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Autore: Marselyn    06/08/2010    3 recensioni
Sirius Black e la vigilia di Natale del suo quinto anno, dopo l'ennesimo litigio con i suoi, si rifugia nel posto che più di tutti gli permette di respirare l'odore di Hogwarts.
"Sospirò e si avvicinò, a passo lento, quasi volesse nascondere a se stesso il fatto che ancora una volta si trovava lì.
Contro ogni speranza, contro ogni aspettativa, contro ogni illusione che lo portava a credere che forse, quei quindici giorni, qualcosa sarebbe andato finalmente dritto, e che forse, quei quindici giorni, non si sarebbe ritrovato ad aggrapparsi disperatamente all’unico sottile filo di congiunzione con la sua vera vita, contro tutte queste vane speranze, ancora una volta si trovava lì."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
- Questa storia fa parte della serie 'Coriandoli Neri.'
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«Al diavolo!» Urlò, più di quanto non fosse necessario per farsi udire dalle persone dall’altra parte della casa.
Si sbatté la porta alle spalle, e scese in fretta gli scalini dell’ingresso, sprofondati nella neve. Per poco non scivolò, rompendosi l’osso del collo.
Voleva Grimmauld Place alle spalle, e se questo significava rischiare di morire anche cento volte, tanto valeva.

Attraversò il prato, stringendosi la giacca addosso. Il freddo era terribile e pungente, e per la fretta non si era fermato a prendere il cappotto nella sua stanza. Sarebbe significato incontrare ancora una volta quegli sguardi accusatori e accecati dall’ira. Ed era decisamente meglio patire il freddo.
Prese un profondo respiro, cercando di frenare la rabbia che gli ribolliva dentro, e chiuse gli occhi, lasciando che i fiocchi di neve gli rinfrescassero il viso, rosso e caldo per la rabbia.
Svoltò per una via, e vi si incamminò a passo spedito.
Non c’era nessuno nei paraggi, tranne qualche sfortunato, costretto a portare a passeggio il cane davanti casa, o qualche donna in carriera che camminava a passo veloce per la banchina opposta, quella dove si affacciavano gli edifici importanti.
Erano le tre del pomeriggio, c’era un freddo illegale, era la vigilia di Natale, i negozi erano chiusi, e la gente aveva un posto accogliente dove stare.
Certo che non si vedeva nessuno, Sirius.

Una ventata glaciale lo invase in pieno viso, rabbrividì e si tirò le maniche fino alla punta delle dita, nascondendole al freddo.

«Traditore! Tu non sei un Black! Non sei degno di avere tutto quello che la vita ti ha dato! Non sei degno di essere Purosangue!»

Le urla della madre gli risuonavano ancora nella testa, ed ad ogni sillaba che ricordava, rabbrividiva d’odio.
Si morse il labbro superiore per non urlare di rabbia, strinse i pugni fingendo che all’interno potesse esserci la sua vita.

La vita. Cosa gli aveva donato? Dei genitori che lo trattavano come fosse una disgrazia. Una disgrazia che, fra tante famiglie, aveva scelto di inquinare la loro. La schifosissima, purissima famiglia Black.
Si passò bruscamente le mani sulla giacca, tentando di scrollarsi di dosso più la nomina collosa che gli si appiccicava da tutte le parti con i tentacoli disgustosi e opprimenti, che la neve.
Black.
L’incubo di quel nome lo perseguitava dal mattino alla sera, nell’ora in cui il mondo stesso, quando cadeva nel suo buio, sembrava volergli sbattere in faccia il suo oscuro nome.

Affrettò il passo per arrivare prima, adesso la neve cominciava a cadere con più forza. Serrò la mandibola cercando di allontanare la morsa dei ricordi di quell’insopportabile conversazione.

«Ti meriteresti di essere un insulso babbano!»
«Meglio Babbani che Purosangue! Meglio Babbani che Black!»

Svoltò lungo la strada, una macchina babbana gli sfrecciò accanto, spruzzandogli un misto di neve e fanghiglia sulle gambe. Non se ne preoccupò, continuò spedito, non avendo altro in testa che il desiderio di arrivare.

«Sei stato uno sbaglio! Lo sbaglio più grande della nostra vita! Un terribile sbaglio! Non vedi come ci fai soffrire? Come ci fai male con il tuo comportamento?!»

Sirius trattenne una risata nervosa. Era incredibile come piaceva loro sguazzare nel ruolo delle vittime. Incredibile come, fino a qualche anno prima, quando ancora era troppo piccolo per opporsi, lo avessero fatto sentire in colpa per quelle diverse ideologie, per quei pensieri sani che gli mordevano lo stomaco, per quel disagio che gli intorpidiva ogni capacità di ripagare le loro aspettative. Incredibile come l’avessero fatto stare male, perchè la pensava diversamente sul mondo. Incredibile quante volte avesse pianto, quando ancora non era altro che un bambino, perchè sentiva che dentro di sé c’era qualcosa di sbagliato. Perchè sentiva di non piacere a loro.

Svoltò a sinistra, e si ritrovò davanti la sua meta: King’s Cross Station, accarezzata dalla neve, riposava immobile ad una decina di metri. Sospirò e si avvicinò, a passo lento, quasi volesse nascondere a se stesso il fatto che ancora una volta si trovava lì.
Contro ogni speranza, contro ogni aspettativa, contro ogni illusione che lo portava a credere che forse, quei quindici giorni, qualcosa sarebbe andato finalmente dritto, e che forse, quei quindici giorni, non si sarebbe ritrovato ad aggrapparsi disperatamente all’unico sottile filo di congiunzione con la sua vera vita, contro tutte queste vane speranze, ancora una volta si trovava lì.

Entrò alla stazione, e si diresse meccanicamente lungo la strada.
Qualche turista ciondolava tranquillamente con valigia e sciarpa, qualche parente gli andava incontro con le braccia allargate e un largo sorriso in volto. Ipocrisia o affetto che fosse, non era esattamente ciò che serviva a Sirius in quel momento. Ignorò le urla festanti che sapevano tanto di familiari, e proseguì per la sua strada.

Camminò a passo spedito, e nel giro di pochi minuti era lì. Tra il binario 9 e 10.
Si guardò intorno. Qualcuno riposava sonnecchiante sulle panchine, qualcuno appoggiato al muro in pietra fumava una sigaretta, altri attendevano il treno, a braccia conserte di fronte al binario.
Fortuna volle che vicino al muro tra il binario 9 e 10, non ci fosse anima viva. Camminò a passo spedito, e con una piccola rincorsa attraversò la barriera. Gli avevano sempre detto di correre verso il muro, per vincere ogni timore, ma in quel momento l’unica cosa che lo spingeva a farlo era l’angosciante desiderio di casa.

Eccolo, il binario 9 e ¾.
Una nostalgia mordente gli serrò lo stomaco, chiuse gli occhi, e respirò profondamente quell’aria che gli ricordava tanto Hogwarts.

Immaginò le centinaia di bauli che ogni inizio anno dondolavano tra le mille gambe, il fiotto chiacchiericcio che si mescolava fra quelle mura nei i minuti eccitanti che precedevano la partenza, i ragazzini confusi e nervosi del primo anno, le loro piccole mani intorno a quelle delle mamme, gli sguardi affascinati e impauriti dall’idea di dover vivere lontani da casa per quella che sembrava un’infinità di tempo.

Poi immaginò loro.
James, Remus e Peter.
Le loro risate squillanti riecheggiarono tra i mattoni. Quelle stesse risate che di solito sgorgavano proprio durante le punizioni. Stranamente, malgrado le situazioni, sempre le più belle.

Camminò verso la panchina verniciata di verde, sul muro occidentale della piattaforma, e si abbandonò su di essa.
Rimase lì, a desiderare ardentemente che quelle vacanze passassero più in fretta possibile.
Sapeva che ritornare lì, a King’s Cross, non faceva altro che rendergli quella dura lontananza ancora più insopportabile, ancora più dolorosa. Sapeva che il desiderio dentro di sé diveniva ancora più selvaggio, ancora più crudele. Lo sapeva, eppure non riusciva a separarsi dall’unico appiglio a Hogwarts che gli rimaneva.

Restò lì, forse delle ore, forse pochi minuti. Non si rendeva conto del tempo, lì, in balia dei ricordi, alla mercé della tristezza. Era come se il tempo avesse anch’esso una dimensione magica. Se solo avesse saputo come quella magia si potesse controllare con una bacchetta.

Dieci giorni Sirius, pensò. Dieci giorni soltanto.

«Felpato!»


Sirius scattò in piedi, voltandosi raggiante verso la sua destra. «James!» esclamò, stracolmo di gioia. «Remus...» disse flebile, mentre la gioia lasciava il posto all’amarezza. «Peter...» mormorò, infine. Davanti ai suoi occhi solo il vuoto. Un muro di pietra a qualche metro, e a terra solo una cartaccia bianca. Desolazione. Si vergognò per il solo fatto di averci creduto. Per il solo fatto di averci creduto così tanto.
Si morse l’interno della bocca per frenare la delusione che mordeva lo stomaco e... pungeva agli occhi.

Era solo, nient’altro.
Solo come una un albero di ciliegio in mezzo ad un immenso campo di grano.
Solo come un aquilone in mezzo al cielo senape e azzurro che sovrasta il deserto.
Solo come una cartaccia bianca in mezzo al pavimento del binario 9 e ¾, in un giorno di piena estate.

Dieci giorni Sirius, pensò. Dieci giorni soltanto.

Appena fuori da King’s Cross una ventata gelida lo colpì in pieno volto. Chiuse gli occhi, e prese un lungo respiro. Anche se, forse, era più un sospiro.

«Auguri, ragazzi» sussurrò al vento, ai fiocchi di neve, alla terra sotto i suoi piedi. E ritornò sui suoi passi, mentre Londra, piano piano, arrestava la discesa dei suoi fiocchi di neve, finchè non giunse a Grimmauld Place, quasi in rispetto di quel nero ragazzo, che, solitario, solcava infelice le sue strade.

   
 
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