo ubriachi di TV. Ma non questo. Davanti a lei si ergeva una costruzione a due piani, in stile vittoriano, completamente diroccata. I vetri taglienti erano rotti, il legno era tarlato, dal tetto cadevano mattonelle scheggiate e la porta si reggeva a malapena attaccata alla parete.
“A’ Robè... NO! NO! O’ devano no!... MA KE SI’ MATTA?”
Un divano uscì volando da una finestra, schiantandosi a terra in mille frantumi, e creando un buco nel muro da dove due ragazzini guardavano allibiti. La Tata li riconobbe come Roberta e Nik, i due ragazzi nel filmato. Si guardarono stupiti, un po’ incerti sul da farsi. Poi si schiantarono a terra picchiandosi come ossessi.
“ A’ Robè, sei n’ idiota de m****”.
“Io non miravo mica alla finestra, io miravo a te!”
“Te recordo che sò io che procuro li dindi belli per comprà tutte le cose che tu rompi sempre!”
“Ma che sarà mai! Bum-bum distrugge molto di più di quanto distrugga io.”
“Bum-bum è ancora piccoro, nun ce’ o sai? È poi e fratemo’, non posso mica picchià fratemo’!”
“Tu mi sembri trentamila volte più piccolo di lui!”
Intanto continuavano a picchiarsi. La Tata prese dalla valigia un quadernino e scrisse alcune righe frettolosamente, per poi procedere verso il portico.
Aveva scritto:

I ragazzi risiedono in un’ abitazione decisamente bizzarra, il che potrebbe condizionare seriamente le loro inclinazioni mentali e psicologiche. A questo proposito, i loro intrattenimenti sono alquanto brutali ed incivili.

Provò a suonare il campanello, ma preferì evitare una volta che ne uscì una lucertola. Bussò. La porta si aprì. Davanti a lei si presentò una ragazzina sui quattordici anni, coi lunghi capelli raccolti in una lunga treccia. Indossava un lungo vestito rosso acceso, decorato qui e lì con simboli del cashemere argentati. La salutò col capo, sorridendo.
Una hippy, pensò Camilla.
“Ciao, piccola, come ti chiami?”
Sempre sorridendo, la raggazzina scosse la testa tristemente. Alle sue spalle si fece avanti un ragazzo quindicenne, che teneva in braccio un bambino sorridente. Il ragazzo aveva l’ aria mesta, vestiva di pantaloni, maglietta e mantello (anche se era estate) completamente neri. Il bambino aveva più o meno tre anni, e si agitava in una vecchia uniforme da marinaio in miniatura. Il ragazzo si avvicinò alla bambina e le disse:
“Senti Klara, prendi Bum-bum e vai sopra da quei due a zittirli.” Sospirò “Certo che la vita è proprio ingiusta.”
Diede un pugno al muro, il quale si sbriciolò. Ritirò la mano, e Camilla si sorprese nel notare che non si era minimamente graffiato.
La ragazza, che nel frattempo gli aveva sfilato Bum dalle braccia, salì le scale (scricchiolanti e diroccate) con un’ aria sognante e rassegnata, mentre Gabriele introdusse la Tata nella casa.
“Alla fine è venuta. Ammiro molto il suo coraggio, sa? Venga le faccio vedere la casa, poi ceneremo ed infine potrà anche conoscerci meglio.” Camilla entrò nella casa. L’ atrio era tappezato completamente di un tessuto tarlato, di un rosa carne sbiadito. A destra, a sinistra e in fondo cerano delle porte. Un logoro tappetino grigio copriva svogliatamente una botola nel tereno. Le scale (di un bianco legno scheggiato) erano a chiocciola, e ricordavano molto lo stile ottocentesco. Gabriele la guidò nella stanza a destra, la quale si rivelò ad essere un sala da pranzo molto elegante, tappezzata ancora di un tessuto, stavolta viola e non era tarlato. La tavola era imbandita di piatti di rame arrugginiti. Nel caminetto un fuocherello scoppiettava allegramente. I mobili dal legno scuro avevano tutta l’ aria di essere molto antichi. La stanza seguente era la stessa del video: una vasta sala completamente ricoperta di piastrelle bianche, qua e là macchiate di sangue rappresso. Un tavolo scheggiato, un porta-coltelli e un baule pieno di frutta e verdura. In quella entrò Roberta. I capelli castani erano spettinatissimi, gli occhi lanciavano fulmini e la maglitta “metallicatizzata” stracciata pesantemente. Si voltò di scatto, urlando:
“SE NON FOSSE L’ ORA DEL PISOLINO DI BUM-BUM, T’ AVREI GIA SPACCATO OGNI TUO SINGOLO CD!!!”
“TU NON TA TENGHI DA TOCCA’ A ROBA MIA, AI CAPI’?”
“FACCIO UN FAVORE AL MONDO: IL RAP FA SCHIFO!”
“A’ SEMPRE MEJO DE CHELLA ROBACCIA CHE T’ ASCORTI TU!”
“NON INSULTARE MAI PIU’ IL  METAL, LURIDO VERME!”
“BRUTTA PORCA!”
“MUSICISTA DELLE MIE BORCHIE!”
Senza nemmeno notare i due presenti, si scagliò come una furia sul tavolo,  dove incominciò a tagliuzzare un pezzo di carne.
La Tata scrisse:

Non conoscono il linguaggio appropriato: sono maleducati assai e si insultano a vicenda.

“Che fai, bella bambina?”
Roberta la guardò, infuriata, e senza rispondere ricominciò  a tagliuzzare. Dopo un po’ mormorò:
“Cucino.”
“Ah, che bello! Aiuti in casa, eh? Bene, bene! Molto brava davvero,... e che cucini oggi, di bello?”
“Il pompiere.” disse.
“Ah... ah.”  la Tata non proferì più niente.
Seguì, poi, il bagno. Stranamente, qui tutto sembrava normale. Era un bagno occidentale, con water, box-doccia e bidè. Tutto era rigorosamente di un bianco sporco. Cerano tre porte: una riconduceva all’ atrio, l’ altra alla cucina e l’ ultima al salone, dove si diressero i due.  Era molto grande, anch’ esso tappezzato in velluto, stavolta tarlato come l’ atrio, di un blu scuro. Vari sofà e poltrone erano disposti attorno al fuoco nel caminetto.  In un angolo c’ erano un tavolo da ping-pong e un tavolino con una bambola sopra. Sopra una poltrona erano poggiati 5 libri. La Rizzi lesse i titoli.

  • Cucina Cannibale degna d’ Annibale.
  • Chi dice che i soldi non sono tutto nella vita?
  • La morte: l’ unico orizzonte dell’ uomo.
  • Alice nel paese delle meraviglie.
  • Il bel trenino rosso che andò al mercato ed esplose uccidendo tutti i bambini.

La seconda porta riconduceva all’ atrio. Gabrile aprì la botola. Camilla si strinse a sè il golfino, vedendo il fitto buio dall’ interno che preannunciava un gran freddo. Le ripide e scivolose  scale sembravano condurli in una specie di cantina, considerando i numerosi ratti che incontravano e la spaventosa umidità. Scendevano sempre più giù, sempre più giù. Arrivarono davanti ad una piccola porta di legno marcio, che sembrava vecchia di mille anni o giù di lì.
“Questa è la camea di Nik e di Bum-bum.” Disse Gabriele.
Aprì piano la porta, e subito Camilla pensò di essere diventata cieca. La luce che proveniva da quella stanza era abbagliante, incredibilmente abbagliante! Una volta ripresasi, la Tata si fece coraggio ed entrò nella stanza. Era completamente placata in oro! Le mattonelle per terra, le piastrelle sui muri, il gigantesco stereo al centro della stanza, il letto in un angolo (coperto da un leggero strato di lenzuoli in seta), la culla (anch’ essa coperta da lenzuoli di seta che coprivano il piccolo Bum-bum, il quale dormiva beato nonostante tutta quella luce), la piccola gabbia che aveva tutta l’ aria di esere stata strappata da un laboratorio (era aperta e vuota), il tavolo pieno di carte e di scontrini, la scrivania con sopra un lap-top modernissimo e un’ altra gabbia dorata (stavolta per uccelli, e all’ interno svolazzava Titti, il corvo che aveva portato la scatola), e anche il gigantesco armadio (sul quale erano posizionati, in ordine alfabetico, tutti i CD della storia del rap): ogni singola cosa era dorata, completamente dorata.
Alle loro spalle si aprì la porta. Ne uscì Nik, che teneva per mano un cucciolo di scimpanzè, tutto infuriato e brontolante.
“Chella là nun cià o’ diritto de trattarme così. Dopotutto, le ho solo detto che a’ cucina sua fa schifo.”
“Nik, sai come sono le donne.”
“Chella nun è mica na’ donna: è un lupo mannaro.”
“...”
Mentre rinchiudeva lo scimpanzè nella gabbia, il quattordicenne spiegò:
“ Te spiego: prima è tutta gentire e carena con mì. Me fa i mei piatti preferiti, un fruttevendolo  o un esattore delle tasse qua e là... poi ce sedemo a tavola. È là che comenciano li casini! Parlemo del più e del meno, ma poi chella se mette a parlà de musica! Me dice :‘ Nik, ma ce o’ sai der nuovo disco metal!? Na’ figata!’ E io le dico :‘ Sì, ciai raggiò, a’ Robè, ma o’ rap è mejo.’ Poi ce mettemo a discutere. Poi ce picchiemo. Ed infine, cando meno te l’ aspetti, quella pazza te lancia addosso o’ devano, che IO ho comprato, coi dindi miei!”
“Hai scelto tu di dirigere gli affari in casa nostra, conoscevi le conseguenze, no? Comunque hai ragione: la viata fa così schifo!”
“Ciai raggiò, Gabriè! Ciai proprio raggiò!”
Detto questo, si sedette alla scrivania ed incominciò a scrivere qualcosa sul suo moderno computer.
Camilla scrisse:

Hanno poco rispetto l’ uno dell’ altro, ignorono completamente la presenza di un ospite estraneo e svolgono compiti non adatti alla loro età.

Ritornarono all’ atrio, ed incominciarono a salire le scale. Più volte il piede di Camilla sprofondò nel legno (anch’ esso marcio) delle scale. La prima cosa che notò al piano di sopra, fu che non c’ era traccia del gigantesco buco che si era creato con l’ incidente del divano. Lo stesso divano era tutto intero ed al suo posto lungo il corridoio, rivestito in legno chiaro di betulla. C’ erano due porte, ad ambo i lati del mobile. Ad entrambe le fini del corrido, c’ erano due porte-finestre che conducevano al grande terrazzo che coincideva col portico al piano di sotto. Entrarono nella prima porta. Era la cameretta di Klara. Qui camilla si sentì un po’ più a suo agio. Era una piccola cameretta, in stile vittoriano, per bambine. C’era un’ unica finestra, che dava sull’ unico albero vivo nei dintorni: un pino. La stanzetta, dipinta di arancione, era completamente rivestita di scaffali, sui quali erano poggiate innumerevoli bambole di porcellana. Su una scrivania, oltre alle immancabili bambole, c’ erano diversi libri di fiabe ingialliti, della carta da lettere, un calamaio ed una graziosa gabbietta con all’ interno un bel conglietto nero. Sull’ antico letto di mogano, sedeva Klara, la quale dava le spalle ai due, trafficando con le mani qualcosa.
“Oh, che bella cameretta che hai, cara!”
La ragazza si voltò, e le rivolse un sorriso completamente spaesato, che incuteva un non-so-che simile al timore.
“C-che fai, tesoro?”
La ragazzina ridacchiò. Alzò piano piano un cosa che sembrava, a prima vista, un pezzo di plastica grigia bagnata. Ma, guardando meglio, vide che era una bambola. Il calore e l’ accoglienza di quella cameretta svanirono un istante. Era una bambola nuda, senza occhi, impregnata dal colore della polvere. Non aveva le braccia ed aveva una sola gamba. I capelli neri erano stati tagliuzzati in modo orribile, vari tagli li erano stati imposti dalle forbici che Klara, che continuava a sorridere in quel modo orribile, teneva in mano.
Gabriele dovette spingerla fuori.
Mentre procedevano, la Tata lanciò uno sguardo verso la porta dell’ uscita.
“Non ci pensi neanche: è chiusa a chiave.”
Lo guardò con orrore.
“Ma dove sono i vostri genitori?”
“Quelli di Klara sono morti molti anni fa, di vecchiaia. I miei sono stati portati via da... una persona. Quelli di Nik e Bum-bum sono stati soppressi nel laboratorio dove erano rinchiusi insieme a Roberta.”
“E... e quelli di Roberta?”
“Oh, nulla. Li ha uccisi lei.”
Per poco Camilla non svenì.
La stanza seguente era quella di Roberta. Era in pietra. Al centro si ergeva un trono, fatto completamente di... NO! ALTRE OSSA NO! E invece sì. Un trono fatto di ossa! Ai suoi piedi, due Dobermans giocavano e saltellavano intorno ad un pezzo di carne andata a male. Le pareti erano letteralmente tappezzate di arme di ogni genere, dalle fionde alle bombe a mano.
La Tata non resse.
Svenne.



   
 
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