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Autore: marie le bon    25/07/2010    0 recensioni
Introspezioni pericolose di una mente ubriaca
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un altro Natale passato. Passato in solitudine. Ero sola. Rimasta senza nessuno, anche il rimorso, la pudicizia, la paura se ne erano andate, era rimasto solo il cinismo, compagno di vecchia data e sempre fedele.

Così con un libro, un pacchetto di sigarette e tanto vino rosso, così un altro Natale.

Per me il colore rosso ormai era associato solamente all’amata bevanda, l’unica che mi portasse conforto nelle ore passate a combattere con i mostri che si annidavano negli abissi della mia coscienza e che, anche se assopiti, bastava un nonnulla perché si risvegliassero e mi facessero piombare in uno stato d’essere che temevo. Temevo di dover fronteggiare quei fantasmi, perché, nonostante li chiamassi così e non si vedessero, in realtà non avevano quella natura impalpabile, ma erano fatti d’una armatura più resistente di qualunque acciaio e stavano ritti davanti a me, che li combattevo con uno scudo fatto di burro.

Ogni cosa nella mia testa era amplificata, ogni emozione, ogni colore. A volte non riuscivo ad emergere dal buio e mi perdevo negli anfratti dell’anima. Sul mare blu scuro, su cui galleggiavo sopra la mia misera zattera di legni marci, tirava un vento cattivo che mi strappava la carne a morsi e mi stringeva il cuore. Due volte rischiai di perdere l’equilibrio precario e tentai di togliermi la vita.

Una delle due volte, soprattutto, ci andai molto vicino, facendo uscire del sangue dalle vene del polso sinistro.

Pensavo che la mia vita fosse effimera, senza senso. Non trovavo riscontro, né comprensione negli altri. Mi sembrava che fossero tutti giunti ad una conclusione, la più giusta, alle loro ricerche, ad una risposta ad ogni loro domanda, che fossero compiuti dentro e fuori, mentre io ero ben lungi dall’esserlo.

Le mie maniere erano, a volte, troppo infantili, le mie parole erano troppo stupide e scoordinate, i  miei ascoltatori erano incapaci di cogliere il mio animo, io stessa non ero in grado di esprimermi, così che preferivo stare in silenzio. A volte, presa dalla voglia di leggerezza, dato che i miei pensieri erano sempre foschi, amavo schioccare un dito all’interno della guancia….venivo tacciata come uomo. La separazione tra uomo e donna dentro di me non era così netta come la realtà voleva far credere.

Il Natale era la festa che preferivo da bambina, quando ancora credevo agli angeli buoni ed ero convinta che Gesù mi amasse e mi proteggesse. Avevo un sacco di angeli, ma soprattutto uno era tutto e solo per me, mio fratello morto neonato. Era lui che mi assicurava buoni sogni, buone amicizie, buone maestre, una buona sorte. Era lui che avrebbe soddisfatto tutte le mie necessità spirituali, ed era lì a mio unico servizio. Quando smisi di crederci per davvero? Non ricordo un fatto in particolare, ricordo solo che il passaggio fu brusco.

Il Natale con il passare del tempo mi aveva sempre più nauseato e sconvolto, con il suo apparente significato di pace e con il suo non senso nella realtà dei fatti.

Mi spiazzava questa doppia natura negli uomini, in cui il fattore ipocrisia giocava un ruolo così importante. Almeno, mi dicevo, io non sono come tutti, io soffro, sto male, anche fisicamente, sono diversa, asociale a tratti, ma combatto dentro di me una guerra campale, mi faccio delle domande, sono sempre in divenire. Gli altri li vedevo nell’immobilità perenne, con le loro belle risposte preconfezionate, la loro vita preconfezionata, i loro sogni e le loro ispirazioni già collaudati da migliaia di esseri umani prima di loro. Stavo superando lentamente la fase dell’invidia per la tranquillità del mio prossimo, e stavo entrando nella fase della superiorità e dell’orgoglio spirituale. Mi rendevo conto, o credevo di farlo, che la loro era un’ipocrisia dei fatti.

Mio padre era riuscito a crearsi l’immagine della brava persona, del bravo professionista, del buon uomo insomma ed era riuscito a convincere tutti. Era riuscito a nascondere la parte più infamante del suo animo,  quella più macabra e miserevole, ma io l’avevo scoperta, mio malgrado, e lo disprezzavo, e, nonostante a volte mi facesse molta pena, lo odiavo profondamente.

Mi sconvolsi quel giorno che mi resi conto che il mio odio così profondo, così radicato, così estremo, non era altro che un ulteriore modo per amarlo. Gli opposti si toccavano e io non ero più in grado di distinguere l’amore dall’odio. Provavo profondo rancore per lui, ma quel sentimento altro non era che gelosia e bisogno di possesso infantili, trasmutati in un sentimento peggiore. Avrei voluto che fosse diverso, plasmarlo secondo il mio bisogno, non riuscendoci non trovavo altro modo di sentire che odio. Non mi ripresi più.

Lo maledicevo per il dolore che mi aveva provocato, per le verità che mi aveva obbligato a condividere nell’omertà.

Quando lo perdetti non versai nemmeno una lacrima, ma anch’io  fui in grado di recitare la mia parte nella commedia umana, quella che tutti s’aspettavano che io recitassi, quella della brava figlia. Si congedarono tutti da me, i bravi parenti, i bravi amici, i bravi vicini, gli amabili compaesani e mi lasciarono sola. Ero diventata una vera professionista a nascondere il mio vero io, mi ero sdoppiata.

Da quel momento mi accorsi di quanto era dolce e inebriante quel liquido rosso, che mi portava progressivamente tra le braccia di una rovinosa fortuna, la morte. E quella bevanda sostituì ogni angelo, ogni demone, ogni significato di vita e di morte. Divenne il mio unico amico e il mio unico consolatore. Divenne la ragione della mia vita, la neonata che volevo essere o avere.

Mi sono mai voluta veramente bene? Posso dire di no. Forse da bambina, quando credevo ancora. Poi non più. A volte avrei voluto sdoppiarmi in un’altra me stessa più piccola per insegnarle, insegnarmi a vivere, a stare bene, ma poi ogni desiderio e ogni volontà si convogliava nel vino.

Avevo preso l’abitudine del bicchiere e lo nascondevo molto bene. Anch’io ero diventata quello che la società voleva che diventassi: un’ipocrita.

Perciò quel Natale ero sola. Sola perché incapace di vivere tra le persone.

Quella sera nevosa del 25 dicembre chiusi gli occhi dopo l’ennesima sigaretta e l’ennesimo bicchiere e mi chiesi dove stessi andando. Salutai il nero che i miei occhi videro con un sospiro di sollievo…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



  
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