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Autore: _KyRa_    26/07/2010    1 recensioni
Si sentiva ancora una bambina, piccola, immatura. Come poteva solo lontanamente pensare di compiere un salto talmente grande da gravare sulla sua intera vita?
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'This is it.'
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bowng to the facts

Chapter One.
- Bowing to the facts -



Il rumore dei suoi passi fu l'unica cosa in grado di udire lungo quell'infinito corridoio; la cartellina dove teneva tutte le sue schede era stretta al suo petto, quasi con fare protettivo. Lei era così: attenta e protettiva con qualunque cosa fosse sua.

Non tardò molto prima che arrivasse nel suo ufficio. Il buio l'avvolse e, dopo aver posato alla cieca la cartellina sulla sua scrivania, raggiunse le finestre per sollevare le persiane, permettendo alla luce di fare il proprio ingresso in quella stanza. Aprì un'anta per far sì che un po' d'aria tedesca la rinfrescasse e successivamente andò a sedersi sulla sua poltrona in pelle nera. Mentre si accingeva ad aprire la cartellina, buttò un occhio all'orologio appeso alla parete. Le otto: di lì a poco sarebbero arrivati i ragazzi, tra cui il suo incubo ricorrente.

La sua famiglia non era mai stata molto agiata e di certo non poteva dire di aver sempre galleggiato nell'oro. Molto modesta, comprendeva sua madre – una donna di mezza età che faceva la casalinga – e suo padre, il quale doveva riuscire a far trovare il pane in casa grazie al solo aiuto del suo sudore. Nonostante questo, Monique non ne aveva mai risentito. Aveva sempre vissuto nell'assoluta normalità ed i suoi genitori non le avevano mai fatto mancare nulla. I problemi però avevano cominciato a sorgere una volta abbandonata la sua casa nativa, per trasferirsi in un monolocale e vivere da sola. Iniziava a capire cosa volesse dire lavorare e faticare per mantenersi, caricarsi di molte responsabilità di cui forse prima non conosceva nemmeno l'esistenza.

La fortuna le aveva concesso di trovare un lavoro come traduttrice. Avendo studiato l'inglese, lo spagnolo, il francese e l'italiano, non le era rimasto difficile ottenere quel posto a soli vent'anni, per di più per le ultime persone che avrebbe mai immaginato: i Tokio Hotel, la band tedesca più famosa del momento.

Con lei erano sempre stati tutti molto gentili, eccetto uno.

Tom Kaulitz – chiamato anche “SexGott”, “Gemello Cattivo”, “Sex Machine” e quant'altro – l'aveva presa in antipatia sin dal primo giorno e lei non aveva mai perso tempo a capire quale fosse il reale motivo. Tutto ciò che doveva fare con lui, era non perdere le staffe, o avrebbe perso anche quell'importante lavoro con la stessa velocità con cui l'aveva trovato, ed era decisamente l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento.

Ora la situazione le era sfuggita di mano... Totalmente. Come avrebbe potuto confessare ai suoi datori di lavoro la realtà che si era venuta a creare? Il licenziamento sarebbe stato sicuramente immediato.

Scoprire di essere incinta, per di più di uno stronzo, era stato come cadere in un burrone... Cadere, cadere, senza fermarsi mai. La fine di quel burrone non giungeva e lei continuava a rotolare, giorno dopo giorno.

Una cosa era certa: nessuno sarebbe dovuto venire a conoscenza della sua gravidanza.

«Buon giorno, Monique!» un Bill raggiante come sempre, fece il suo allegro ingresso nell'ufficio, facendola bruscamente risvegliare dai propri pensieri. Le venne automatico portare una mano alla pancia, come a nascondere un qualcosa che ancora non poteva vedersi.

«Buon giorno, Bill.» sorrise lei cordialmente, dandosi della stupida mentalmente e riportando entrambe le mani sulla scrivania.

«Tra poco arriverà David con tutte le lettere delle fans.» le riferì. Monique annuì pensierosa. Guardò oltre le spalle del vocalist e non poté fare a meno di notare che il suo acerrimo nemico mancava all'appello, assieme a Georg e Gustav.

«Oggi sei da solo?» domandò piuttosto interessata e parzialmente sollevata al pensiero di trascorrere una giornata senza l'ombra inquietante del chitarrista che la teneva sott'occhio ad ogni minima mossa, pronto a criticare qualunque cosa vedesse fuori posto.

«No no, adesso gli altri arrivano. Si sono fermati alla macchinetta del caffè.» rispose gentilmente il moro.

Non aveva nulla a che fare con suo fratello Tom, e questo Monique continuava a pensarlo. Erano uno l'opposto dell'altro, nonostante fossero gemelli. Uno così gentile, generoso, dolce... L'altro rozzo, egoista e freddo. Poche volte rifletteva sul fatto che forse quel ragazzo volesse apparire a quel modo ma che in fondo nascondesse qualcosa di buono, ma ogni volta si trovava costretta a ricredersi.

Improvvisamente vide i tre ragazzi mancanti fare il loro ingresso nella stanza. Georg e Gustav la salutarono con il dovuto garbo, come sempre, mentre Tom – non che questo la sorprendesse – si limitò a grugnire un “Ciao”, decisamente poco interessato.

Ma per la prima volta non ne fece una questione personale e non si lasciò pervadere da ulteriore nervoso: al momento aveva problemi molto più pesanti di quello.

«Eccomi qua!» esclamò il manager della band, facendo irruzione tra di loro: un uomo giovane, di bell'aspetto e perennemente di buon umore, capace così di fare invidia a chiunque.

Posò una pila di fogli sulla scrivania di Monique, sorridendole cordialmente. «Ecco tutte le lettere delle fans. Avrai un bel da fare, sono il doppio dell'ultima volta.» disse con entusiasmo, come se questo potesse rallegrare Monique. Quest'ultima tirò le labbra in un sorriso forzato ed annuì, fingendosi interessata. «Buon lavoro, allora! Venite ragazzi.» concluse l'uomo, uscendo dall'ufficio.

«Ci vediamo più tardi.» le disse Bill, per poi seguire il passo del manager, assieme agli altri ragazzi.

Di nuovo sola, sospirò pesantemente, tornando ad accarezzarsi la pancia. Non voleva un bambino, non poteva averlo. Non era il momento... Non aveva né i soldi, né il tempo, né le capacità.

Le lacrime minacciarono di sgorgare dai propri occhi ma, preso un bel respiro e deglutendo il magone che le si era venuto a formare in gola, recuperò la prima lettera, prendendo a leggerla. Accanto a sé preparò un altro foglio bianco, sul quale scrisse successivamente la traduzione.

Nel suo lavoro aveva sempre dato il massimo, come in tutte le cose che faceva. Si era sempre impegnata fino alla morte e – cosa più importante – non si era mai lamentata. Come poteva una semplice creatura arrivare all'improvviso e distruggere quell'equilibrio che era riuscita a creare nella sua vita? Era troppo giovane ed aveva ancora tanto – forse troppo – da scoprire nel suo cammino, attraverso gli occhi infantili di una bambina. Perchè era così che si sentiva in quel momento: una bambina cresciuta troppo in fretta; una bambina che presto si sarebbe dovuta prendere cura di un altro bambino.

La penna sembrava marcare da sé quelle parole sul foglio. Non vi stava prestando particolare attenzione e di conseguenza non sapeva se quello che stava scrivendo potesse racchiudere un qualche senso logico; ma non riusciva nemmeno a ritrovare la concentrazione ormai persa.

Un improvviso tonfo sulla scrivania la fece sobbalzare violentemente, mentre il cuore prendeva a batterle furiosamente in petto. Quando sollevò lo sguardo trovò davanti a sé Tom, che la guardava con sguardo glaciale e disinteressato.

«David si è dimenticato di darti queste.» le disse freddamente, alludendo al mucchio di lettere che le aveva buttato malamente sul tavolo. Monique lo guardò attentamente negli occhi, non sapendo esattamente che dire.

«Sono altre lettere che devo tradurre?» domandò accigliata, sentendo la disperazione montarle dalle dita dei piedi, fino alla testa.

«Tu che dici?» rispose sgarbatamente e piuttosto scocciato il ragazzo. Monique annuì sorpresa. «Non ti paghiamo per girarti i pollici; dovresti solamente gioire alla vista di così tanto lavoro.» aggiunse quasi sprezzante. Un brivido di rabbia scosse Monique.

«Con tutto il rispetto, Tom... E' David che mi paga.» ribattè, pentendosene subito dopo, quando vide lo sguardo gelido di Tom posarsi sulla sua figura, mettendola dannatamente in soggezione.

«Ricordati che ad un mio schiocco di dita, tu perdi il lavoro, Schmitz. Quindi attenta a come parli. Ora continua il tuo lavoro.» fu poco più di un sussurro quello di Tom, a qualche centimetro di distanza dal viso di Monique che aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo. Guardò le spalle del moro mentre usciva dalla stanza, ripetendosi mentalmente che avrebbe dovuto astenersi dal rispondergli male o dal provocarlo: aveva ragione, ad un suo schiocco di dita, sarebbe uscita di lì di corsa e questo non poteva permetterselo. Non ora.


**


Gli occhi le si chiudevano, reclamando un po' di sana pausa, la sua mano doleva dal troppo scrivere ed il suo cervello stava letteralmente andando in panne, per lo sforzo di entrare mentalmente in una lingua diversa ogni cinque minuti. Si trovò a maledire mentalmente tutto quel successo che i quattro ragazzi avevano ottenuto, attorniandosi di infinite fan in preda a crisi ormonali e – doveva ammetterlo – dotate di una particolare fantasia nel riportare su carta dichiarazioni d'amore.

Le mancavano ancora tre lettere ed avrebbe finalmente terminato, per quella mattina. Erano le undici passate ed il suo turno sarebbe finito a mezzogiorno.

Aveva una terribile voglia di correre via di lì. Ogni secondo che passava lì dentro equivaleva all'ansia – inutile – di venire scoperta. Temeva che qualcuno venisse a sapere che era incinta, solamente guardandola negli occhi. Quello era il motivo per cui si era rifiutata di osservare nelle pupille chiunque, quel giorno, o almeno per non più di tre secondi.

Quando finalmente anche l'ultima lettera fu tradotta e la penna venne posata sulla scrivania, prese a stiracchiarsi sulla poltrona, chiudendo gli occhi, per poi massaggiarli appena con i polpastrelli. Aveva bisogno di riposare... Si sentiva eccessivamente stanca; più del solito, e la cosa la mandava in bestia, conoscendo perfettamente la causa di quella fastidiosa fiacca.

Prese i fogli bianchi che le erano avanzati e li ripose nella sua cartelletta, per poi alzarsi dalla poltrona. Dopo aver riordinato il tutto, si avviò verso l'uscita del suo ufficio, alla ricerca di David. Finalmente lo trovò intento ad osservare i suoi ragazzi suonare all'interno di una stanza insonorizzata, attraverso il vetro. Monique si fermò alle sue spalle, buttando un occhio nella stessa direzione: erano tutti straordinariamente concentrati in ciò che facevano e sembrava che attorno a loro non esistesse altro.

«Ho finito.» annunciò poi al manager, senza però staccare gli occhi dai quattro ragazzi. L'uomo, forse preso alla sprovvista, voltò di scatto il viso verso di lei, per poi sorriderle.

«Perfetto, allora, se vuoi, puoi andare.» le disse, tornando ad osservare la band.

«D'accordo. A domani.» rispose lei, dandogli le spalle e prendendo a camminare lungo il corridoio.

«Ah, Monique, una cosa.» si sentì richiamare quasi subito dal manager. Si voltò nuovamente verso di lui e lo vide venirle in contro. «Come sai, fra tre giorni i ragazzi saranno in Francia a tenere un'intervista ed un servizio fotografico. Mi serviresti per l'intervista. Te la senti di venire con noi? È questione di un giorno. Quello successivo saremo già di ritorno.» le domandò speranzoso.

Monique poté avvertire forte e chiaro un brivido di timore lungo la colonna vertebrale. Quello avrebbe significato dormire fuori casa: non se la sentiva di abbandonarla in quel momento, per qualunque motivo. Si fosse sentita male, se ne sarebbero sicuramente accorti tutti ed a quel punto la verità sarebbe venuta fuori con una certa ovvietà. Ma come avrebbe potuto giustificare al manager un suo rifiuto? Non aveva mai declinato una proposta del genere – che tra l'altro le avrebbe portato in tasca molti soldi – e più di una volta le era capitato di viaggiare assieme alla band, ma in circostanze leggermente diverse.

Sospirò appena e poi annuì.

«Certo. Verrò.» affermò, non troppo convinta. Questo parve passare inosservato a David che sorrise raggiante.

«Grazie, Monique. Allora, ci vediamo domani.» concluse il manager, voltandole le spalle ed allontanandosi da lei.

Lo sguardo della ragazza si incupì, mentre tornava a camminare verso l'uscita dello studio di registrazione.

Aveva accettato. Era stata una stupida e tutto perchè non aveva il coraggio di esporsi. Era una gravidanza quella che si stava preparando ad affrontare, non una partita a carte.

Sbuffò sonoramente, sbattendo la portiera della sua macchina e si voltò a guardare il vialetto, mentre ingranava la retromarcia. In pochi secondi si trovò fuori dal cancello e sulla strada che l'avrebbe riportata a casa.


**


Sbatté la porta del monolocale per poi buttare malamente le chiavi sulla ribaltina, affianco ad essa. Si diresse in cucina, decisa a trovare qualcosa da mangiare che avrebbe alleviato per lo meno i suoi nervi. Rovistò maldestramente nella dispensa, impaziente di sentire del cibo sotto i suoi denti, e ne tirò fuori una busta di patatine. Sapeva che le avrebbe fatto male e che non avrebbe dovuto per cause di forza maggiore, ma la fame nervosa chiamava.

Andò a sedersi sul divano ed accese la televisione, prendendo a cambiare continuamente canale, non riuscendo a trovarne uno che le interessasse davvero.

La verità era che non ne aveva la testa: i suoi pensieri erano altri e di certo un programma televisivo non l'avrebbe distolta da essi. Ancora si chiedeva come potesse essere arrivata a quel punto.

La sua storia con quel bastardo di Christian era cominciata un anno prima. Lui aveva due anni in più di lei e sin dal primo momento le aveva fatto credere di provare qualcosa di forte nei suoi confronti. Lei, da brava ragazza innamorata ed ingenua quale era, gli aveva creduto. Ovviamente con il passare del tempo, quando aveva deciso di concedersi totalmente a lui, la loro relazione era andata avanti solo di quello: sesso. Non esisteva più il dialogo, non esistevano più i sorrisi, le carezze disinteressate, le giornate passate a divertirsi, le parole dolci che si erano sempre detti inizialmente. La sua bella favola si era velocemente trasformata in un incubo.

L'abitudine di aspettarlo nel letto, già quasi del tutto priva di vestiti, alla sera, quando lui tornava tardi dal lavoro, semplicemente per il fatto che sapeva già come si sarebbe conclusa la nottata. Non una parola nel mentre. A volte nemmeno la salutava quando rientrava: si infilava nel letto, avvinghiandosi velocemente a lei, senza prima preoccuparsi di constatare che non stesse dormendo o non stesse male.

Sfortuna volle che in una di quelle tante occasioni era riuscito a metterla incinta. Non che l'avesse fatto di proposito, anzi... Lui odiava il solo pensiero dei bambini. Per questo motivo, quando due settimane prima gli aveva riferito di essere incinta, lui aveva deciso di sparire velocemente dalla sua vita, ritenendo di non essere pronto a mettere su famiglia a soli ventidue anni.

Ma neanche lei era pronta: aveva vent'anni. Cosa poteva fare? Anche lei doveva scappare? Ma pur scappando non avrebbe risolto niente; quell'esserino sarebbe rimasto nel suo grembo, l'avrebbe seguita ovunque, pretendendo di venire al mondo.

Soffocò un singhiozzo, portandosi alla bocca l'ennesimo pugno di patatine, con violenza.

Improvvisamente udì il campanello trillare. Sollevò gli occhi al soffitto, cercando di asciugarsi le lacrime che le si erano accumulate su di essi e, dopo aver poggiato il sacchetto di patatine sul tavolino di fronte al divano, camminò velocemente verso la porta per aprirla. Davanti a sé trovò la figura sorridente – nascondente però una nota malinconica negli occhi – della sua migliore amica, Jessica.

Quella ragazza dai capelli rossi era l'unico appiglio sicuro nella sua vita. Le era sempre stata vicino nei momenti di bisogno e non aveva esitato a farlo anche a quell'ultima rivelazione.

«Come stai?» le chiese retoricamente Jessica, entrando in casa mentre Monique richiudeva la porta.

«Potrei stare decisamente meglio.» rispose la mora con sguardo spento, dirigendosi poi nuovamente al divano, seguita dalla rossa che si sedette affianco a lei.

«Vedo che hai trovato il modo di scaricare i nervi.» notò Jessica, prendendo la busta di patatine e poggiandosela in grembo. «Devo ricordarti che fa male a lui o lei questa roba?» continuò, osservandola attentamente. Monique grugnì, strappandogliela dalle mani.

«Lo so, ma se permetti devo ancora cercare di entrare nella logica di essere incinta.» ribattè, riprendendo a mangiare spasmodicamente, sotto lo sguardo critico di Jessica.

«Dovresti farlo in fretta. Il primo mese è quasi terminato.» si premurò di rammentarle la rossa, poggiandosi meglio sullo schienale del divano. Monique sospirò scocciata e buttò il sacchetto ormai vuoto sul tavolino.

«Sei venuta per farmi la paternale? Non ne ho bisogno, grazie, sono già abbastanza disperata.» disse, alzandosi dal divano per entrare in cucina a prendere un sacchettino di caramelle gommose. Quando tornò a sedersi sul divano, Jessica sgranò gli occhi, strappandole di mano quell'ulteriore attentato alla salute.

«Ma sei impazzita?! Controllati, Monique! Sei incinta! Incinta! Non so se ti è chiaro!» le sbraitò contro. Monique sentì la rabbia farsi velocemente strada dentro di lei, gli occhi pizzicare e la gola chiudersi a causa di un fastidioso magone.

«Lo so! Lo so che sono incinta! E credimi, è l'ultima cosa che volevo capitasse! Non c'è bisogno che continui a ripetermelo, come se io non l'avessi ancora capito! Mi sta distruggendo la vita, mi sta rovinando! Vuoi che non me ne sia accorta?!» quelle urla avevano zittito Jessica, portandola a mordersi la lingua dallo spavento.

Monique non voleva qualcuno che le ricordasse quello che stava passando. Lo stava capendo fin troppo bene e sapeva che non poteva tornare indietro. Era già di per sé troppo doloroso da accettare, e sentirsi le prediche dalla sua migliore amica, l'unica persona in grado di capirla veramente, era piuttosto demoralizzante.

Sentì le lacrime calde e salate farsi lentamente strada lungo le sue gote arrossate. Una disperazione incontenibile aveva ormai preso parte dentro di lei e sarebbe stata dura da scemare. Aveva bisogno del sostegno di Jessica, quasi quanto l'aria che respirava; e questo non tardò ad arrivare. La rossa si sporse verso di lei, prendendosela tra le braccia, per poi sdraiarsi all'indietro sul divano, lasciando che Monique poggiasse la testa sulla sua spalla per poter dare libero sfogo al pianto che necessitava di uscire da troppo tempo. Prese ad accarezzarle lievemente i capelli con una mano, fissando il vuoto ed ascoltando in silenzio i suoi singhiozzi disperati.

«Andrà tutto bene, Monique. Andrà tutto bene perchè io ti starò sempre vicino.» le sussurrò all'orecchio, prima di posarle un tenero bacio sulla testa e lasciarla libera di sfogare il suo dolore.

  
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