Vagavo
per l’ospedale, notando gli sguardi indiscreti della gente su
di me. Mi chiesi
cosa avessi di tanto strano da suscitare una così grande
curiosità. Solo perché
ero uscita fuori, mentre pioveva a dirotto, così da
inzupparmi dalla testa ai
piedi non era una cosa immonda.
Sospirai,
apprestandomi a salire le scale. Sfortuna delle sfortune
l’ascensore era rotto.
Mi appoggiai al passamano e iniziai a trascinarmi verso il piano
superiore. In
quei giorni non mi andava neanche di camminare. Ero uscita fuori,
perché così
le lacrime che sgorgavano dal mio viso sarebbero sembrate semplici
gocce di pioggia.
Mentre
salivo le scale, pensai a quale scusa inventare, per giustificare il
fatto che
fossi uscita, dato che pioveva a dirotto. Non mi venne nulla in mente.
Neanche
avevo la testa per ragionare. Sbuffai. Mi trovavo in una brutta
situazione,
molto brutta.
Finalmente
raggiunsi il piano inferiore. Notai, che vicino al reparto terapia
semi-intensiva c’era un’aula congressi. Mio zio
aveva spiegato, che erano venuti
medici stranieri per una specie di caso particolare.
Mi
massaggiai le tempie. Avevo una confusione allucinante in testa. Aprii
la porta
della stanza in cui si trovava e la vidi: mia madre. Dormiva. Le erano
state
messe due flebo e accanto avevano posizionato
l’elettrocardiogramma. Erano due
anni che la vedevo in quello stato. Scossi la testa pensando che in
quei due
anni aveva solo sofferto. E adesso era arrivata al capolinea. Tra poche
ore si
sarebbe spenta ed io avrei perso mia madre a quindici anni. Brutto. Se
pensavo
a tutte le volte che mi ero illusa che si potesse salvare, mi veniva la
voglia
di distruggere tutto. Rabbrividivo al solo pensiero, che non
l’avrei mai più
rivista. Non mi avrebbe più sorriso, sgridato, coccolato,
non avrebbe mai più
pronunciato il mio nome, ma soprattutto l’avrei persa per
sempre.
Trattenni
un gemito e una lacrima solcò il mio volto. Sospirai e mi
sedetti accanto a
lei. Le accarezzai il volto. Com’era bella la mia mamma.
Anche se il tumore l’aveva
sovrastata la sua bellezza era rimasta intatta. Nel tentativo di darle
un bacio
sulla fronte, mi cadde il cellulare dalla tasca. Mi chinai per
prenderlo,
mentre mi asciugavo le altre lacrime che scorrevano. Per fortuna non si
era
rotto. Mi accorsi di un particolare. Avevo lasciato lo sfondo dove
c’era Edward
Cullen. Il protagonista di un romanzo, che avevo letto milioni di
volte. Era
una storia bellissima, e lui era un vampiro, buono. Se ripensavo a suo
padre
che trasformava la gente in vampiri per farli sopravvivere, speravo che
la
stessa cosa succedesse alla mia mamma. Ma poi mi ricordavo che era solo
un
personaggio del mondo di fantascienza, e che era inutile che mi
perdessi in
simili pensieri.
Uscii
dalla stanza, avevo bisogno di un po’ d’aria. Mi
guardai intorno e rimasi
perplessa e stupita dalla visione che mi si mostrò davanti.
C’era un ragazzo,
dai capelli bronzei e gli occhi dorati, che era appoggiato allo stipite
della
porta dell’aula congressi. La sua pelle era diafana, e la sua
bellezza
statuaria. Mi chiesi se fosse solo un caso, o quello fosse veramente
Edward
Cullen. Lui alzò lo sguardo e si accorse di me. Mi
guardò in modo interrogativo,
e poi mi rivolse un sorriso apprensivo e nei suoi occhi lessi un
po’ di
rammarico.
Scossi
la testa. La malattia della mamma stava facendo andare di matto anche
me. Mi
girai e diedi le spalle a quel bellissimo ragazzo. Se quello era
veramente
Edward sarebbe stato fantastico, sarei corsa da lui e gli avrei chiesto
di
trasformare la mia mamma. Ma a cosa pensavo? Dovevo aprire gli occhi e
rimanere
con i piedi per terra.
Passarono
alcuni giorni e la mamma si spense. Il mio dolore mi
squarciò l’anima, ma l’unica
cosa che mi rendeva felice era che ora non soffriva più.
Passò tutto così in
fretta, le lacrime, le condoglianze e il funerale. Fui felice di
ritornare a casa.
Ero troppo stremata dal dolore, così mi ero distesa sul mio
letto, decisa a non
alzarmi per i prossimi mille anni. Mi stiracchiai, posando la mano sul
cuscino,
però, toccai qualcosa di strano. Lo esaminai con le dita Era
una piccola busta
da lettere. Me la portai davanti agli occhi. Mon mi sembrava quella per
il
funerale, era diversa.
Curiosa,
la aprii. C’era un biglietto, lo lessi tutto d’un
fiato.
Cara
Any (ti chiamo con il tuo diminutivo
perché è carino),
Credo che tu non sappia chi sia io, ma spero
tu possa capirlo. Voglio iniziare col dire che non è
semplice stare a guardare
qualcuno che perde la vita, senza che noi possiamo fare nulla.
Anch’io ci sono
passato. Ti senti frustrato e provi un’angoscia terribile
dentro di te. So
quanto dolore tu stia provando e me ne dispiaccio, perché
non posso fare nulla
per aiutarti.
Comprendo il desiderio di volere la tua
mamma lì con te, anche sotto una forma diversa, ma io sono
sicuro che se anche
tu non la potrai vedere, lei sarà sempre lì con
te. Ti guarderà crescere,
piangere, sorridere. Non la perderai mai, perché avrai
sempre la consapevolezza
che la sua anima vive in te. E’ una promessa.
P.S.
mi dispiace di non averti potuto
accontentare, ma è meglio così credimi,
perché le cose sarebbero state più
difficili sia per te che per lei.
Con affetto… un tuo amico.
Le
lacrime scesero senza pudore dal mio volto. Singhiozzai, e sussurrai:
<<
ti voglio bene, mamma >>, emisi un gemito,
<< mi manchi tanto
>>. Con una mano mi asciugai le lacrime e osservai il
biglietto appena
letto. Un leggero sorriso si fece largo sul mio volto. Se lui poteva
esistere,
era sicuro che la mia mamma vivesse in me. Ormai ero convinta che tutto
fosse
possibile nella vita. << Grazie Edward >>,
mi portai al petto il
biglietto. << Grazie di cuore >>.
E
anche se la piccola Any non lo poté vedere, al di fuori del
suo balcone un
ragazzo dagli occhi dorati sorrideva, nel vedere la sua pro nipotina,
che era
uguale alla sua amata sorella, scomparsa anni fa.
Questa
fan fiction è dedicata alla mia mamma. Anche se non sono una
brava scrittrice.
L’ho voluta pubblicare lo stesso. Volevo farle un mio ultimo
regalo. Spero vi
piaccia.