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Autore: penny berry    30/07/2010    2 recensioni
"E salverò i ricordi. Quei ricordi… che hanno impresso nella mente di chi sapeva ascoltare, il tuo sorriso. La tua risata rumorosa. Il tuo sopracciglio corrugato ad una domanda imbarazzante. Le tue mani affusolate sui tasti di un pianoforte. La tua sbadataggine per l’affanno di afferrare ogni singolo sorso di vita..."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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08
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 8° capitolo – Reazione
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Un capitolo un po’ particolare, specialmente la prima parte… ma spero di essere riuscita nell’intento e che sia leggibile xD
Ci vediamo sotto, bacio ;P















8
“Reazione”







Era seduto sul muretto ed accordava la chitarra. La felpa blu scuro gli cadeva larga sulle spalle e i capelli ancora bagnati dalla doccia gli restavano incollati alla fronte, disegnando righe buffe.
Era l’imbrunire, e i raggi rosso fuoco attraversavano il cielo tingendo le nuvole di un rosa carico, mentre un vento leggero e freddo scuoteva le cime degli alberi spogli, diffondendo una melodia frusciante e malinconica.
Robert storse la bocca mentre giocava con le corde dello strumento cercando disperatamente la nota che poteva completare la piccola canzone che gli passava per la testa da quella mattina.
Pizzicava le corde con leggerezza, quasi le accarezzasse con grazia, facendole vibrare con maestria. Canticchiava. Un mugolio basso e passionale che gli nasceva dalla gola e saliva sino alla testa, riempiendogli la mente di immagini colorate e dolci che accompagnavano la sua idea di musica…
Ci aveva pensato spesso negli ultimi giorni. Probabilmente, una volta partito, non avrebbe avuto più tanto tempo per dedicarsi alla sua passione. Probabilmente era un errore portare con se la chitarra, era una sorta di vessillo di un romantico fatto e finito, cosa di cui alle volte si vergognava. Beh, non che la vena maschile gli mancasse, ma il cedere al fiume dello stupore, della poesia e dell’armonia era una cosa che da tempo aveva aggiunto alle sue debolezze perenni. Fatto sta che decise di comporre e liberare il proprio spirito, prima di salire sull’aereo e abbandonare dietro di se i ricordi.
“Uhmm… no” borbottò, ripetendo un accordo, con il viso rivolto verso il cielo e lo sguardo concentrato. La nota stonava. Un fiore spento in mezzo ad un campo di girasoli. Doveva dargli colore.

Una figura scivolò via dalla veranda e attraversò con calma il giardino, per fermarsi dietro il ragazzo e ascoltarlo con la testa inclinata di lato.
Era un piacere ascoltarlo. Vederlo amare quello strumento come se fosse stato un riflesso di se stesso, un fratello gemello, tanto da non stancarsi mai dal confidarsi con lui ed averne la massima cura. In molti avrebbero potuto dire che si, la musica è un interesse che va coltivato e deve riempire gli spazi di una vita, ma farne un attaccamento morboso poteva essere solo una mera perdita di tempo… o un segno di debolezza, di rifugio da un evidente stato emarginato. Ma per Robert non era così.
Si alzava la mattina con nuove note che gironzolavano e canticchiavano nella mente, per poi fare colazione ed averne altre che già componevano una nuova canzone. Incontrava gli amici nel pomeriggio e attorno a loro disegnava spartiti immaginari, mentre la sera legava melodie malinconiche attorno ai confini del proprio mondo, aspettando il domani. Era come vederlo spostarsi di continuo su scale e scivoli costruiti con macchie nere d’inchiostro ed echi di vecchie e nuove melodie che arrivavano dallo spazio che teneva nascosto dentro il petto; dove camminava, dove rideva, dove piangeva, dove rifletteva… era un piccolo pezzo di musica.

Richard lo osservò imbronciarsi mentre bisticciava con nell’esima nota. Suo figlio. E presto sarebbe partito. Assieme alla sua amata chitarra. Già gli mancava. Gli mancavano tutti e due.
“Ti ho portato una tazza di tè” disse andandogli vicino.
Rob alzò lo sguardo e abbozzò ad un sorriso. Posò la chitarra sulle gambe e prese la tazza.
“Problemi con la tua musa?” chiese ridacchiando l’uomo.
“Non trovo il finale” bofonchiò affranto il ragazzo.
“Una canzone nuova?”
Lui fece spallucce storcendo la bocca. “Ne nuova ne vecchia… è più un riassunto e un prologo messi assieme”.
“È molto bella”.
Rob rise, “È un disastro!”
“Lo dici sempre”.
“Beh…” tentennò lui, osservando il tè nella tazza, “Sono modesto”, concluse, guardando il padre con i grandi occhi azzurro mare.
“Poco ma sicuro. Hai preso da me” gli batté una mano sulla spalla Richard. E il figlio rise.
Finita la tazza di tè, la passò all’uomo e riabbracciò la chitarra tornando a sfiorare le corde. Prima o poi la fine l’avrebbe trovata… era una questione di filosofia.
“Tua madre ha finito il bucato e ha lanciato maledizioni per mezz’ora per tutta la roba che ti ha comprato: penso che non sia molto contenta, ora che la dovrà stirare” raccontò Richard.
“Io le avevo detto che la tuta e le due camicie bastavano”.
“Tu saresti andato in pigiama”.
“Così sarei già stato pronto per la sera… Sul set i vestiti me li danno gratis, che senso ha spendere quando posso risparmiare per cose più utili?” commentò con un ghigno che non prometteva nulla di buono.
“Io spero che… con la lontananza di Tommy, ti prenda una malinconia tale da non toccare un singolo goccio di birra, non è vero?”
Robert alzò il viso con occhi sbarrati. Non diceva sul serio!
“Come scusa?”
“Niente. Tua madre mi ha detto di farti la ramanzina su ‘ Robert non deve ubriacarsi e farsi riconoscere subito ’… Ho adempito ai mie doveri di genitore” annuì asciutto Richard, passandosi una mano fra i capelli. E il figlio rise forte una seconda volta. Suo padre non sarebbe mai cambiato.
Passarono altri lunghi istanti assieme, Robert suonando alla ricerca del finale perduto e l’uomo seduto accanto a lui, con lo sguardo rivolto verso il cielo ormai tinto di viola e blu con una linea sottile e quasi impercettibile color corallo all’orizzonte.
Mancavano tre giorni a Natale. E quattro alla partenza del ragazzo. Era come andare avanti al rallentatore… o forse vi era l’illusione che il tempo andasse più lento, per poter intrappolare ogni singolo attimo nella rete di ricordi per poi ritagliarli e infilarli sotto il cuscino, affinché facessero sempre compagnia. Ma i cambiamenti prima o dopo avvengono, e quando si è sull’orlo del grande salto, tornare indietro e trovare una strada più semplice, è solo una grande perdita di tempo: si chiude gli occhi, si inspira… e ci si lancia. Erano pronti per il salto. O quasi…
“Hai preso il regalo a tua madre?”
Robert sbuffò. “Ho girato sei negozi. Sei! Ero tentato dal comprarle un piccolo set di nanetti vestiti da Babbo Natale, da mettere in giardino. Erano molto carini, con il berretto luminoso”.
Il padre avvampò sul collo per il terrore.
“Ma alla fine ho preso qualcosa di più di pratico” lo rassicurò con sorriso.
“Ero già pronto a diseredarti, sai?”
“Tu che le hai preso?”
“Ho già speso metà della mia settimana ad addobbare casa assieme a lei: non c’è prova d’amore più grande, immagino” commentò solenne.
“Economico soprattutto”.
“Non per i miei nervi…” ribatté funereo Richard, ricordandosi d’improvviso degli angioletti grassi e palline colorate sparse per il pavimento. Un incubo.
“Fra poco arriverà Tom. Usciamo a prendere il regalo per sua mamma. Penso sia più disperato di me… ma ho già intenzione di abbandonarlo al quinto negozio se non troviamo nulla” annuì con vigore a se stesso Robert, come a rassicurarsi sul fatto che forse sarebbe sopravvissuto allo shopping dell’ultima ora.
“Phoebe è una donna semplice, non penso sarà difficile”.
“Anche mamma è semplice…”
“No, tua madre vive nella semplicità quando sono io ad aggiustare le cose, è un po’ diverso come punto di vista” borbottò Richard, fissando con odio l’albero di Natale poco distante che era stato costretto a sistemare perché restasse in equilibrio.
Robert fu tentato dal rispondere, ma la voce di Clare alle sue spalle glielo impedì. I due uomini si irrigidirono sperando che non avesse sentito nulla dei loro discorsi, in particolar modo il marito se voleva arrivare sano e salvo sino alla cena.
“Oh, siete qui! Tesoro, è arrivato Tom, ti aspetta in soggiorno”.
“Grazie, mamma” le sorrise lui, prima di vederla sparire all’interno. Saltò giù dal muretto e prese la chitarra, seguito subito dopo dal padre. Entrarono lasciandosi dietro il freddo della sera.
“Cinque negozi, eh?” scherzò Richard.
“Quattro sono troppo pochi… e sei non se ne parla nemmeno: sono una persona paziente e servizievole, do sempre un certo spazio alle persone a cui voglio bene”.
Avevano raggiunto il soggiorno, dove Tom li aspettava appollaiato sul divano e Clare correva da un lato all’altro della stanza per sistemare alcune decorazioni che, a suo parere, erano fuori posto. Richard alzò gli occhi al cielo con un gemito.
“A chi è che vuoi bene?” chiese curioso Tom, cogliendo la fine del discorso.
“A te” rispose Rob, appoggiando la chitarra sul tavolo.
“E… è una cosa di cui devo aver paura?”
“Dipende” sghignazzò l’altro con aria sadica. Tom si spostò lontano da lui con aria terrorizzata.
“Bene, giovanotti! Andate e cercate di non radere al suolo nulla, o mi toccherà vendere le decorazioni di tua madre per saldare i debiti, capito?”
“Richard!” strillò Clare dall’altra stanza.
“Oh, ma mica tutte eh… metà bastano per restaurare gli Harrod’s” commentò acido lui. Si rivolse poi al figlio, “Ti aspettiamo per cena?”
“No, non credo, mangeremo qualcosa fuori” scosse la testa lui, guardando poi l’amico.
“Uhm! Italiano?”
“Nah, messicano”.
“Ugh! Cinese…”
“Ah, francese”.
“Oh oh, giapponese! Sushi…”
“MacDonal - ”
“E io sono un monaco tibetano, si d’accordo” li afferrò per le spalle Richard, ridendo sotto i baffi. Li spinse verso la porta, “Andate dove vi pare, basta che torniate a casa interi e con tutti i vestiti addosso. O almeno la metà, le scarpe potete lasciarle in beneficenza”.
E fu dopo aver allungato qualche soldo al figlio, che i due ragazzi uscirono stringendosi nelle giacche e salutando il signor Pattinson.

“Tuo padre è strano ultimamente”.
“Lo è sempre a Natale”.
“Bontà in saldo?”
“No. È l’albero che mamma gli fa decorare tutti gli anni in giardino”.
“Oh, brutta storia”.
Camminavano da una mezz’ora, dopo aver preso la metropolitana ed essere scesi a Picadilly Circus. Era uno dei posti che più preferivano: per la gente, per i rumori e i colori, per l’atmosfera, e per i ristoranti e locali. Era una dei piccoli cuori di Londra, ed era anche uno degli angoli dei loro ricordi e dove spesso amavano tornare…
“Hai almeno una vaga idea di cosa prendere a tua mamma?”
“Certo che no” sorrise Tom, mentre adocchiava un take-away cinese con occhi famelici. “Stamattina ha detto di volere un nuovo spremiagrumi, ma tanto lo so che lo usa solo per ingozzarmi di spremute: e io odio le arance. E poi ha detto che voleva un altro paio di Louboutin… va a capire che c’entra con la frutta”.
“È solo un po’ confusa”.
“No, è una donna” commentò lugubre il ragazzo.
Vagarono fra le vie illuminate parlando del più e del meno, gettando occhiate curiose ai negozi e alle piccole bancarelle improvvisate per i vicoli, alla ricerca di un qualcosa di degno per Phoebe: semplice o meno, donna o confusa, qualcosa dovevano pur trovare, e l’umore di Tom era decisamente sconfortato.
Decisero di spostarsi in Oxford Street, dopo che Robert aveva saggiamente proposto di comprarle qualcosa per la casa, originale ma pur sempre femminile, e Urban Outfitters era l’unica fonte di salvezza.
Una volta entrati, furono investiti da un’onda di persone impazzite, che si strappavano dalle mani oggetti e vestiti, scarpe e soprammobili, quasi fossero sul punto di azzannarsi e strapparsi i capelli: Natale? No, la terza guerra mondiale…  I due cercarono di farsi largo fra la folla, pur non toccando nulla per timore di non ritrovarsi più le dita.
“È il terzo negozio in cui entriamo. Ne mancano ancora due,e poi sarai libero” sorrise Tom, mentre curiosava delle lampade su uno scaffale.
“Mi hai sentito?”
Quattro sono troppo pochi, e sei non se ne parla nemmeno ” citò l’amico con una risata, “Pensavo ti saresti fermato al secondo in realtà. Mi sorprendi”.
“Sono una persona servizievole” cercò di darsi tono Robert.
“No, sei scemo, è diverso”.
“Posso sempre andarmene, sai?” gracchiò in risposta l’altro, offeso.
“Oh, io me ne sarei già andato da un pezzo, Bobby” sghignazzò lui.
Robert si fermò e lo guardò, con le mani affondate nei jeans e la bocca serrata. Lo osservò scansare due donne con le braccia colme di vestiti e scarpe, prima di prendere cautamente in mano una cornice in legno e fiori secchi. Lo studiò…
Tommy era un ragazzo a cui voleva bene. Un gran bene. Era il suo migliore amico. Era la voce della verità, quando questa era troppo timida o troppo scomoda per essere rivelata. Era l’occhio attento nelle situazione in cui Robert sapeva di essere parziale e maledettamente distratto. Era la spalla su cui battere il pugno nei momenti di sfogo e il sorriso strafottente che risollevava il morale quando si credeva che ogni cosa fosse una delusione.
Eppure, in quegli ultimi giorni, Robert lo odiava. Lo avvertiva come una presenza irritante. Lo percepiva come un estraneo capitato all’improvviso nel suo acquario di felicità. E se avesse dovuto dipingerlo, avrebbe usato colori troppo scostanti dai propri perché potessero essere in sintonia. Era Tom… e allo stesso tempo non lo era.
Abbassò il capo, osservandosi la punta delle scarpe con una smorfia.
Aveva imparato di recente che era inutile girare attorni ai problemi, assoldata la loro presenza, perché equivaleva a prolungare l’agonia e la confusione, portando all’infinito. E anche se gli doleva ammetterlo, o meglio… trovava strano che potesse accadere, lui, Robert, era geloso.
Si, dannatamente geloso.
“Hei, Bobby: guarda questo, che te ne pare? È spaventoso, ma magari alla mamma piace” gli urlò Tom da dietro uno scaffale, alzando sopra la testa un enorme gatto in legno con due lampadine al posto degli occhi.
Robert lo guardò per un momento, prima di alzare un sopracciglio e scuotere la testa con vigore.
“Si hai ragione: è troppo bello e mi sentirei in colpa a sottrarlo agli altri… credo prenderò qualcos’altro” commentò il ragazzo, sparendo dietro un paravento.
Geloso.
A dire la verità, doveva riconoscere che se c’era qualcuno da incolpare, quello era se stesso, e nessun’altro. Perché era stato lui, in un momento di ansia e forte preoccupazione per ciò che il futuro avrebbe comportato, ad aver chiesto all’amico di occuparsi di lei. Di assicurarsi che non sarebbe mai stata sola, che avrebbe avuto sempre una mano a cui aggrapparsi per potersi rialzare, che avrebbe avuto sempre qualcuno dietro di se, come un’ombra, a coprirle le spalle. Si, era stata una sua preghiera.
E Tom aveva obbedito. Aveva esaudito il suo desiderio. Non aveva colpa.
Il fatto poi che le cose fossero precipitate, e che la separazione di Robert e Charlotte fosse stata anticipata di un mese era attribuibile, ancora una volta, a Robert… Tom aveva solo colto la palla al balzo, e da un certo punto di vista aveva anche agito da amico, andando a sanare la ferita dove lui aveva lasciato lo strappo. Tom era il salvatore.
Geloso.
“Oh mio D - … no, questo è orrendo, non lo voglio nemmeno vedere!” spuntò dal nulla una mano da oltre un mucchio di coperte, sventolando un tappetino da bagno rosa shocking con due antenne a molla a forma di cuore.
Robert strinse gli occhi, ma non rispose.
Era stato insolito, strano, diverso vederlo quattro sere prima assieme a lei, al Luna Park. Era come guardare un quadro e notare una nota di colore troppo calcata rispetto al resto dell’armonia della composizione, ed essere l’unico ad accorgersene. Lei rideva e camminava con una mano stretta attorno al suo braccio, mentre Tom le lanciava occhiate protettive e la guidava attraverso la folla. In altri tempi, forse, non l’avrebbe considerato un elemento disturbante, anzi: sarebbe stato contento di vedere quanto affetto scorresse fra loro, e quanta felicità il ragazzo riuscisse ad accendere in Charlotte… ma per un solo ed unico motivo. In passato, lui, Robert, c’era. Era presente giorno e notte nella vita della ragazza, come un sogno ad occhi aperti che si protrae anche durante le tenebre; considerato, visto… amato.
Ed ora era uno spettatore. Spettatore di una vita che amava alla follia e che osservava scorrere al di là di un vetro appannato e freddo.

“Credo che le prenderò questo, è meno orribile delle altre cose” tornò indietro Tom, reggendo un vaso di medie dimensioni, rosso con dei disegni floreali sul bordo. “Ha la mania dei fiori da mettere a centro tavola: è una cosa utile, e femminile”.
Si ritrovarono l’uno di fronte all’altro, occhi azzurri contro occhi azzurro mare. Sorriso allegro contro bocca a linea dritta. Fronte distesa contro sopracciglia corrugate.
La gente correva e spingeva attorno, ma loro rimasero immobili, a fissarsi, con il vaso rosso a mantenerli distanti.
Non occorreva un veggente per intuire cosa turbasse Robert, e forse la stessa coscienza dava profondi cenni di consapevolezza. Tom si morse un labbro e fece un bel respiro.
“Credo… che tu sia arrabbiato”.
Robert allargò gli occhi e poi li strinse. Nella sua semplicità, era minaccioso.
“Ed immagino anche quale sia il motivo”.
“Non ne voglio parlare” rispose tutto d’un fiato lui.
“Sarebbe il caso”.
“No, non lo penso”.
Tom lo soppesò per un istante, poi guardò il vaso come a cercarvi una soluzione alla tensione del momento. Perché si comportava a quel modo, si chiese? Poteva comprendere la sua possessività verso Charlotte, l’aveva sempre dimostrata, ma perché mettersi sulla difensiva con lui? Lui che non gli avrebbe mai fatto un torto nemmeno sotto tortura. Gli vennero a mente le parole di Richard, riguardo i sentimento di Robert verso lei… e ancora più non comprendeva perché dovesse arrabbiarsi con lui, che di interesse non ne aveva.
“Immagino che il problema risalga all’altra sera, vero?”
“Ho detto che non ne voglio parlare”.
“Volevo chiederti di uscire con noi, ma poi ho pensato che come idea, non brillasse di intelligenza”.
Una vena di rabbia si accese negli occhi del neo attore e lui avanzò di un passo.
“Certo, la mia presenza sarebbe stata di troppo, lo capisco”.
“È brutto da dire, ma si”.
Ovviamente nessuno dei due comprese che, pur usando le medesime parole, si stavano muovendo su due concetti del tutto opposti. Robert si sentiva escluso da un cerchio che rivendicava come proprio, mentre Tom cercava di far riemergere la ragazza passo dopo passo anche se ciò comportava l’assenza della figura dell’altro.
“Bene, immagino che allora sarà in buone mani, quando non ci sarò”.
“Cercherò di fare del mio meglio, Bobby…” rispose teso Tom.
“Mi sembra che ti stia già dando da fare al riguardo”.
“Per un giretto al Luna Park?”
“So che l’hai vista parecchio in questi giorni”.
“Sei stato tu a chiedermi di tenerla d’occhio” ribatté di colpo offeso il ragazzo, stringendo il vaso fra le mani.
E Robert incassò le spalle come se avesse ricevuto un colpo sulla schiena. Fece un passo indietro e gettò un’occhiata fugace all’uscita.
“Senti io credo che… stiamo parlando di due cose diverse” cercò di chiarire Tom.
“Stiamo discutendo sulla stessa persona” fu il ringhio in risposta.
“Ma con intenzioni differenti” calcò il tono lui.
Robert spostò l’attenzione dal pavimento affollato all’amico alla sua destra. Lo guardò rabbioso.
“Che cosa vuoi dir - ”
“Te la stai prendendo per una ragione che non esiste!” scosse il capo. “Mi stai considerando come una persona che potrebbe nuocerti su un campo che… dannazione, nemmeno mi interessa!”
Il ragazzo corrugò la fronte. Non capiva.
“Io voglio bene a Charlotte” spiegò Tom. “E gliene vorrò sempre. Ma è come se fosse mia sorella, o una sorta di cugina molto stretta o… quello che ti pare. Mi taglierei tutte e due le mani, se servisse, ma la cosa finisce qui. Non sono disposto a ridurre a marmellata la faccia di chi le incollerà gli occhi al fondoschiena per più di due minuti, ne voglio diventare scemo per l’ansia causata da crisi di possessività nei confronti suoi e di quelli che invadono il suo spazio d’aria. Io non voglio… non mi interessa. Non in quel senso. Non a me ”.

Robert lo guardò con gli occhi stralunati, pietrificato, per lunghi istanti, l’eco delle parole di Tom ancora vivo nelle orecchie.
Ebbe un tremito improvviso lungo la schiena e sentì le ginocchia cedere sotto il suo peso.
“I-io…” balbettò.
“Non importa. Non ha importanza” gli strinse una mano sul braccio l’amico. “Ho capito”.
Robert spalancò ancora di più gli occhi, se poté, e gemette. Aveva capito.
Come? Perché? Nemmeno lui l’aveva realizzato. Nemmeno lui riusciva a dirlo a parole o a tracciarlo nitido nella propria testa. Era solo un pensiero che andava e veniva, che si portava sulla scia di emozioni ballerine e stralci di parole e canzoni appuntate su un quaderno. Nemmeno lui l’aveva capito.
“No” fu tutto quello che riuscì a dire.
“Oh si invece, ma tranquillo, se vuoi non ho capito niente. È lo stesso per me”.
Il ragazzo scosse il capo e si passò una mano sui capelli e sul viso con un sospiro agonizzante. Gli mancava l’aria tutto d’un tratto e quello spazio affollato gli stava dannatamente stretto.
“È meglio se torno a casa” disse.
“Si. Io qui ho finito, e non credo di avere abbastanza soldi per cenare fuori” si dimostrò solidale Tom. “Nessun problema, Bobby, ci sentiamo domani, se vuoi”.
Robert inspirò ed annuì distrattamente. Si voltò verso il giovane e con un cenno del capo lo salutò, biascicando un “Ciao”, e a passi svelti si disperse fra la gente.


***


Con la mano intirizzita dal freddo, Nia aprì la porta di Starbucks e si gettò dentro come un pupazzo a molla, seguita da Charlotte. Erano congelate, da capo a piedi, le labbra livide e uno sconnesso tremore in tutto il corpo: gran brutta idea la pista di pattinaggio.
“Oh… oh oh… oh…” balbettò la bionda, guardandosi le mani.
“T-tu… t-tu… sei” cercò di indicarla la mora, con occhi cattivi.
“Surg-gelata” sorrise in risposta lei.
“Morta”.
“Eh… no” scosse il capo Nia. “Ma uno a d-dieci che se mi m-mandi f-fuori di nuovo… p-potrei esaudire il tuo d-desiderio”.
Era la seconda volta che la ragazza dagli occhioni azzurri rapiva Charlotte dalla calma della sua cameretta e la costringeva a indossare qualcosa di carino, per poi trascinarla giù dalle scale, scollarla dalla ringhiera, e farle varcare la soglia, con una destinazione ben precisa: pattinaggio sul ghiaccio e cioccolata calda. E sarebbe stata una prospettiva più che allettante e assolutamente imperdibile, se non fosse stato che Charlotte passò metà del suo tempo spalmata sulla pista, con Nia che correva a raccoglierla, travolgendo metà dei presenti come in una pista di bowling, finendo a terra anche lei con un volo che aveva ben poco dell’angelico. Un pomeriggio movimentato… ed era tutta colpa di Nia, naturalmente.
“Cercavo solo di riequilibrare la tua inutile vena acrobatica” disse infine la bionda, mentre sorseggiava una doppia cioccolata con panna.
“Sei molto premurosa ultimamente” soffiò Charlotte da dietro la propria tazza.
“Trovi, vero?” sfarfallò gli occhi l’altra. “Credo di avere un innato senso dell’altruismo, effettivamente”.
“Mi fraintendi. Cercavo di dissuaderti dalla tua crociata missionaria, sai?”
“Oh, ma come sei insensibile” mugolò, prima di cacciarsi un muffin in bocca.
“Si, anche la mia schiena ha raggiunto un livello d’insensibilità unica. È curiosa come cosa”.
“Cosa è curioso?”
“Essere ridotta a pezzi, ogni volta che hai modo di invadere il mio spazio vitale”.
“Questo perché hai sempre vissuto in un acquario, dolcezza: è un problema non mio”.
“Oh… ma come sei insensibile” ripeté sarcastica Charlotte, facendole il verso. E Nia cacciò la lingua con una risata così forte da scuoterle i lunghi capelli dorati.
La mora mosse il capo con aria sconsolata e guardò fuori dalla vetrata, osservando la gente passare, avvolta in cappotti e sciarpe. Si muovevano come formiche impazzite in un enorme prato illuminato, proteggendo fra le braccia pacchi e scatole dai colori sgargianti, e tenendo lo sguardo fisso davanti a se quasi avessero paura di perdersi se mai avessero osato distrarsi… Buffo.
La vita delle feste le tornava estranea. Negli ultimi anni non aveva avuto modo di assaporarla a dovere, o almeno è quello che la coscienza le suggeriva. Passava le sue giornate ad addobbare casa assieme alla nonna, lasciando il giardino e l’albero a Robert, per poi limitarsi a riempire l’atmosfera con canzoni e vecchi film in bianco e nero. Quello era il Natale. Una piccola riunione di famiglia, un incontro di cuori, una delicata manifestazione di affetto. Ma nulla più…
Con l’arrivo delle vacanze scolastiche, vedeva i proprio compagni affannarsi ed eccitarsi all’idea delle grandi compere e corse ai negozi per il centro, emozionarsi per i regali che pensavano avrebbero ricevuto, specialmente da chi suscitava particolarmente il loro interesse. Anche lei un tempo faceva parte di quella giostra luminosa, poi… piano piano… era sfumata in una piccola nuvola scura, lasciata in disparte, perché gettava una vena troppo cupa su un’atmosfera così gaia.
Charlotte sorrise al ricordo. Già. Lei era il temporale.
Solo una persona, non l’aveva abbandonata e anzi, sembrava preferire il gran temporale che la caratterizzava alle luci e scintilli di festa del resto della massa. Nia.
“A che pensi?”
La ragazza bionda la osservava con un sorriso sulle labbra rosse e piene e la testa inclinata di lato. Era bellissima.
Charlotte non rispose subito, alzando lo sguardo sui festoni accesi lungo i cornicioni degli edifici e sugli alberi agli angoli delle strade. Pensare… riflettere… ultimamente non faceva altro.
“Ho visto Robert l’altra sera” disse, senza rendersene realmente conto.
“Oh”.
“Dopo che siamo tornate dallo shopping. Dopo la caccia alla tua bruttissima giacca” aggiunse con una risatina, mentre Nia metteva il broncio. “Tom è passato a prendermi e siamo andati al Luna Park”.
“Oh. Un’uscita a tre” commentò con aria maliziosa la bionda.
Charlotte la fulminò con lo sguardo. “Eravamo solo io e Tommy. Robert… beh, lui… lui è… era lì. Immagino fosse da solo”.
“E avete parlato”.
“Uhm… no”.
“Allora perché raccontarmi l’episodio? ”
La mora storse la bocca, e tornò a mescolare la propria cioccolata con aria triste.
“Perché non sapevo a chi dirlo, immagino”.
Nia sospirò e poi allungò una mano a cercare quella dell’amica. La strinse con forza.
“Tesoro io penso che questa storia stia durando un po’ troppo, non credi? Specialmente perché non sono al corrente di parecchie cose. Godo di un’intelligenza al di sopra della norma, lo so, ma ho i miei limiti” annuì con aria saccente. E Charlotte non poté non reprime un timido sorriso.
Si. In fondo, perché no? Perché non rivelarle quella che da settimane le dava il tormento e le faceva scoppiare la testa? Del resto, anche se la irritava essere schiacciata dalle troppe attenzioni di Nia, la bionda stava solo cercando di dimostrarle che effettivamente c’è un secondo modo di affrontare la vita… Beh, forse non proprio con un criterio ortodosso, ma era pur sempre godersela. E d’altro canto, oltre a lei, pensò, non aveva nessun’altri. Tom ne era già al corrente.
Strinse a sua volta la mano della ragazza, fece un profondo respiro e dopo aver contato fino a dieci, raccontò quello che aveva costituito lo strappo fra lei e Robert.

Nia non mosse un muscolo. La ascoltò in silenzio, fissandola senza battere ciglio. Non diede modo di lasciar trapelare nemmeno la più piccola reazione. Si concesse solo uno sbuffo trattenuto quando arrivarono alla parte dello schiaffo reciproco, per poi tornare nel mutismo.
Una volta che il racconto terminò e la mano della mora tremava in quella della bionda, Nia decise che ora poteva parlare.
“Hai finito?”. Charlotte tirò su col naso e annuì. “Ora capisco un bel po’ di cose. Ci voleva tanto perché me le dicessi?”
“Non mi andava”.
“Certo. Tanto peggio per te che hai sofferto da sola, senza nessuno con cui parlare. Alle volte mi chiedo se tu lo faccia apposta ad essere così maledettamente imbranata. Ma forse è un difetto genetico, non tutti escono sani dalla catena di montaggio”.
“Per favore…”
Nia lasciò andare la mano e si abbandonò sullo schienale, guardando fuori. Il quadro ora cominciava a lasciar scorgere i propri colori, belli o brutti che fossero, si risaliva all’origine.
“Dovrei parlare con Mr. Pattinson, per poter dare un’opinione imparziale” disse dopo due minuti di silenzio.
“Nemmeno per sogno! Non… oh no, non lo farai” si agitò Charlotte, cercando di attirare la sua attenzione.
“Ho detto che dovrei, non che lo farò, dolcezza. Non è mai stato un ragazzo che mi sia andato particolarmente a genio, ma penso che sia dovuto ad una questione di carattere e fegato” rispose lei, sempre senza guardarla. Era strana. Era diversa. Era seria. “Non ho mai approvato la sua linea di filosofia, giacché ritengo che perdere tempo a nascondere una persona sotto un cumolo di caramelle e orsacchiotti sia un evidente segno di crisi esistenziale, sia per lui… che per te. Con ciò non voglio dire che abbia sbagliato, solo... che non la pensiamo alla stessa maniera”.
La mora socchiuse gli occhi e mandò giù il groppo in gola che non accennava ad andarsene.
“È anche colpa mia… ho agito d’istinto, non ho pensato prima di…”
Nia si voltò e le piantò addosso i suoi grandi occhi azzurri. “Vi siete comportati come due essere umani, dotati di ormoni e neuroni dell’idiozia, non c’è nulla di sbagliato, sai? Perché tu non…” si fermò un attimo lasciandosi andare in una risata amara, “Ah, tu non hai dato sfogo alla tua vera personalità per anni, tesoro: hai messo la camicia di forza alla tua adolescenza e ti sei sepolta viva. E così facendo, hai permesso a quell’altro demente, di aggiungere altra benzina sul rogo, credendo che fosse la sua missione nella vita. Nemmeno fosse il Greenpeace e tu una foca in via d’estinzione”.
“Non è un discorso che mi va di ascoltare” gracchiò Charlotte, scostando la sedia, ma Nia fu più svelta e la afferrò per il  polso impedendole di alzarsi.
“Ma qualcuno deve pur dirtele queste cose, non credi?” la inchiodò. “Ti credevo più matura, considerando gli arretrati di esperienza passata”.
“La cosa non credo ti riguardi, non è vero?” si difese con cattiveria Charlotte. Non voleva toccare argomenti che erano ancora una ferita aperta e sanguinante.
“Mi riguarda nella misura in cui tu eri la mia migliore amica, maledizione a te”. E fu allora, che per la prima volta, la ragazza vide il primo spiraglio di debolezza nella bionda. Era come scorgere un enorme baratro sotto i piedi, nascosto da uno spesso strato di soffice nebbia: c’è, ma non sempre si vede…
“Forse dovresti trovare qualcun altro. Non credo di essere adatta al ruolo” mugolò sotto pressione Charlotte.
Nia scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sconvolto dell’altra. “Ahahah! Oh… dolcezza, non ho mai sentito risposta più idiota di questa. E mi piace…” aggiunse con aria sognante. “Non sei tu a decidere a chi io debba rivolgere le mie attenzioni, non t’azzardare mai più a dire una cosa simile. Ma a parte questo, credo che, ritornando sull’argomento, abbiate entrambi una buona e sana dose di colpa, ma la maggiore spetta a te”.
“Come da manuale”.
“Dovevi pensarci prima”.
“Hai finito di infierire? Credevo di trovare conforto… non la Santa Inquisizione”.
“Oh ma è questo il mio conforto: l’impatto con la realtà. Trova qualcun altro che abbia una faccia come la mia e ti dica quello che c’è effettivamente da dire, senza mentire, e poi forse… potremmo riparlarne”.
“Non sei divertente”.
“Io mi trovo interessante. Ma è una questione di punti di vista, tesoro. La vita è tutto un punto di vista. E anche voi due… siete due inutili punti di vista. Lui pensa di aver agito nel migliore dei modi, nemmeno fossi la rosa incantata della Bella e la Bestia; mentre tu hai giocato a fare la pazza mentale, crogiolandoti nelle sue attenzioni. Ma hai dimenticato una cosa: tra sopravvivere e vivere… c’è una spessa linea di differenza. Dico sul serio” annuì con gli occhi accesi.
Era come ascoltare un disco rotto. Una canzone che si ripete, e si ripete, e si ripete… Aveva afferrato il concetto di Nia, glielo stava riversando addosso come un secchio d’acqua bollente, ma ciò non voleva dire che era intenzionata a restare ad ascoltare ancora per molto. Non voleva. Le serviva tempo per riflettere, per pensare… per capire. La considerava una che scappa, che si nasconde, che si rifiuta di reagire? Era quello il problema? Beh, lei aveva smesso di preoccuparsene molto tempo prima. Dicono che la prima persona con cui siamo costretti a convivere, siamo noi stessi, e se non impariamo ad accettarci, allora nessuno mai incontrerà i nostri favori. Charlotte coesisteva con un’idea di se, con un la realtà camuffata sotto un ricordo lontano, un ricordo allegro, mentre il presente non lo era. E allo stesso modo, viveva con un’idea di Robert… Lo accettava senza metterlo in discussione, senza chiedersi se quello che faceva fosse giusto o sbagliato.
Era vero. Tra vita e sopravvivenza c’era una netta linea di differenza. Ma lei non sapeva più distinguerla.
“Devo pensarci”.
“A cosa?” chiese Nia.
“A quello che hai detto”.
“E cosa c’è da pensare, di grazia? A quanto abbia ragione?”
“È difficile per me… è c-complicato”.
“No, tu vuoi che sia complicato, perché essere ragionevole comporta uno sforzo e sbattere la faccia contro il muro degli errori” disse secca. “Un mucchio di persone accetta l’idea di avere il naso rotto a furia di andare a sbattere, non vedo perché tu debba essere diversa”.
“Forse è solo un modo di essere che ho scelto?”
“No. È solo la codardia più grande che abbia mai visto” le strinse ancora più forte la mano.
“Senti…” gemette Charlotte guardandola con le lacrime agli occhi, “Non puoi accettarmi per come sono? Non penso cambierebbe le cose, non più di quanto lo siano già. Non chiedo molto. Vivi e lascia vivere”.
E la risposta di Nia fu semplice, diretta, precisa. “No”.

Restarono sedute ad osservare in silenzio la gente camminare fuori della vetrata. Ordinarono un altro giro di cioccolata e muffin, senza scambiarsi una parola. Solo la mano di Nia era rimasta saldata a quella dell’amica.
Infine, quando ormai l’ora di cena era passata da un pezzo, la bionda si rivolse a Charlotte con una dolcezza insolita, innaturale.
“C’è sempre tempo. C’è tempo per ogni cosa. Ma non mollo…”
E detto questo, andò a pagare per tutte e due, prima di prendere l’altra sotto braccio e tornare a casa assieme.










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Sproloqui  

Eeeee salve xD Come andiamo? Le vacanze procedono? Io sono dispersa in un buco della Francia, dove non c’è nemmeno il soleeee ç_ç Sono più bianca di un coniglio albino, che triste…
Questo capitolo è nato un po’ controvoglia perché, in principio, doveva essere tutto un’altra cosa, avrebbe dovuto esserci un episodio movimentato, mentre invece si è piazzato in primis questo: immagino sia un cosiddetto capitolo di transizione, che serve a chiarire dei passaggi che, altrimenti, credo sarebbe rimasti un po’ troppo abbandonati… e addio ai personaggi xD
Bobby questa volta mi ha spiazzato, lui e le sue paranoie, e Tommy non aiuta di certo! Lui e il suo maledetto vaso per la mamma… u.u
Nia la adoro. E Charlotte è una rompiscatole, ma le voglio bene lo stesso, ahaha xD *malattia mentale che peggiora, siiiii*

Non sono molto sicura di come sia riuscito il capitolo, scrivere con un mal di testa da Cavalcata delle Valchirie è un’impresa, ma volevo postarlo lo stesso, perciò perdonatemi se ci sono degli errori qua e là… domani passerò a controllare, promesso *O*
Spero vi sia piaciuto e che la storia non vi annoi troppo, sono un po’ i primi capitoli per impostare bene il seguito, ci vuole un po’ di pazienza ;)

Ringrazio tantissimo _Miss_ per il suo commento:
Tranquilla tesoro, sono contenta che tu sia tornata, mi sei mancataaaa ^^ E una finalmente che ama il mio Tommyyyyy!!! E diciamolo che non è così malefico poverino, è solo un po’ strano :P Nia è una pazza, ma la adoro per quello, immagino averla nella realtà, sai che roba? xD E si… ho uno stile un po’… un po’ così. Scrivo lasciandomi prendere dalle emozioni, e rileggo solo una volta finito, altrimenti perdo l’ispirazione e chi la ripesca più? u.u L’importante è che sia leggibile eh, ahah! Grazie per il sostegno, mi fa molto piacere e spero che ti sia piaciuto questo nuovo chap! Un bacione ;)

Un grazie ENORME anche ai lettori silenziosi, e a tutti coloro che l'hanno aggiunta ai seguiti e ai preferiti *O*
beth


  
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