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Autore: _KyRa_    06/08/2010    6 recensioni
Si sentiva ancora una bambina, piccola, immatura. Come poteva solo lontanamente pensare di compiere un salto talmente grande da gravare sulla sua intera vita?
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'This is it.'
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further lies

Chapter Five.
- Further lies -



Le nausee continuavano a darle il tormento, senza sosta. Certo, poteva ritenersi sollevata per il fatto che fossero notevolmente diminuite rispetto ai primi tempi, ma ciò non la faceva comunque sorridere. Lavorare ed alzarsi improvvisamente, di corsa, per andare a rimettere in bagno, non era esattamente ciò che più la divertiva fare.

Era già la seconda volta che un conato l'aveva presa alla sprovvista quella mattina, facendole mollare a metà il lavoro su una lettera particolarmente articolata. Qualsiasi odore venisse a contatto con le sue narici, la mandava fuori di testa. Più volte si concentrava nel respirare con la bocca, anziché col naso, pensando che ciò potesse alleviare quella spregevole sensazione di nausea, ma inutilmente.

Quasi spezzò a metà la matita che teneva in mano, intenta a scrivere su un foglio di brutta la prima traduzione di quella lettera – nel caso avesse dovuto apportarvi modifiche –, per quanto la sua presa era forte e violenta attorno ad essa.

Il nervoso la stava attanagliando da troppi giorni ormai e sapeva perfettamente – nell'angolo più oscuro e remoto della sua mente – che la causa non era solamente la nausea. Una piccola percentuale di colpa ricadeva anche su un certo soggetto, particolarmente simpatico, di nome Tom Kaulitz. Da quella volta sul balconcino dell'albergo non le aveva mai più rivolto parola – non che questo stravolgesse particolarmente le loro abitudini – ma ciò che Monique riteneva più assurdo era il fatto che il chitarrista non si sprecasse nemmeno a rivolgerle delle provocazioni o delle cattiverie, alle quali si era sempre lasciato andare, solo per il gusto di farlo.

Ora nemmeno quelle. Ora vi era pura e totale indifferenza. E per la precisione, da cinque giorni.

La cosa che più le scocciava ammettere era di sentirsi misteriosamente infastidita dal quel comportamento. Si lamentava quando arrivava da lei solo per crearle disturbo e comportarsi da perfetto egoista e cattivo ragazzo – quale apparentemente dimostrava di essere – ma quell'indifferenza non faceva che indisporla ulteriormente, senza neanche conoscere il reale motivo. Ora che la lasciava in pace, avrebbe dovuto tirare un sospiro di sollievo, invece che rimuginarci troppo su. Non era quello che aveva sempre voluto, essere lasciata in pace dal chitarrista?

La ciliegina sulla torta fu la sua entrata nel secondo mese di gravidanza... E non ancora una fottutissima idea su come avrebbe potuto mascherare quella situazione. Sapeva che già dal terzo mese si sarebbe notato un leggero gonfiore del suo ventre. Certo, non tanto da destare sospetto in tutti gli altri, ma comunque abbastanza per far calare gli occhi – di chiunque la vedesse – su di esso. Avrebbero solamente creduto nell'acquisto di qualche chilo in più per qualche scorpacciata di troppo, era vero. Ma quando anche quel terzo mese sarebbe passato, accogliendo il quarto e il quinto, sarebbe stato ancora solo troppo cibo?


**


«Perchè sei scazzata?» domandò Monique alla sua migliore amica, quando si rese conto di essere giunta al termine della sua già scarsa pazienza e di non sopportare più quel silenzio spezzato solamente da battiti violenti delle loro posate sui piatti.

«Sai benissimo perchè sono scazzata.» ribattè Jessica, continuando a torturare quel povero piatto con il solo uso della forchetta. Monique, seduta di fronte a lei, la osservava in tutte le sue movenze, senza invece battere ciglio.

«Mi spiace contraddirti, ma in questo momento proprio mi sfugge.» ribattè, poggiando entrambe le braccia sul tavolo da pranzo.

«Sei ormai entrata nel secondo mese e non ancora ti sei degnata di fare una fottuta ecografia. Ti rendi conto che hai paura di semplicissime foto

«Quelle semplicissime foto rappresenterebbero la merda di futuro che mi sono andata a cercare.»

«Ma come puoi definire merda una cosa del genere? Ma ti senti almeno quando parli?»

«Sì, mi sento benissimo e ti ho già ripetuto che non mi servono le tue ramanzine.»

Detto questo, Monique si alzò da tavola con il suo piatto per poggiarlo nel lavandino, con l'intenzione di lavarlo. Non mosse un muscolo quando sentì la sedia dietro di sé strisciare rumorosamente contro il pavimento, dei passi affrettati allontanarsi sempre di più e la porta di casa sua sbattere violentemente.


**


Quei continui sbalzi d'umore la stavano rendendo sempre più intrattabile e la discussione avuta con Jessica, la sera prima, ne era stata un valido esempio. Con il passare delle ore notturne, si era facilmente resa conto di aver esagerato nel rivolgersi a lei a quella maniera, ma d'altro canto non poteva fare a meno di portare avanti le sue idee.

«Monique?» A quell'improvviso richiamo, la ragazza sollevò il capo dalla scrivania e trovò quello di Bill, timidamente affacciato nel suo ufficio. «Scusami se ti disturbo... Volevo sapere se ti andava di ascoltare una canzone che abbiamo appena terminato. Abbiamo bisogno del parere di qualcuno prima di registrarla o meno. Sulle altre siamo andati piuttosto sicuri, ma su questa abbiamo qualche dubbio.» le spiegò, ostinandosi a starsene oltre la soglia, come non volesse invadere il territorio di Monique.

Quest'ultima sorrise calorosamente ed annuì convinta, per poi alzarsi dalla poltrona e seguire il vocalist verso la stanza insonorizzata, dietro all'enorme vetro, dal quale li aveva già osservati all'opera, assieme a David. Al loro ingresso ricevette due enormi e sinceri sorrisi da parte di Gustav e Georg, mentre Tom – come sempre – appariva contrariato. Bill la fece accomodare su uno sgabello, di fronte a loro, e successivamente andò ad appostarsi al microfono, mentre gli altri ragazzi si preparavano con i propri strumenti. Tom aveva afferrato la chitarra acustica, per il sollievo di Monique: non era assolutamente in grado di udire chitarre elettriche, quel giorno, talmente era frastornata.

Gustav scandì il tempo, battendo le bacchette fra loro, e qualche secondo dopo la stanza venne pervasa da una piacevole melodia che ebbe il potere di rilassare Monique. Aveva un qualcosa di malinconico ma ciò lo gradiva.

«I hate my life... I can't... Sit still for one more single day I've... Been here waiting for... Something to live and die for... » la voce del vocalist pervase dolcemente le sue orecchie. Quelle parole entrarono nella sua pelle, una dopo l'altra, quasi indelebili e dolorose... Eppure così piacevoli al tempo stesso. Quasi trovò un qualcosa che le accomunasse a lei, ma non sapeva bene cosa. «In your shadow I can shine...» Bill continuava a cantare ad occhi chiusi, come rapito da se stesso e da quella canzone. Si trovava in un mondo tutto suo e non udiva nulla di ciò che gli accadeva attorno. Monique spostò lo sguardo sul fratello e notò la stessa espressione rapita, concentrata e quasi triste che lo caratterizzava. Le dita pizzicavano leggere quelle corde lisce, come se a malapena le toccassero.

Per un attimo Monique si estraniò dal resto, continuando a tenere d'occhio il viso del chitarrista. I suoi occhi socchiusi e persi nel vuoto di fronte a sé lasciavano trasparire l'amore che il ragazzo provava per quello strumento... Forse l'unico mezzo con il quale riusciva ad esternare le proprie emozioni e i propri sentimenti, non riuscendovi a parole o gesti. Forse Monique doveva conoscere sul serio quel lato nascosto del ragazzo... Come poteva essere quella persona la stessa che si divertiva a maltrattarla?

Le gote le si imporporarono ed il cuore perse un battito quando gli occhi seri e penetranti del chitarrista si sollevarono su di lei, scrutandola, scuro in volto. Distolse velocemente i propri, tornando a concentrarsi sull'esile figura del cantante, senza accorgersi che la canzone era quasi giunta al termine. Quando ciò avvenne, le altre tre paia di occhi la cercarono, in attesa di un qualche suo giudizio.

«E' bellissima.» soffiò appena la ragazza. Ed era la verità; era ciò che pensava: quella canzone l'aveva rapita.

«Davvero?» domandò Bill, come illuminato e con una lieve nota speranzosa nella voce.

«Certo, Bill, non vedo perchè dobbiate avere tutti questi dubbi. La trovo molto profonda, sia in fatto di parole che di musica.»

«Pensi non ci sia nulla da cambiare?»

«Assolutamente no. Penso che perderebbe troppo.»

«Grazie mille, Monique. Ora sono più convinto.»

Monique sorrise nel vedere l'espressione serena ed entusiasta che aveva preso parte sul volto di Bill. Sembrava un bambino felice di aver ottenuto una gustosa caramella come premio per un qualcosa di buono che era riuscito a combinare. Ed era contenta di essere stata lei ad avergli regalato quella caramella.


**


Decidere di tornare per un'intera giornata ad Amburgo, era stata un'idea dell'ultimo minuto. Le era bastato sentire nuovamente la voce di sua madre al telefono per rendersi conto che non sarebbe riuscita a far passare altro tempo, prima di visitare i suoi genitori: ne aveva bisogno anche lei.

Dopo il lungo viaggio, si sentì sollevata nello scorgere la sua casa nativa, svoltato l'ultimo angolo con la sua macchina. Un sorriso spontaneo e sincero le dipinse il volto, mentre un sospiro di sollievo attraversò le sue labbra dischiuse. Casa.

Scese dalla macchina ed attraversò il picciolo vialetto che l'avrebbe condotta all'entrata. Prese il suo mazzo di chiavi e, ancora prima che potesse inserire quella serviente nella toppa, la porta si aprì velocemente, rivelando dietro ad essa una donna di bell'aspetto, caratterizzata da capelli ed occhi dello stesso colore di quelli della figlia. Non vi furono tante parole: solo un abbraccio caloroso, capace di mozzare il fiato.

«Amore, finalmente sei arrivata!» esclamò la donna, continuando a stringere Monique fra le sue braccia. Quest'ultima si beò di quel tanto mancato calore mentre scorse suo padre affacciarsi alle spalle di Ester e scrutarla con un timido sorriso in volto.

Suo padre era sempre stato un uomo riservato e tremendamente scrupoloso. Non aveva mai negato l'affetto a sua figlia, ma era comunque di poche parole e di poche “tenerezze”. Era sempre Monique a premurarsi di concedergli un gesto affettuoso, perchè lui si sciogliesse e lo ricambiasse. Quando la stretta fra Monique e sua madre giunse al termine, arrivò il turno di Alfred.

«Ciao, tesoro.» le sussurrò, accarezzandole appena i morbidi capelli. Improvvisamente, due zampette che cercavano attenzione, portarono lo sguardo di Monique a deviare verso il pavimento. Lilli scodinzolava, aggrappata alle sue gambe con le zampe anteriori, attendendo un saluto.

«Ciao, piccolina!» esclamò Monique, accucciandosi affianco al piccolo animale ed accarezzandolo calorosamente. «Guarda cosa ti ho portato.» le comunicò frugando nella sua borsa e tirandone fuori un bell'osso nuovo. Il cane prese ad abbaiare, fino a che la ragazza non glielo porse. Soddisfatta, Lilli trotterellò dentro casa, mantenendo quel preziosissimo regalo fra i denti.


**


«Tesoro, ti vedo un po' sbattuta in viso... Sicura che non stai lavorando troppo?»

Il tono di sua madre era premuroso e preoccupato, come sempre. Seduti a tavola, consumavano il delizioso pranzetto preparato da Ester con tanto amore, in onore dell'arrivo della sua unica figlia.

Monique, per poco, non si strozzò con l'acqua che aveva appena ingerito e, dopo aver ripreso un colore di pelle più naturale, alzò lo sguardo sulla donna seduta affianco a suo marito.

«Non preoccuparti, sto bene... Lavoro il giusto, per ciò di cui ho bisogno.» la tranquillizzò Monique, piuttosto tesa.

«Se hai bisogno di un aiuto, tesoro, sai che possiamo dartelo, anche se piccolo...»

«No, mamma, ci manca. Ho vent'anni ed una mia indipendenza. Ho scelto apposta questo tipo di vita per non gravare più su di voi e farvi tirare un sospiro di sollievo, anche se leggero.»

«E infatti ti ringraziamo per questo, ma sul serio, per una volta non muore nessuno... Basta che mi dici di cosa hai bisogno e vediamo di...»

«No, mamma. Sul serio, ti ringrazio ma... No.»

«D'accordo, come vuoi. Però non strafare con tutto questo lavoro, ti vogliamo ancora viva tra qualche anno.»

«Grazie per il pensiero carino.»

Si scambiarono un sorriso divertito e poi calò nuovamente il silenzio, fino a che non venne nuovamente interrotto da Ester.

«Christian come sta? Come mai non è venuto?» sorrise la donna, ignara di tutto. Monique strinse con tutta la forza che possedeva in corpo la forchetta che ancora giaceva nella sua mano. A quel nome, un mucchio di pessimi ricordi le tornarono alla mente come proiettili e pregò un santo a lei sconosciuto perchè le desse la forza di rispondere senza infervorarsi.

«Oh ehm... A dire il vero, ci siamo lasciati.» borbottò, senza sollevare lo sguardo dal piatto. Le due paia di occhi improvvisamente puntati sulla sua figura, quasi li sentì trapassarla senza pietà. «Problemi caratteriali, insomma. È stata una decisione di comune accordo.» mentì spudoratamente, prima che uno dei due le chiedesse il motivo di tale scelta.

«Beh, mi dispiace... Mi piaceva Christian.» mormorò la donna, piuttosto cupa in volto. Alfred aveva taciuto tutto il tempo, ma il suo sguardo non mentiva: Monique sapeva che aveva qualcosa da dirle. Se sua madre avesse saputo cosa quel ragazzo – che le piaceva tanto – aveva avuto il coraggio di fare, sicuramente si sarebbe maledetta per averlo solo pensato.

«Già... C'è il dolce?!» cambiò discorso la ragazza, illuminandosi in un sorriso radioso, proprio come quando era piccola.


**


Se avesse fumato, in quel momento avrebbe tranquillamente alleviato i suoi tormenti con una bella sigaretta. Sedeva silenziosa sul gradino di fronte alla porta di casa dei suoi genitori, carezzando distrattamente il pelo morbido di Lilli – la quale non disprezzava quelle particolari attenzioni che le venivano riservate ogni qual volta metteva ben in risalto i suoi occhioni languidi – e rifletteva sul discorso avvenuto qualche istante prima a tavola, trovando tutta quella situazione piuttosto snervante.

Un improvviso e dolce tocco sulla sua spalla sinistra la destò dai suoi pensieri ed una figura alta e magra si sedette accanto a lei. Sorrise nell'osservare suo padre che la scrutava attentamente, come a voler cogliere ogni minimo particolare che il suo sguardo riuscisse a rilasciare. Il silenzio troneggiò ancora per qualche minuto, fino a che Alfred non attaccò bottone, come poche volte succedeva.

«Non mi è mai piaciuto Christian.» disse con la serenità più semplice negli occhi. Monique sorrise appena, abbassando lo sguardo.

«Lo so.» rispose. «Mi hai sempre detto il contrario per farmi un piacere... Ma io l'ho sempre saputo che non lo vedevi bene per me.» continuò, senza distogliere gli occhi dal cane che, nel frattempo, si era accomodato ai suoi piedi, a zampe all'aria, permettendole così di prendersi cura della sua pancia nera e bianca.

«Ti ho semplicemente lasciato fare. Ho rispettato le tue scelte senza metterci lingua, perchè... Sapevo che ci saresti arrivata da sola, prima o poi. Sei una ragazza intelligente.» spiegò l'uomo, continuando a non guardarla.

«Avrei voluto capirlo prima.»

«Guarda il lato positivo. Hai vent'anni, sei giovane. Hai ancora un'intera vita davanti per trovare l'uomo adatto a te. Non c'è fretta. Non hai neanche il problema del matrimonio o dei figli di mezzo, dato che con Christian non è stata tutta questa gran storia, nonostante sia durata abbastanza.» Monique fissò le mani sul gradino dove sedeva come a volersi tenere saldamente a terra e non voler ruzzolare giù per quell'immaginario dirupo che si era aperto davanti a lei con violenza. Cominciò a sudare freddo. La vicinanza così pericolosa di suo padre la rendeva piano piano più nervosa, sapendo di nascondere un problema molto più grande di lei. Se l'avesse guardato negli occhi, avrebbe ceduto. Non ce l'avrebbe più fatta a mentire; si premurò quindi di tenere gli occhi ben lontani da quella che era la sua figura. Quando Lilli reclamò altre coccole, la accontentò, deglutendo pesantemente e rimanendo in religioso silenzio. L'aria si era fatta più tesa, tangibile ed affilata come una lama... Ma questo poteva avvertirlo solo lei, sulla sua pelle chiara. «Spero tanto tu riesca a trovare un ragazzo che ti sappia amare immensamente per quello che sei.» aveva sussurrato suo padre, con le guance leggermente arrossate. Era la prima volta che si lasciava andare a “confessioni” così importanti e profonde con lei e questo Monique non poté fare altro che apprezzarlo.

«Grazie, papà.» sorrise la ragazza, guardandolo per la prima volta in viso, senza nascondere il sorriso sereno che aveva peso spazio sul suo volto. Alfred ricambiò quello sguardo intriso di tanti significati e, dopo aver dato due leggere pacche sul ginocchio di sua figlia, si rialzò dal gradino per rientrare in casa. Prima che l'uomo varcasse la soglia, Monique si voltò nella sua direzione, osservandolo dal basso. «Papà?» richiamò la sua attenzione. L'uomo girò lo sguardo nella sua direzione, attendendo. «Ti voglio bene.» ammise Monique, con voce tremolante e con il cuore che minacciava di sfondarle la cassa toracica. Alfred sembrò inizialmente sorpreso, ma poi rilassò le sue labbra in un sorriso sincero.

«Anche io te ne voglio.» rispose, per poi rientrare in casa.

Quello era decisamente un gran bel passo avanti.


**


La via del ritorno era buia, illuminata solamente dai pochi fari delle automobili. Non aveva preso l'autostrada: quella volta aveva preferito optare per un lungo percorso in mezzo alla campagna, che l'avrebbe condotta ugualmente a Berlino, anche se in tempi maggiori. Erano le dieci di sera e probabilmente sarebbe arrivata a casa per mezzanotte passata.

Il sonno aveva preso il sopravvento: si sentiva particolarmente spossata e probabilmente ciò era dato dallo stesso viaggio che aveva dovuto compiere quella mattina. Il meglio sarebbe stato fermarsi a dormire a casa dei suoi, come Ester le aveva consigliato, e ripartire l'indomani mattina, a mente più fresca. Eppure Monique aveva insistito per andarsene quella sera stessa con la scusa del lavoro. La verità era che aveva paura di destare sospetto nei suoi genitori, caso mai si fosse sentita male per un altro dei suoi conati di vomito improvvisi.

Le palpebre le si abbassavano sistematicamente, per poi riaprirsi a piccoli scatti. Si sfregò stancamente gli occhi, cercando inutilmente di scostare dalla sua vista quell'alone biancastro che si era venuto a creare davanti a sé.

Soffocò un urlo una frazione di secondo prima che succedesse l'irreparabile. Un albero avanzava a gran velocità nella sua direzione, ma prima che potesse raddrizzare il volante – sfuggitole a causa del sonno – sentì un doloroso colpo alle braccia, che riconobbe come l'airbag, ed un tonfo violento che la fece oscillare pericolosamente avanti e indietro con la schiena. Un immenso fumo biancastro si levò attorno a sé, cancellandole dalla vista tutto ciò che aveva attorno.

Prese a tossire, slacciandosi la cintura e facendosi poi aria per poter respirarne di pulita, senza successo. Aprì la portiera e scese barcollante dalla macchina. Fortunatamente non si era fatta nulla, ma quello era stato un vero miracolo. Si prese i capelli fra le mani tremanti e cerò subito il cellulare nella tasca dei suoi jeans. Il muso della macchina era completamente distrutto e certamente quel rottame non sarebbe stato in grado di riportarla a casa sana e salva.

Non poteva chiamare i suoi genitori: come minimo sarebbe venuto loro un infarto, e aveva deciso che di infarti ne avrebbero già avuti una volta venuti a scoprire della sua gravidanza... E per quello c'era tempo.

Digitò senza pensarci due volte il numero di Jessica ma si demoralizzò quando sentì che squillava a vuoto: probabilmente era ancora arrabbiata con lei per la sera della discussione a cena e si rifiutava di risponderle al telefono, non potendo immaginare cosa le fosse successo.

Cominciò a guardarsi attorno disperata. A quell'ora, per quel sentiero, di macchine non se ne vedevano molte e le uniche che passavano non si degnavano certamente di fermarsi e prestare soccorso.

Sospirando, provò a digitare il numero dello studio di registrazione, pensando che quello potesse essere la sua ultima spiaggia; ma era decisamente improbabile che i ragazzi si trovassero ancora lì a quell'ora.

«Pronto?» la voce di David la risvegliò dalle sue preoccupazioni, permettendole di scorgere una luce lontana in tutto quel disastro.

«David, meno male che ci sei.» esclamò la ragazza, rincuorata.

«Sì, adesso devo uscire e stavo giusto parlando con Tom di un paio di cose riguardo il nuovo album; c'è qualche problema? Come mai questa voce?»

«E' successo un casino. Ho fatto un incidente. Io sto bene, non ti preoccupare. Ho avuto un abbiocco improvviso e sono andata a sbattere con la macchina contro un albero. Stavo tornando da casa dei miei, sono ancora ad Amburgo ed è piuttosto distante da Berlino. Non so come fare a tornare indietro, sono a piedi e la mia migliore amica non risponde al telefono...»

«Oh mio Dio! Contro un albero?! Ma sei sicura di stare bene?!»

«Sì, David, io sto bene, davvero. Ma la macchina è distrutta e non so come tornare a casa.»

«Oddio, tesoro, come ti ho detto, adesso ho un impegno importante, Bill è a casa e Georg e Gustav lo stesso. Ti mando Tom che è qui accanto a me.»

«Cosa?! Ehm, ma no... David, no. Non stare a scomodarlo.»

«Macché scomodarlo! Dì un po', vorresti restare lì tutta la notte?! Avanti, dimmi precisamente dove ti trovi e riferirò tutto a Tom che ti verrà a prendere con la sua macchina. Però devi pazientare perchè prima del suo arrivo passerà qualche ora, come sai.»

Monique si sentì disarmata, con le spalle al muro. Aveva bisogno di tornare a casa, non poteva effettivamente restare lì per strada, accanto a quell'albero per tutta la notte, come le aveva detto David. Ma il pensiero che Tom potesse arrivare da solo la agitava e soprattutto non era nella posizione migliore per farlo scomodare a quella maniera. Lo avrebbe tremendamente scocciato, ancor di più perchè si trattava di lei. Ma d'altro canto era l'unico aiuto che era riuscita faticosamente a racimolare e non poteva tirarsi indietro.

Tirò un lungo sospiro e poi allungò la testa per leggere il cartello a qualche metro da lei e riferire al manager il nome esatto della strada dove si trovava.

  
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