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Autore: marie le bon    25/07/2010    0 recensioni
un uomo rimasto vedovo non riesce fare altro che provocare nuovi dolori. Ambientato in un paesino rurale veronese del pre guerra mondiale
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Bepi era ormai già considerato vedovo. Le vecchie zie andavano in chiesa ogni sera a recitare le novene per lui e per i bambini piccoli, cinque gliene aveva dati la seppur troppo giovane moglie, ma il tifo non dava scampo.

E infatti dopo aver sopportato dolori atroci, finalmente la donna spirò.

Egli vagò per il paese ubriaco e disperato per giorni, bestemmiando ad ogni passo. Non si capiva se si lamentava per il dolore provocato dalla morte della moglie, strano, visto che la picchiava sovente per farla rigare dritto, o per il fatto di dover allevare da solo cinque bambini.

Lo ritrovò il castaldo Bortolo, nella proprietà del conte, tre giorni dopo il funerale, disteso sulla paglia della stalla, lorda di vomito rossastro. Nessuno comprese come avesse potuto scavalcare l’alto muro di sassi di recinzione della proprietà, visto il suo stato di ubriachezza.

Di certo lui non lo spiegò mai. Da quel giorno cadde in uno stato di mutismo, da cui non uscì più per parecchi anni a seguito.

E fu così che la famiglia si disperse.

Per procurarsi da bere vendette prima i due campi che usava coltivare e su cui poteva contare per vivere, poi vendette il mulo, il carretto e tutta la dote della moglie.

I figli, quattro femmine e un maschio, erano delle ombre sullo sfondo per lui. Non esistevano, almeno non meno di prima che la loro madre morisse. Lui non capiva niente delle faccende di casa, non si intendeva della cura dei figli, non era loro attaccato, quando non passava le giornate seduto sullo scalino di fronte casa, girava sconsolato per le strade, fermandosi di tanto in tanto a chiedere un bicchiere di rosso.

Dovettero così intervenire le zie.

Si suddivisero i fratellini. Due delle sorelle più grandi andarono con una delle zie in Svizzera e due andarono con un’altra a servizio da due famiglie signorili a Verona. Il maschio, però, il padre non lo volle lasciare.

Il Bepi si impose e decise che il Cesare doveva rimanere. Questo bambino aveva preso il carattere difficile del padre e già da piccolo dimostrava la sua aggressività. Era introverso, e sovente faceva a botte con i suoi compagni di gioco. Era spesso escluso, perciò, dalla banda dei ragazzini del paese, che, tra l’altro, si divertivano a prenderlo in giro chiamandolo “Picino rosso”[1], essendo il più giovane della sua famiglia e avendo i capelli rossi.

Lo canzonavano quando lo vedevano da lontano urlandogli “el pi bon dei rossi l’ha copà so pare”[2] , lui alzava il bastone appuntito che si era costruito e snocciolava nella loro direzione una fila di bestemmie, che ripeteva meccanicamente per sentito dire, non comprendendone ancora il significato.

Si fece perciò già da piccolo una brutta fama, il prete lo aveva dato per perso, per figlio del diavolo, le vecchie si segnavano di nascosto nel vederlo passare e commentavano sotto voce che non ne sarebbe venuto fuori niente di buono, le madri ammonivano i figli di stargli lontano.

All’età di sette anni era un bambino già con gli occhi da adulto, cattivi e sofferenti, come se avesse preso su di sé tutti i malanni di suo padre e del mondo.

Il padre  decise comunque di ricavarne qualcosa di utile da quelle due braccia che aveva per casa.

Fu così che una mattina gli presentò un fagotto, con pochi stracci, e lo portò a “famiglio” in una casa di campagna di certa gente con la quale, in tempi migliori, aveva concluso affari.

Venne firmato il contratto, venne bevuto un bicchiere di vino e il Bepi con una pacca sulla spalla lasciò il bambino in questa famiglia di sconosciuti.

Non si seppe mai cosa provasse il Cesare, certo è che servì parecchia “stroppia”[3] sulle gambe e sulla schiena per farlo stare al suo posto e per farlo lavorare. Aveva il vizio di scappare, e non aveva voglia di lavorare. Una volta fu trovato sulla riva di un laghetto con la lavagnetta della figlia dei padroni. Era anche un ladro.

Per punizione veniva mandato a letto senza cena, e, visto che spesso mangiava poco anche a pranzo, poteva capitare che per giorni non mangiasse niente.

Un giorno non riuscì più ad alzarsi dal letto. Aveva le giunture gonfie e doloranti, una sorta di rachitismo. Il medico era troppo costoso e poi non valeva la pena di chiamarlo per così poco, così la famiglia decise di affidarsi alla comare. Ella venne una sera e, fatti uscire tutti dalla camera, applicò sul gonfiore della paglia intrisa di una mistura di olio e uova, borbottando parole incomprensibili. Il padrone, da fuori, bestemmiava per lo sperpero di prodotti.

Così al caldo, per la prima volta, dopo anni, in un letto vero, il Cesare guarì lentamente, anche se le ricadute frequenti lo resero un soggetto troppo debole e fragile per essere utile al lavoro in campagna.

Il padrone lo riportò indietro e il Bepi lo prese a calci, incolpandolo di essere incapace di mantenere un’ occupazione.

Il Cesare, che ormai aveva dieci anni, fu mandato come apprendista da un fabbro. Non poteva più vivere con il padre nella sua vecchia casa, egli si era risposato e la nuova moglie non voleva avere tra i piedi quel bambino strano e odiato da tutti.

In bottega, un giorno qualsiasi, mentre stava accendendo il fuoco, il Cesare si rovesciò addosso il contenuto della grande pentola, si ustionò e spirò nel momento esatto in cui il fabbro mise piede nel locale.

Al funerale del piccolo Cesare c’era molta gente, il Bepi, in prima fila, era lì anche lui.

Piangeva lacrime alcoliche.

 

 

 

 

 

 


[1] Bambino rosso

[2] “Il più onesto fra quelli con i capelli rossi ha ucciso suo padre”.

[3] Pianta con rami lunghi, usati come fruste.

  
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