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Autore: Witch_Hazel    01/08/2010    0 recensioni
Quando me ne andai di casa mi sentivo grande e pronta ad affrontare qualsiasi cosa. In realtà ero troppo piccola per capire che erano stupide pretese di maturità a spingermi a prendere quel bus, quel treno e poi quell’aereo. Ero stanca di tutto e credevo che nel posto più lontano da casa mia avrei trovato tutto ciò che cercavo, felicità, realizzazione e, perché no, amore. Ho viaggiato in tutti i luoghi del mondo, ho parlato le lingue di tutti i popoli, ho amato e odiato tutti, senza distinzioni.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ciliegio

Quando me ne andai di casa mi sentivo grande e pronta ad affrontare qualsiasi cosa. In realtà ero troppo piccola per capire che erano stupide pretese di maturità a spingermi a prendere quel bus, quel treno e poi quell’aereo. Ero stanca di tutto e credevo che nel posto più lontano da casa mia avrei trovato tutto ciò che cercavo, felicità, realizzazione e, perché no, amore. Ho viaggiato in tutti i luoghi del mondo, ho parlato le lingue di tutti i popoli, ho amato e odiato tutti, senza distinzioni.

 

All’inizio fu dura. Non sapevo dove andare, cosa avrei fatto per sopravvivere…in breve: fu un vero disastro.

Avevo soltanto una certezza: cercavo te. E con questo mantra impresso nel cuore, avevo messo un piede davanti all’altro e costruito una nuova me stessa. Tutta tesa nella tua ricerca. Ti ho seguito in ogni luogo, ti ho cercato nei volti di ogni sconosciuto, nei baci di ogni uomo, ma ogni giorno che passava mi rimaneva di te sempre e solo ciò con cui ero partita da casa: una fotografia, una canzone, un’idea. La crudele realtà era questa, amavo la mia illusione e la seguivo errante in ogni porto, in ogni stazione del mondo sperando che diventasse reale.

Speravo che anche tu avessi nel cuore un’illusione che assomigliasse a me e che la cercassi con tanta assurda devozione quanta ne stavo impiegando io in questo folle viaggio che non sapeva né di libertà né di felicità.

Lentamente ogni passo divenne un tormento, e il tormento divenne rabbia perché credevo che ti fossi stancato di cercarmi e ti fossi fermato accontentandoti di quello che capitava, vivendo giornata per giornata senza più curarti della tua illusione errabonda. E allora ti cercavo con crescente ardore, perché volevo farti del male, volevo che capissi tutto il dolore che cresceva e pulsava il quel cratere senza fondo che stava diventando il mio cuore.

Un giorno, però, senza preavviso, eccoti. Dopo tanto cercare eri lì a pochi passi, avrei potuto toccarti, dirti che ti cercavo da una vita e poi…? Che altro? In quel momento non pensai troppo alle domande perché all’improvviso avevo trovato tutte le risposte. La mia idea non ti assomigliava affatto o, più verosimilmente, aveva smesso di assomigliarti. Non c’era niente della mia illusione nei tuoi gesti, nel tuo modo di porti con le persone, nel colore dei tuoi occhi. Alla luce di questa nuova consapevolezza non ho potuto fare altro che stare a guardarti mentre sul mio viso scendevano lacrime invisibili. Sono rimasta immobile mentre ti allontanavi, incapace di fermarti.

Ero in mezzo alla strada, sola, attorniata dai cocci della mia illusione che nessuno poteva vedere.

Ero partita da casa anni prima pensando di amarti, avevo viaggiato in capo al mondo pensando di conoscerti, fantasticando su un futuro impalpabile e fragile come una bolla di sapone, e ora mi rendevo conto che in realtà non era te che avevo amato per tutto questo tempo, perché in fondo eri così distante e irraggiungibile che il mio cuore ti poteva pensare in tutte le forme senza, tuttavia, indovinarti mai. Era l’Amore che amavo, un sentimento in sé che anelavo con tutta me stessa e avevo voluto, ingenuamente, dargli il tuo bel volto.

Che sciocca che ero stata, a rincorrerti come una pazza per tutto il mondo! Eppure lo avevo dovuto fare per capire che in realtà per tutto quel tempo non avevo cercato niente.

Non mi rimaneva quindi che tornare indietro con la mia valigia, la mia foto e la mia canzone. La mia idea l’avevo sparsa per il mondo e non sapevo più che farmene.

 

 

Sul volo diretto a Tokyo avevo visto un sacco di persone i cui volti presupponevo dovessero assomigliare al mio nel giorno della mia partenza. Erano passati cinque anni, ma sembravano secoli in realtà. Non mi ricordavo più com’è sentirsi a casa, quali sono gli odori e i sapori di questo paese. Mi sentivo un po’ come Frodo Baggins alle pendici del Monte Fato, totalmente dimentica delle belle sensazioni che ti procura un luogo in cui ci si è felici. In quei cinque anni non mi ero mai sentita veramente a mio agio da nessuna parte e in quel momento, sull’aereo, capii che quel senso di inadeguatezza non era altro che nostalgia del Giappone. Gran parte delle persone che viaggiavano sul mio stesso volo ipotizzai fossero partiti alla volta del mio paese d’origine per cercare l’avventura, la meraviglia e lo stupore. Io stavo tornando avendo fallito la mia ricerca. Che fosse casa mia il giusto rifugio per le mie pene? Speravo solo che gli altri viaggiatori fossero più fortunati di me.

Fuori dall’aeroporto non c’era nessuno ad aspettarmi: non avevo avvisato del mio ritorno. Lo feci non per fare una sorpresa, semplicemente non mi sentii di farlo. Preferivo che l’incontro con la mia famiglia fosse improvviso e non carico di aspettative. non volevo portare avanti nessuna battaglia personale, sapevo di aver agito da persona ignobile, sparendo praticamente dalle loro vite. Ormai, pensavo, poco importava del giudizio altrui, visti i cocci e le allucinazioni che mi portavo nel cuore. Io già sapevo di essere una fallita: avevo deluso me stessa e la consapevolezza di aver mentito al mio cuore in primis mi faceva sentire una persona orribile. Chiamatelo pure egoismo, se volete, ma io sono sempre stata convinta che per essere onesti con gli altri sia necessario essere onesti per prima cosa con se stessi. Io non lo ero mai stata. Prima di pareggiare i conti con tutti, avrei dovuto pareggiare i conti con me stessa. Sempre se avessi trovato il modo giusto per farlo.

Con l’indice della mano destra sfiorai il finestrino freddo dell’autobus. Non so perché lo feci esattamente. Era stata una scarica istintiva, non partiva certo dal cervello. Avevo accarezzato il vetro spiazzata perché per un istante mi pareva di aver visto il tuo riflesso su quella superficie fredda con un’espressione triste dipinta sul volto. Ritrassi le dita come scottata. Avevo paura di quel riflesso.

Hai smesso di cercarmi.

Mormoravi incessante al mio orecchio.

<< Ho smesso perché in realtà non esisti >>

Credevo di averti abbandonato su quel marciapiedi dove tutto, di punto in bianco, come avere spalancato le tende dopo una notte di buio senza alcun riguardo per il dormiente che giace sul letto, tutto era finito.

Io esisto invece, mi hai creato tu. Sono una parte di te.

Dovevo continuare a stare male? Dovevo continuare a vederti ad ogni angolo anche se avevo rinunciato a te perché mi ero illusa nel modo più crudele? Perché non potevo dimenticarti e basta, rinchiuderti a chiave nel cassetto più nascosto del mio cervello, dal quale ti avrei tirato fuori nelle sere d’inverno, davanti al fuoco, per raccontare aneddoti ai miei nipoti?

La sofferenza si nutre di noi lentamente, succhia passo passo ogni cellula di noi fino a che non ci si dimentica di essere felici. Io ti posso accompagnare sul sentiero, così non sarai sola.

<< Tutti siamo soli, qualcuno lo è più di altri. >>

Smisi di ascoltare le mie allucinazioni per scendere dall’autobus. Era il momento di tornare a casa.

 

Quella mattina di aprile era stata regalata al mondo una stupenda giornata. Me ne accorsi subito quando aprii le imposte, e un sole simpatico, non troppo intenso, fece capolino nella mia stanza, indorando tutto quanto. Era abbastanza presto per non incontrare nessuno per casa, così decisi di scendere. Mi muovevo come un fantasma per non svegliare nessuno, sfiorando con le dita le pareti di carta di riso, godendo della loro consistenza che ad ogni passo mi sfuggiva. Presi un bicchiere d’acqua dalla cucina e tornai nella mia stanza per prepararmi: era il giorno dell’Hanami, la festa dei ciliegi, ricordai e volevo andarli a vedere. Aprii le ante dell’armadio e mi inginocchiai sul pavimento per cercare un pacco avvolto nella carta che speravo mia madre in quegli anni non avesse buttato. Eccolo. Lo presi con mani tremanti e lo scartai piano piano. Tra le mie braccia ruvide ed estranee stringevo il furisode* che mi aveva cucito mia nonna prima della partenza, dono che non avevo mai indossato. Buttai il pigiama da un lato e mi vestii con cura e dedizione, quasi stessi violando delle sacre reliquie. Una sera di quella settimana, ricordai, nonna aveva esclamato, nel mezzo del generale impegno a ignorarmi garbatamente, che probabilmente il kimono mi sarebbe stato ancora bene. Aveva ragione come sempre, pensai mentre infilavo la pregiatissima stoffa blu notte ornata di delicati fiori di ciliegio. Avvolsi l’obi** intorno alla vita con cura, per quanto le mie mani inesperte potessero fare. Mi acconciai i capelli e sistemai il viso con poco trucco.

Erano le sette del mattino del primo aprile e il riflesso del mio specchio era l’immagine di una giovane giapponese pronta ad andare ad una cerimonia. Se non fosse stato per quegli occhi spalancati, sbiaditi e spenti mi sarei potuta convincere anche io che sarebbe stato un grande giorno.

 

Il parco era già visitato da alcune famigliole felici che si godevano il clima mite di inizio aprile. I ciliegi erano splendidi e le persone si beavano del loro spettacolo in mezzo alla pioggia di petali rosa che avvolgeva tutto.

Tu non fai più parte di tutto questo, non sarai mai come loro.

Me n’ero accorta, sai? Mentre camminavo nel parco e ripensavo allo sguardo di mia madre, amorevole ma diffidente. A mio padre che mi trattava come una figlia mai conosciuta in realtà. Quella mattina allo specchio avevo capito, avevo visto nei miei occhi tutti gli occhi del mondo, ma non avevo visto i miei. Cercando la mia crudele illusione avevo perso me.

Continuai a camminare sul sentiero di ghiaia con i gridolini felici di alcuni bambini per colonna sonora. Dopo una decina di minuti giunsi finalmente al ciliegio solitario. Era ancora più maestoso di quanto ricordassi, carico di fiori. Mi sedetti sulla piccola panca di pietra che s’incastrava perfettamente tra le radici dell’albero e mi ritrovai a fissare le montagne dalla cima innevata. Mio nonno mi portava sempre in quel posto, quando ero bambina, e mi raccontava le antiche leggende del nostro popolo. Un leggero vento mi scompigliò i capelli, facendo volare mille petali rosa intorno a me.

Forse non facevo più parte di quel luogo, ma quel luogo era parte di me. La mia illusione prima o poi sarebbe volata via, come quei petali di ciliegio, tanto belli quanto effimeri.

Ero partita inseguendo i miei sogni ed ero tornata a mani vuote. Nella vita capita di fallire e di sbagliare, basta non smarrire se stessi e ricominciare e io avevo ritrovato me stessa lì, dove fioriscono i ciliegi, a casa mia.

Il vento fece volare di nuovo i petali alzandoli verso il cielo. Sul volto mi si dipinse un nuovo sorriso.

Addio, illusione.

* kimono con maniche molto lunghe che portano le giovani nubili

**la "cintura" del kimono

Questa OS la scrissi poco tempo fa per il concorso "Foto Ricordo" di Dreams Writers. Al si là dei buoni frutti che mi ha portato (e ringrazio tutte per questo), vorrei dedicarla alla mia amica Giulia, che è scomparsa lunedì. So che ti era tanto piaciuta e spero che, ovunque tu sia, apprezzerai la dedica. <3

   
 
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