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Autore: lon8tana    15/07/2010    3 recensioni
“Voglio la treccia col nastro rosso” devo aver detto, conoscendo la mia mania di abbinare gli accessori a quello che indosso. Lo faccio tuttora anche se con minor senso. Non sempre la memoria è precisa in verità, ma con un po’ di buona logica la si può aiutare con ragionevole approssimazione.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! Sono secoli che non scrivo e qualche lustro che non leggo decentemente. Questa è una mia "cosa" di qualche tempo fa aggiunta qui per reazione ad una bellissima mail ricevuta. Le parole scrittemi mi han fatto ricordare quanto ci rimango male quando perdo di vista lo scrivere di qualcuno che seguivo con attenzione. Pertanto ecco un "contentino". Non che mi ritenga qualcuna da seguire, ho scritto così poco, ma
voglio fare contenta una “fan” (uhauhauauhauhaua Una fan?! Moi?! Uhuhauahaua… me/ si schiaffeggia allo specchio per l’ardire
J
.)
Un bacio a tutti,
Dan


Il nastro rosso

Irragionevolmente le poso la mano sulla spalla pur sapendo che se ne rimarrà immobile alla finestra, a guardarmi giù in strada inforcare il vialetto del giardino saltellando.
Ho come l’impressione di risentirmi canticchiare quella stupida canzone. Quella che parla di elefanti in equilibrio su un sottile filo di ragnatela. E’ proprio cosi che mettevo i piedi uno avanti l’altro, come in equilibrio, appunto, su una linea invisibile. Sgranando numeri in progressione… uno, due, tre elefanti a dondolarsi come tanti idioti nonostante la loro mole.
E sfido chiunque a camminare celermente con un paio di ballerine rosse fiammanti, la fibbia di traverso e le suole nuove scivolose. Ma a me pareva cosa da nulla improvvisarmi circense pur senza il vuoto sotto. Mi ci sentivo bravissima.
“Voglio la treccia col nastro rosso” devo aver detto, conoscendo la mia mania di abbinare gli accessori a quello che indosso. Lo faccio tuttora, anche se con minor senso.
Non sempre la memoria è precisa in verità, ma con un po’ di buona logica la si può aiutare con ragionevole approssimazione.
Qui nel soggiorno noto, in controluce, il dorso della mia mano striarsi di vene e solchi che prima sembravano non esserci. Mi rendo conto del tempo che è passato da quando era liscia e morbida e mi sento strana in questa mia pelle adulta. Da bambina vanesia a donna insicura il passo è stato insospettabilmente breve. Nel mezzo una voragine, a volte. Oppure, quando mi concedo di ricordare, sempre più spesso, un’angoscia sorda s’incolla ai fatti nudi e crudi con cui mi trovo a dover fare i conti. Inutilmente.
Sposto appena lo sguardo ed eccola, la sua nuca raggrinzita da uccello stanco. I capelli bianchi si mischiano a quelli neri in ciocche disordinate e sfuggenti dal mollettone scalcagnato.So che in questi momenti non devo parlarle. Lo so dal tremito delle spalle e dai bisbiglii indistinti che emette senza quasi prender fiato, in apnea.
Per la prima volta da anni ho bisogno che il mio peso, la pressione della mia mano, faccia leva sul suo corpo per riportarla a me. Sforzo inutile, mi ignora con ostinata perseveranza. Come tutte le altre volte che ho provato il desiderio di strapparla via da quella finestra.Non so nemmeno cosa mi spinga a farlo dal momento che, non appena le diciannove saranno scoccate nel gong secco e metallico dell’orologio a pendolo, è certo che lei si volterà e inizierà a darmi il tormento come se nulla fosse. Pressandomi con domande e premure soffocanti.
E allora perché non preferire questo silenzio immancabile e puntuale come il sorgere del sole?
Mezz’ora esatta al giorno di sollievo, se sollievo può chiamarsi questo suo catatonico isolamento. Senza bisogno di cronometro, questa mezz’ora mi si scandisce dentro con lentezza e non mi resta che aspettare.
Potessi guardarle il viso, nelle sue pupille immobili, sono sicura, vedrei il riflesso di lui giù in strada, poco oltre il cancello. Mi aspetta col motore acceso, appoggiato al manubrio della moto.“Salta su, principessa”. Ma questo lei non può sentirlo. E nemmeno ricordarlo.
Il gong del pendolo mi fa trasalire cogliendomi di sorpresa. Già le diciannove esatte.Stavolta ero cosi assorta da non essermene nemmeno accorta.Come previsto lei si gira con gli occhi annacquati e tremolanti. La sua voce, ingannevolmente lieta, trilla entusiasta “Tesooooro, cosa vuoi per cena?” Potrei risponderle qualunque cosa. Ma so che tanto lei ha gia deciso. Cosi le dico ciò che vuol sentirsi rispondere. “ Cotoletta e patatine. E gelato naturalmente.” Il mio presunto piatto preferito.Sorride soddisfatta. Poi sparisce in cucina con fare attivo..Le vado dietro perché non mi permetterebbe di stare per conto mio. Ha bisogno di avermi costantemente intorno e io non riesco, letteralmente, a sottrarmi. Perciò la seguo rassegnata.
Oggi sono stanca. Mi sono accorta con raccapriccio di essere adulta ma di sentirmi centenaria. L’ansia mi opprime.
Sono intrappolata in questa casa come un malato di cancro morente lo è al suo letto. Ma a me non è concesso sperare in una salvifica eutanasia. Odio queste mura silenziose. Ma a lei non posso dirlo. Odio le foto sul camino, il mio piumone rosa vecchio di anni e, soprattutto, odio la cotoletta che rimarrà nel piatto intatta, cosi come il gelato sciolto nel bicchiere. Lei che, esasperata, butterà via tutto dicendomi gelida quanto sia inutile digiunare. Poi, alzando il tono, accorata, ribadirà quanto mi ama e che non vuole restare sola in questa casa. Che sono la sua bambina . Che tutto andrà bene se farò come dice. Basta! Ma è un urlo silenzioso che lei si rifiuta di ascoltare. Mi si stringerà il cuore nel sentirla piangere nella notte, già lo so. Contro le sue lacrime sono impotente. Come in molte altre cose del resto. Questa angoscia che attanaglia il petto non la sopporto più! Al pari dei libri, dei vestiti e delle scarpe che mi compra. Tutte cose che non userò mai, ma che continua a mettermi davanti convinta di vincere la sua guerra.
Ho trent’anni. Nessuno lo direbbe. Ne ho cosi tanti e non vedo mio padre da quando ne avevo otto.
Allora veniva a prendermi con la moto tutte le sere. Abbinavo i vestiti per lui. Perché mi vedesse bella e decidesse di portarmi via una volta per tutte. Lo seducevo di baci e cinguettii solo per sentirmi chiamare principessa.Poi lei l’ha allontanato da me. Dal giorno esatto che evoca, guardando fuori dalla finestra, ogni sera.
Lui non mi merita. Sono solo sua.
“Mamma” le dico.
Non mi ascolta. Non lo fa mai se non è lei a reggere i fili del discorso. Ad indurmi alle risposte che si aspetta.
“Mamma, credo che dovrei andar via. Per il bene di entrambe.”
E’ inutile. Sta già sparecchiando e tra poco batterà con la mano sul divano, al posto accanto a sé, per guardare la tv assieme. Parleremo della mia laurea, del mio fidanzato, dei miei futuri figli, della grande casa dove la porterò a stare.
“Ascoltami. Ragiona. E se me ne andassi?” bluffo di nuovo, sapendo che tanto non lo farò mai senza il suo consenso.
Mio padre non so più dove sia. A dire il vero so ben poco anche di altre persone che conoscevo. Mi ha fatto il vuoto intorno. Certo, potrei tentare, faticosamente, di mettermi in contatto. Ma non so se sia fattibile e di certo è meglio cosi. Che mi abbiano dimenticata col passare degli anni.

E’ quasi l’una di notte. La casa, ammesso sia possibile, è ancora più tetra adesso che lei dorme. Sul viso mi scorre una lacrima che non dovrebbe esserci. Mi avvicino alla finestra e guardo in giardino.Anche se l’ora non è quella ed è buio, riesco a vedermi sbucare dal portico in equilibrio su un piede solo. Sto cantando di elefanti che presto, moltiplicandosi, diverranno quattro, cinque, otto, nel mentre mi guardo la punta delle scarpe rosse. Me le ha comprate mio padre e mi sembrano bellissime. Lo vedo, giovane e forte, come un Peter Pan che non vuol crescere. Rompendo le righe del mio equilibrismo gli urlo incontro. Corro per raggiungerlo. Salta su principessa. Peccato io abbia le scarpe nuove e le suole ancora scivolose. Troppo per il pedale unto d’olio sul quale poggio il piede. Nello slancio dell’altra gamba che sta per cavalcare la sella mi inclino all’indietro e cado mentre lui parte. Un volo breve e confuso. Poi giù fino al marciapiede su cui sbatto la testa. Forse il nastro rosso della treccia, quello che credo di ricordare, altro non è che lo squarcio profondo e sgorgante di sangue che mi ha lasciata inerme ed assente vicino al mio papà in lacrime.
Del dopo non ho memoria perché lei non me l’ha permesso. Sempre con buona approssimazione di logica presumo, o piuttosto sono certa, che lei fosse là, alla finestra. A guardarmi portar via da mio padre. L’incidente le ha solo dato l’alibi necessario per allontanarlo da me. E un motivo in più per odiarlo, quel marito fedifrago e giovane che le ha succhiato la bellezza e poi preso il volo. Da allora mia madre ha un’unica grande eccentricità di cui tutti sono a conoscenza e sulla quale non permette intromissioni di sorta. E’ ossessionata da me.
Forse solo nell’ora di quel giorno, tutti i giorni, per tutta la mezz’ora successiva, lei fa andare tutto per come è realmente stato. Senza bugie né menzogne né accuse. Ma per il resto del tempo vivo qui perché lei lo desidera. E cresco. Sfiorisco.
Faccio le cose che vuole io faccia, in questa mia vita insensata che lei pretende sia piena e appagante. Me ne sto aggrappata al suo amore egoista perché non mi lascia andar via. Ne morirebbe. Sono l’ultima cosa che le resta.
E quanto vorrei che, per esempio, alla prossima visita in cui il dottore le chiederà condiscendente come sto quest’oggi, lei, invece di raccontare l’ennesimo episodio o lamentarsi di me, dicesse, facendomi volare via:
“Dottore la smetta di prendermi in giro. Lo sa che mia figlia è morta che aveva appena otto anni.”

  
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