I Tokio Hotel (Bill e Tom Kaulitz, Georg Moritz Hagen Listing e Gustav Klaus Wolfgang Schäfer), sono uno dei più famosi gruppi di musica rock-pop tedesca.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.
C’è una domanda che ti fai sempre quando ti senti troppo
vigliacco per affrontare la realtà.
Te la fai perché ci credi, in un certo senso. Perché ti
serve.
Quella domanda è sempre preceduta da un’inclinazione del
corpo – testa spalle. Intenzioni.
Scherzi?
Dobbiamo sospendere il concerto.
Scherzi?
Dobbiamo cancellare una due tre tutte le date.
Scherzi?
Non è solo una laringite. È una cisti.
Scherzi?
Non è solo una cisti. È un cancro.
Scherzi?
Cose del genere.
Un inferno nel quale scivoli con il tuo punto interrogativo
sospeso su di un sorriso che ti incolli in faccia solo per non piangere.
È incredibile quello che ti combina la vita.
Un giorno sei lì, che ridi e cazzeggi con tuo fratello,
mentre il tourbus scivola lungo una direttrice di marcia decisa un secolo prima,
e il giorno dopo, all’improvviso, il bel sogno finisce.
Ti svegli e scopri che la realtà fa schifo.
Tra Bill e me, il sognatore è sempre stato il mio gemello.
Sognatore a modo suo, poi, perché di solito chi sogna si
accontenta di quello. Non pretende che le sue fantasie divengano realtà.
Bill era un tipo che prendeva la vita a morsi, con una rabbia
che a me è sempre mancata.
Bill era un sognatore pericoloso.
Io facevo un po’ di casino solo per coprirgli le spalle, ma
solo quello. Il maschio di casa era lui.
Da adolescente non ero tanto sicuro del fatto che avrei fatto
la rockstar. Mi piaceva fare casino e rimorchiare. Le rockstar facevano casino e
rimorchiavano, perciò non mi sarebbe dispiaciuto. Fine.
La musica non ti dava poi chissà quali risposte – e io
arrivavo dritto al punto comunque.
Bill, però, un bel giorno decise per tutti e due.
Aveva sette anni.
Mio fratello ha sempre fatto tutto di corsa.
Altro che vivi il secondo: lo spaccava, lui, il
secondo; usava davvero ogni minuscolo frammento. Considerando quel che sarebbe
successo, magari sapeva di avere a disposizione un niente.
Per Bill la vita è sempre stata adesso.
Jetzt erst recht.
Bill prevedeva anche il futuro, chissà?
A sette anni, mio fratello scrisse la sua prima canzone. Non
un temino. Non una poesia. Una canzone.
Una delle ultime cose che mi disse, sarebbe stata
proprio la risposta a quella domanda che non avevo mai avuto il coraggio di
fargli.
‘Perché cantando cantando, alla fine, qualcuno si accorge
anche di quello che gli stai dicendo.’
Mio fratello parlava un sacco. Non stava mai zitto, neppure
se lo imploravi in ginocchio.
Adesso so che aveva solo diciotto anni per consumare tutte le
sue parole; aveva solo diciotto anni per farsi ascoltare. Peccato che l’abbiano
sempre fatto molto poco.
Quando Bill mi disse che noi – parlava sempre al plurale,
Bill. Noi parlavamo sempre al plurale. Era un brutto vizio che avevamo da
sempre – saremmo diventati delle rockstar, gli dissi proprio: ‘Scherzi?’
Non avevo molte idee su quel che avremmo potuto fare. Quello
pieno di idee è sempre stato Bill, in fondo. Bill non scherzava mai. Non
davvero.
La cosa che ti irritava a morte di lui, era che fosse serio
persino sulle stronzate.
La musica era il suo sogno, però: non gliene avanzava la
voglia.
Bill non avrebbe mai detto ‘Scherzi?’ quando Jost
presentò ai nostri genitori il contratto con cui ci vendevamo all’Universal.
Bill l’aveva voluto con tutto se stesso; era davvero molto,
ma molto serio.
Io sì. Per tutti i primi mesi non ci avevo creduto granché,
finché un pomeriggio, poco prima che la scuola finisse, Bill si precipitò in
camera mia: gli occhi brillanti e un sorriso che gli mangiava mezza faccia.
“Corri, corri, corri!”
“Ma che vuoi?”
“Siamo su Viva!”
“Scherzi?”
No, era solo il nostro sogno che cominciava.
No, era il suo sogno, ma Bill aveva fatto il possibile
per ritagliare un posticino anche per me. Benché fossi un guastafeste stagno,
realista e incredulo, mi aveva voluto lo stesso.
Noi facevamo tutto insieme, del resto. Noi eravamo proprio
una cosa sola.
E così si accesero tutte le luci. Tutte insieme.
E sotto quelle luci, i miei ‘Scherzi?’ erano sempre
più numerosi e sempre più retorici: Bill mi aveva abituato proprio a tutto.
Mi metto lo smalto.
Scherzi?
Vado a scuola truccato, e allora?
Scherzi?
Mi tingo i capelli.
Scherzi?
Mi faccio un tatuaggio.
Scherzi?
Non so perché dovessi contraddirlo in un modo tanto puerile;
Bill faceva sempre di testa sua e lo sapevo. Lo adoravo per quello stesso
motivo, perché fin da piccolo devi trovarti un idolo e stargli dietro.
Io ero fortunato: restava tutto in famiglia.
Eppure, a detta della critica, mio fratello non valeva
proprio niente. Era un travestito, un pagliaccio sgolato, una meteora. Mio
fratello aveva quindici anni. Io avevo quindici anni.
Gliene restavano appena altri tre.
Forse era vero: era una meteora, ma una luce come la sua non
l’aveva proprio fatta nessuno. Nessuno.
Bill si mortificava un po’, ma andava avanti. Anche quando lo
insultavano, ti rideva in faccia, perché sapeva di avere ragione. Lui, il
coraggio di sognare, ce l’aveva avuto fino in fondo. Il coraggio di gridare.
Ecco: aprire la bocca e urlare tutta la rabbia che avevamo
dentro.
Chi gli dava addosso, invece, davanti al sistema era muto.
Mio fratello era un leader. Non è una cosa che decidi a
tavolino: ci nasci.
Mio fratello catturava proprio tutti gli sguardi. Persino chi
si scomodava a dargli del frocio, pretendeva di vederlo. Voleva vederlo –
e quando te lo trovavi davanti, Bill ti lasciava stecchito.
Noi non eravamo uguali. Non davvero.
C’è modo e modo di essere belli, persino se la natura ti
clona.
Io ero abbastanza attraente. Bill era meraviglioso. Sempre.
Persino nei suoi momenti peggiori, quand’era sciatto e
insonnolito e magari aveva pure qualche brufolo in faccia, Bill era… Diverso?
Ti disarmava del tutto.
E io gli volevo bene.
Lo adoravo al punto che quando è successo, io non
riuscivo a crederci. Mi ero a tal punto abituato a vivere nei sogni di Bill, che
quando mio fratello si svegliò, non potei far altro che lamentare per l’ennesima
volta quello ‘Scherzi? Io non ho ancora voglia.’
E se avesse potuto, Bill mi avrebbe chiesto scusa, anche
s’era il primo ad aver voglia di dormire un altro po’.
La sveglia suonava alle cinque e mezzo; era una specie di
maledizione. Lo faceva a Loitsche, quando ci toccava prendere il pullman delle
sei e dieci. Lo faceva spesso e volentieri quand’eravamo in tour, perché c’era
una tappa in vista, perché c’era qualcosa da organizzare, un video da girare.
La sveglia c’era sempre nelle prime canzoni di Bill: David lo
prendeva in giro e gli diceva che si vedeva ch’era piccolo – piccolo piccolo,
Bill: anche le sue immagini erano semplici e un po’ banali come il grandangolo
di un adolescente.
Forse non era proprio così. Forse Bill aveva proprio paura di
quel trillo che l’avrebbe restituito alla realtà; che gli avrebbe dato un peso,
schiacciandolo fino in fondo.
La realtà non era mai stata buona con mio fratello. Non è
buona quasi con nessuno, ma Bill si era inventato quel suo sogno luminoso
proprio per tenerla lontana.
Non voleva che suonasse la sveglia. Non volevo sentirla
neppure io.
Quando dovemmo interrompere il concerto di Marseille, non ero
proprio preoccupato per niente.
‘Ecco, ci risiamo,’ mi dissi con una specie di calma
abbastanza seccata.
Mio fratello era nervoso, si toccava la gola e faticava a
parlare. A mio fratello, dopo ogni concerto, la voce non funzionava più bene.
Non aveva mai voluto prendere lezioni di canto: era colpa sua.
Mi veniva spontaneo fare quel ragionamento, persino se di
ragionato, in certi destini, non c’è proprio niente.
Magari non era colpa sua per niente. Magari c’era già, quella
piccola bolla. Quel granchietto. Quella sacchettina di merda.
C’era e gli faceva male, ma non la vedeva nessuno. Non
l’avevano vista neppure i dottori che l’avevano già visitato in autunno. Gli
avevano dato un mucchio di medicine e basta. Guarisci e basta.
A Marseille, Bill non era ancora davvero preoccupato, era
dispiaciuto. Era rassegnato.
‘Non fa niente. Prenderò il cortisone e basta. Così mi
passa.’
La sua voce non era più la stessa; non era morbida come la
ricordavo – perché la ricordavo, ancora.
Adesso, quando ascolto una vecchia registrazione, non riesco
a stabilire un vero collegamento tra mio fratello e quel suono. Dopo Marseille,
forse mi sono rassegnato a perderlo con quei toni che sbiadivano poco alla
volta, sino al silenzio.
Il silenzio mi ha sempre fatto molta più paura del buio.
Ora so anche il perché.
Da Lisbona, mio fratello partì sconfitto e in lacrime, ma non
me lo disse; non mi disse che la sveglia era trillata. Che l’aveva sentita.
La campana era suonata per lui.
Bill sapeva che se avesse smesso di sognare, mi sarei
svegliato al suo fianco. Tratteneva brandelli di sogni sotto le ciglia umide. Ne
inghiottiva i pezzi sul fondo di una gola rovinata.
Io non trovai proprio niente di sensato da dirgli. Quando mi
sussurrò: ‘Speriamo che non salti il tour,’ me ne uscii con il solito: ‘Scherzi?’
Aveva solo il raffreddore. Per me. Per tutti. Persino per
l’egoismo di chi diceva di amarlo per prendere e basta. Per pretendere un
eroismo da foglio di carta.
Era così piccolo, Bill. Aveva solo diciotto anni.
Diciotto anni di sogni e di parole e di niente.
Improvvisamente di niente.
Speriamo che non sia qualcosa di grave.
‘Scherzi?’
È curioso, credevo di essere un tipo molto coraggioso.
Credevo che per tutta la vita sarei stato il sostegno di mio fratello. Bill
aveva bisogno di me. Chiaro, no?
Invece ero quello più spaventato di tutti. Ero quello che,
davanti all’evidenza, preferiva pensare a un brutto scherzo. A uno scherzo del
cazzo, ma a uno scherzo.
Quando ci ritrovammo a Hamburg, Bill non parlava quasi più
per niente.
Tra noi non ce n’era mai stato un gran bisogno, ma era
innaturale.
Il suo silenzio. I miei silenzi.
Non avevo nulla da dirgli. Niente di niente.
Volevo che qualcuno mi battesse sulla spalla e mi dicesse: ‘D’accordo.
Abbiamo giocato un po’. Adesso basta.’
Fu proprio come svegliarsi da un sogno luminoso; qualcosa di
tanto realistico e netto e vivido che separartene ti procura un dolore
viscerale, tant’è che per un po’ stai lì a chiederti quale sia il sogno e quale
sia invece la realtà.
Bill mi guardava e credo che mi leggesse dentro: la mia
incredulità vigliacca e un po’ egoista. La mia paura. La mia incertezza.
Non parlava più, però ebbe il coraggio di dirmelo lo stesso;
di raccogliere quel po’ di voce che aveva messo da parte per spenderla solo per
me.
C’è una cisti, Tomi. Devono toglierla.
Scherzi?
Aveva paura, Bill, ma sorrideva lo stesso. Si dava un tono.
Aveva diciotto anni e, chissà? Ci sperava?
Aveva combattuto così tanto per i propri sogni ch’era
innaturale pensare che potesse perdere. Non lui. Non davvero uno del genere.
La mia voce tremava, quando mi toccò dare quell’annuncio. A
me, proprio a me: a me per cui era tutto.
Ed era una sensazione atroce e straniante insieme. Una
settimana prima, più o meno, me l’ero fatta addosso per parargli il culo da un
raffreddore – già. Solo un raffreddore. Ora dovevo dire che era qualcos’altro –
qualcosa di sbagliato. Qualcosa che avrebbe forse cambiato per sempre la voce di
Bill.
Come sarebbe stata?
Per un po’ non avrei riconosciuto mio fratello. Suonava
strano.
Gli stringevo piano la mano e dividevo con lui quella
stronzata che, all’improvviso, mi sembrava rilevantissima.
Le dita di Bill erano calde e sottili. Le sue unghie erano
trasparenti. Erano bellissime.
In ospedale non poteva portare lo smalto. La mia attenzione
si fossilizzava su dettagli da niente.
Forse mi stavo svegliando anch’io; lo stavo raggiungendo
oltre il bordo scheggiato del suo sogno. Precedendomi, però, mio fratello faceva
ancora il possibile per impedirmi di tagliarmi.
Per proteggermi. Per rassicurarmi.
Aveva paura, ma non voleva dividerla con me.
La sua stanza sembrava un bunker o un negozio di giocattoli.
L’avevamo riempito di regali.
Gli avevo comprato una scimmia di peluche ch’era due volte
lui. L’avevo fatto perché non si sentisse solo quando non c’ero. Io ero una
scimmia. Ero la sua scimmia.
Non potevo comprargli il coraggio. Non potevo comprargli la
salute.
Tutto il mio potere si esauriva in qualcosa di tanto stupido
come un giocattolo: a Bill faceva piacere lo stesso.
Poco prima che lo portassero via, per prepararlo
all’intervento, ho avuto l’impressione che volesse chiedermi scusa.
Scherzi?
Non aveva colpa di niente, proprio di niente: mi aveva fatto
solo un po’ di posto al suo fianco.
Ci avevano assicurato che l’operazione sarebbe durata al più
un’ora e mezza – due, a dire tanto. Non era nulla di complicato. Era routine.
Sarebbe andato tutto bene.
Dopo tre ore, nessuno ci aveva ancora detto niente.
Io avvertivo quel silenzio scivolare in me e trascinare via
tutto il coraggio.
Avevo voglia di svegliarmi, ora: solo che l’avevo già fatto.
La cisti non era una cisti. Era un tumore. Un cancro. Una
sacchettina di merda.
Scherzi?
No.
E tagliare non bastava più. Bisognava raschiare tutt’intorno.
Fare piazza pulita.
Tutt’intorno.
Scherzi?
No.
Non avremmo più sentito la sua voce.
Cristo, stai scherzando?
No.
Ero inebetito. Se Bill l’avesse saputo, forse avrebbe
preferito morire. Sul palco, magari. Sotto le luci. Spegnersi con la sua voce,
poco a poco.
La sua voce che già non ricordavo quasi più, che avrei
dimenticato per sempre.
La sua voce ch’era anche la mia, perché mi aveva sempre
guidato, in qualche modo.
Era fuori ed era dentro di me, come uno stimolo o come una
preghiera.
La sua voce. Un’eco che restava inascoltata.
Non riuscivo a pensare più a niente – a un sogno sfumato, a
una carriera dissolta, a una scommessa persa e non più proponibile.
Dovevamo andare in America. Dovevamo tornarci.
Sdraiati su una spiaggia tropicale, ne avevamo parlato così
tanto…
Parlavamo, Bill e io. Parlavamo un sacco.
E ora era solo passato.
Bill guardava fuori dalla finestra per non vedere proprio
niente. Stava arrivando la primavera. Potevo portarlo allo zoo di Berlino.
Potevo portarlo al mare. Potevo portarlo ovunque.
Non l’avrei più sentito implorarmi perché lo facessi, una
buona volta; dessi un senso a un’automobile che detestava. Mai più.
La sua voce era un ricordo che avrei dovuto conservare per
sempre, ma siccome non mi aveva avvertito nessuno di quanto fosse prezioso,
l’avevo già perso.
C’era mamma con lui; forse aveva pensato che io non avrei mai
avuto il coraggio di dirglielo, che lasciar fare a un medico potesse essere
troppo duro e che David, in fondo, non era neppure uno della famiglia.
Ci aveva pensato lei.
Forse la sua voce aveva tremato un pochino, ma sono sicuro
che ci sia riuscita in fretta; poche parole, senza tergiversare.
Bill era come lei: di sicuro avrà apprezzato.
Aveva diciotto anni, probabilmente ancora tanta vita davanti.
Una vita silenziosa.
Quando mamma mi vide arrivare, trovò subito una scusa per
lasciarci soli. Credo che volesse dare una chance a me: una chance per aprire
gli occhi e accettare che la sveglia era suonata per tutti.
Seduto accanto a Bill, però, io vedevo solo quelle labbra che
non avrebbero più scandito nulla. Non un ordine, non una preghiera, non una
canzone, né una filastrocca.
Niente.
Non avrebbe più riso, Bill. Quando non hai più le corde
vocali, l’aria fa un brutto rumore: mio fratello era sensibile ai suoni e gli
dispiaceva d’essersi trasformato in uno strumento sgradevole.
Non volevo piangergli davanti, lo giuro. Non volevo perché
non sarebbe stato giusto, perché in fondo era ancora là. Il mio egoismo era
sazio: non avevo perso che qualche briciola, no?
Bill aveva ancora il suo blocco, accanto al letto. In tutti
quei giorni aveva appuntato idee per le canzoni che sarebbero venute. Per le
canzoni con cui avrebbe provato a farsi ascoltare.
Prese la penna e me lo scrisse.
‘Se almeno a Marseille fossi riuscito a finire In die
Nacht…’
E poi una grossa lacrima cadde lì, su quel blocco,
mangiandosi tutto l’inchiostro.
Una sveglia brutale si era mangiata tutti i nostri sogni.
Un cancro si era mangiato la sua voce.
Una lacrima inghiottiva il suo ultimo rimpianto.
Scherzi?
E anche la mia voce andò in pezzi. Si sbriciolò come se fosse
stata la naturale eco della sua. Quello che in fondo era sempre stata.
Ieri, il venticinque marzo del duemilaquindici, è uscito
Deine Stimme.
La limited edition è esaurita da tempo; ne sono stati
pubblicati persino più esemplari del previsto.
Era quasi un anno, in fondo, che i Tokio Hotel non uscissero
con qualcosa di nuovo – eravamo troppo impegnati a venderci in giro. Ero troppo
impegnato a recitare una parte strappata al caso, per rabbia e per dovere.
Deine Stimme è una delle poche canzoni dei Tokio Hotel
che abbia scritto io, perché, anche se gli presto la mia voce, sul palco splende
sempre e solo il sogno di Bill.
Siamo gemelli, in fondo. Siamo la stessa cosa.
Sono la sua voce.
Sono passati sette anni da quel giorno. Dopo sette anni, se
non ci sono recrudescenze, vuol dire che il cancro ti ha mangiato abbastanza e
se n’è andato.
A Bill ha divorato un sogno: aveva il dovere di lasciargli
tutto il resto.
A Bill, però, nessuno potrebbe togliere niente, perché non te
lo permette.
Quando sono in tour e posso vederlo soltanto attraverso una
web-cam, percepisco a pelle che è davvero felice. E so anche che se gli
chiedessi: ‘Cristo! Cos’avresti da ringraziare la vita, dopo quello che ti ha
fatto?’ mio fratello inclinerebbe di lato il capo, mi fisserebbe sornione e
muoverebbe appena le labbra per costringermi a leggerle.
‘Scherzi?’
Mi direbbe – in quella lingua ch’è solo nostra, che è
silenziosa e fatta solo di sguardi – che è ancora vivo.
Che non è più solo.
Che ha trovato il grande amore.
Che sua figlia è bellissima.
Nina ha tre anni. Bill mi ha costretto a diventare zio troppo
giovane, accidenti a lui.
Accidenti alla sua maledetta fretta.
Si chiama Nina perché così può chiamarla anche sua madre,
Madlen: è un suono facile. È un suono che anche un sordomuto, con un po’ di
attenzione, riesce a scandire con discreta facilità.
Ci teneva davvero, Bill, che almeno uno dei due potesse
chiamarla, quella bambina nata nel silenzio – e poi suona come ‘Nena’.
Mio fratello è un inguaribile fanboy.
Madlen ha trent’anni. È sorda e muta dalla nascita. Ha
insegnato a mio fratello il linguaggio di quelli come lei, nel periodo in cui è
stato ricoverato per la riabilitazione – per quel che c’era da recuperare,
almeno.
È carina; non è una figa eccezionale – quello non lo direi
proprio – ma è carina.
Gli vuole bene – si vogliono bene. Mio fratello è felice.
Per Madlen, Bill Kaulitz è sempre stato un ragazzo che aveva
perso per strada qualcosa di importante; qualcosa che una sordomuta non avrebbe
mai potuto conoscere, perché nel suo mondo c’è solo silenzio.
Madlen non ha mai sentito cantare Bill, eppure sa che suo
marito ha una voce bellissima.
Per Madlen, la voce di Bill sono le sue mani.
Madlen stava svolgendo il tirocinio da logopedista, quando ha
incontrato mio fratello; a loro dire è stato un colpo di fulmine. Visto che si
parla di mio fratello, non me la sento di chiedergli se stia scherzando: non lo
farebbe mai.
Nina ha tre anni e parla troppo, ma nessuno le dice mai di
stare zitta.
Sua madre non la sente. Suo padre non può interromperla. Sua
nonna la vizia troppo. Suo zio è già geloso.
È una bambina normale. È una bambina sana. È una bambina
abituata al silenzio.
È una bambina che sa come romperlo.
Anche se non può sentire, Madlen sa parlare – abbastanza,
almeno, per stimolare la figlia.
Ha un timbro strano, molto sordo. Ha imparato da grande,
come dice lei, per comunicare con quelli come me – con quelli interi. Con
quelli rumorosi. Con quelli che, tra tanto frastuono, a volte non sentono
proprio le cose più importanti.
Intossicato dalle voci, non mi ero accorto di come, da
qualche parte, Bill gridasse ancora per farsi ascoltare. Non voleva stare zitto.
Non ci stava a far vincere la sveglia.
Bill è ancora il principale autore delle nostre canzoni,
occupa un ruolo fisso nel nostro team di produzione. Quando David si sente
sadico, gli delega volentieri il concept di qualche nostro video.
Ha venticinque anni, ma non è cambiato molto – stessi
capelli, stessi abiti, stesse unghie.
Madlen si sente l’uomo di casa.
A chiarire le idee a Nina, quando sarà il momento, penserà il
sottoscritto.
Sette anni fa, la voce di Bill si è spenta per sempre.
Tutte le volte in cui ci penso, torna prepotente la voglia di
socchiudere le palpebre e dire ‘Scherzi?’ perché le cose belle non
dovrebbero mai finire.
Non ne hai voglia.
È successo.
Bill direbbe che è una stronzata, perché ci sono tante forme
di lieto fine; non è detto che tutto debba restare uguale, perché la felicità
sia quella che ti aspetti. Bill mi lascerebbe il dubbio con una domanda obliqua.
‘Ma tu lo sai com’è nata Nina?’
E sorrido, perché conosco la risposta.
Perché nel loro mondo fatto solo di silenzio, Bill e Madlen
parlano un’altra lingua; parole che non ascolti, ma che vedi e che tocchi.
E allora immagina, nel buio della notte, la voglia improvvisa
di raccontarti una storia, di continuare un discorso, di chiamarti,
semplicemente, perché non vuoi essere solo.
E le dita devono sfiorarsi per forza, intrecciarsi e poi
sciogliersi.
E dopo le dita, viene tutto il resto, finché non hai più
voglia di parlare.
Se non in quel senso.
In quello che una volta era solo mio.
Bill non ride più, perché quando non hai le corde vocali,
ogni suono è un sibilo soffocato.
Però sorride molto – sorride davvero.
Ti guarda e ti prende un po’ in giro, perché a chi gli parla
della tristezza del silenzio, vorrebbe rispondere: ‘Scherzi? È il silenzio
che rende tutto più eccitante. Fidati.’
Io, però, vivo dall’altra parte, dove c’è solo rumore, e la
folla e le mani alzate e le grida assordanti.
Io vivo il fronte del palco, dove una volta scivolava la voce
di Bill.
Forse non ho mai perso la speranza di incontrarla di nuovo.
Quando gli ho fatto ascoltare le strofe centrali di
quest’ultima canzone, accompagnandomi con la chitarra, mentre Nina batteva piano
le mani sulle ginocchia di suo padre, qualcosa di dolce è scivolato negli occhi
di mio fratello.
“Ich wünschte mir mehr als alles
noch einmal deine Stimme zu hören.
Ich möchte hören,
wie du meinen Namen sagst
Ich vermisse deine stimme.
Bitte, sag noch einmal meinen Namen.”*
Era una specie di ‘Scherzi?’ ma molto più triste.
Le sue labbra si sono mosse appena.
Sua figlia le ha lette e ha cominciato a urlare tutta
contenta.
Tomi, Tomi
Allora ho sorriso un po’ e ho cantato In die Nacht.
Con la sua voce.
* Io vorrei
più di ogni altra cosa/ascoltare ancora una volta la tua voce/Mi piacerebbe
ascoltare/ come dici il mio nome/Mi manca la tua voce/Per favore, dì ancora una
volta il mio nome.