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Autore: Josie_n_June    11/08/2010    2 recensioni
"Non c'entra niente da chi sei stato generato, o perché. Tu sei chi sei. [...]Non è la discendenza a stabilire ciò che siamo, è quello che facciamo della nostra vita. [...] Tu puoi scegliere la tua parte. Anzi, l'hai già fatto." Un Cavaliere di Drago. Una sacerdotessa. Un mago. Un'Assassina. A dieci anni dalla Grande Battaglia d'Inverno, un nuovo periodo oscuro travolge il Mondo Emerso. Non ci sono più eroi a combattere. Quattro ragazzi si trovano dentro una guerra che non si è mai conclusa, senza alcuna garanzia di vederne la fine. E sta a loro, decidere il loro destino. Una storia a due mani scritta qualche capitolo a testa, e quindi imprevedibile anche per noi che siamo le autrici. Se vi abbiamo incuriosito almeno un po', perché non date una sbirciata?
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Taras fissava critico la piccola locanda sulla strada, accerchiato dai suoi compagni.  Tutti sembravano sollevati, lui aveva una smorfia di disappunto dipinta sul viso.

Quella stamberga doveva avere parecchi anni, forse parecchie decine d’anni. Dal tetto mancavano diverse tegole, molte delle quali erano ammucchiate per terra dov’erano cadute. Le pareti dovevano essere state costruite bene, se non altro, perché sembravano piuttosto solide, ma i vetri delle finestre erano evidentemente sudici e trascurati.

Perfino il nome non era un granché; “Sulla strada per Laodamea”, recitava la vecchia insegna, storta in cima alla porta. I proprietari dovevano avere una gran fantasia, non c’era che dire, dato che si trovava sull’unica via di transito che conduceva dalla Terra del Vento direttamente alla capitale della Marca dei Boschi.

Un altro cartello imperava: “Fermatevi ad assaggiare la migliore birra della Terra dell’Acqua!”  

Un po’ datato anche quello, a occhio, visto che quella zona del Mondo Emerso non veniva chiamata così da quasi dieci anni.

Il ragazzo passò lo sguardo su tutti i suoi compagni di spedizione, fino al caporale. Aveva un sorriso piuttosto soddisfatto stampato sulla faccia, e Taras accentuò la sua smorfia.

Evviva.

“Ci fermeremo qui, stanotte!” dichiarò Verton alla truppa, che reagì con un comune sospiro di sollievo e appagamento. Poi il caporale si rivolse a un uomo alto a cavallo, con una folta barba bionda e una calvizie incipiente “Per voi va bene, Consigliere Tèedin?”

Il Consigliere, dall’alto del suo destriero, infilò le dita nella propria fitta lanugine per passarsi una mano sul mento. “Quanto ancora dista Laodamea?” chiese dubbioso.

Verton storse il naso “Almeno un altro giorno di viaggio.” rispose.

Tèedin sospirò. “Suppongo allora che sia bene fermarsi. Immagino che sarete molto stanchi.”

La truppa, escluso Taras, rispose con una serie di decisi mormorii d’assenso.

“D’accordo, allora.” acconsentì il Consigliere, smontando da cavallo. “Passeremo la notte qui.”

La scorta del Consigliere l’acclamò con entusiasmo, e poi tutti si accinsero a preparare l’accampamento all’esterno, mentre Tèedin legava il cavallo vicino all’abbeveratoio ed entrava nella locanda.

Verton fece per seguirlo, ma Taras decise di bloccarlo.

“Signore!” esclamò, camminando velocemente verso di lui con un gran tramestio d’armatura.

Il Caporale si voltò con fare scocciato. Lo squadrò dall’alto in basso, lentamente, e il ragazzo alzò gli occhi al cielo.

Odiava quando qualcuno lo faceva. E lo facevano sempre tutti.

Nessuno mancava mai di esaminare con attenzione i suoi sei piedi buoni, a cominciare dall’alto ed erto ciuffo di capelli blu scuro in cima alla testa, e dalle lunghe orecchie a punta che sbucavano in mezzo alla sua folta e stravagante chioma. Scendevano sempre, poi, sul suo viso giovanile e appuntito da diciottenne, dove, sulla guancia destra, erano evidenti degli illeggibili tatuaggi verde acqua. Proseguivano poi tutti in discesa lungo la parte destra del suo corpo, dove quei simboli si attorcigliavano su loro stessi dalla spalla al braccio, dal torso alla gamba, fino ad arrivare al piede che, per fortuna, era spesso infilato in uno stivale.

A quel punto i loro occhi tornavano sempre su, con impressa la domanda; Perché diavolo si è dipinto la pelle a quel modo?

Solo che Taras non l’aveva mai fatto. O almeno, non che ricordasse. Quei tatuaggi erano sulla sua pelle da quando aveva otto anni, o forse anche da prima. Non lo sapeva.

A dire il vero, Taras non ricordava niente dei suoi primi otto anni, quando era stato trovato da Regolo, un sacerdote della Terra della Notte, sotto le mura di Narbet. E per quanto si sforzasse, non riusciva a tornare più indietro di così.

Taras sapeva bene di avere un aspetto insolito. Ma non gli sarebbe dispiaciuto se, una volta tanto, qualcuno avesse evitato di ricordarglielo.

“Sì?” fece Verton, guardandolo con aria di sufficienza.

Taras dette un’occhiata alla locanda, e poi tornò a rivolgersi al suo caporale “Credete davvero che questo posto sia… adatto per fermarsi?” chiese inarcando le sopracciglia azzurrine.

Verton si produsse in una breve risata molto simile a uno sbuffo. “Perché, soldato, cosa c’è che non va in questo posto?” gli domandò annoiato.

Le sopracciglia di Taras si aggrottarono in un millesimo di secondo. “Perché è vecchio, malandato ed esposto, e nel caso qualcuno tentasse di attaccare il Consigliere Tèedin avrebbe il lavoro facile. E visto che il nostro compito è quello di proteggerlo…”

“Come ti chiami?” l’interruppe il caporale.

Taras rimase qualche secondo in silenzio, attonito. “Taras, signore.”

“Bene, Taras.” riprese Verton, con un ampio movimento del braccio davanti al suo viso “Io ho scortato una lunga serie di personaggi di spicco fino al Consiglio fin da quando è stato istituito, e tutti sono arrivati sani e salvi a Laodamea. C’è un motivo se sono Caporale. E quando vorrò farmi dire da un soldato semplice come svolgere il mio lavoro, di certo non lo chiederò a un eversivo con i capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante. Sono stato abbastanza chiaro?”

Gli lanciò un’occhiataccia, e senza aspettare risposta aprì la porta ed entrò nella locanda.

Taras rimase immobile davanti all’uscio sbarrato, con il viso storto in una nuova smorfia.

Certo. L’eversivo dai capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante.

Inutile spiegargli che era un Cavaliere di Drago fuggito proprio sotto il naso di Dohor dall’Accademia di Makrat a sedici anni, e che da allora aveva combattuto più battaglie nella Terra dei Giorni di quante un qualsiasi ragazzo della sua età avrebbe potuto sopportarne. Inutile aggiungere che, nel caso non se ne fosse accorto, non ci teneva affatto ad essere lì, e l’unico motivo per cui si era unito a quella spedizione era perché gli era stato chiesto direttamente dal Generale dell’Accademia dei Cavalieri di Drago Endacril Parascheuazo, che era stato il suo maestro per più di tre anni. E che l’unico motivo per cui aveva accettato era rientrare dalla zona di stallo della Terra del Vento, in cui era stato costretto a rimanere per due mesi e senza il suo drago, a Laodamea, per chiedere il permesso di ritornare sul fronte della Terra dei Giorni.

No, qualunque cosa dicesse e qualunque cosa facesse della sua vita, lui sarebbe sempre stato l’eversivo dai capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante.

“Fantastico.” mormorò alla porta chiusa.

Poi, deciso a non indugiare oltre, si voltò e raggiunse i suoi compagni per preparare l’accampamento.

 

 

Algeiba era seduta, incappucciata, davanti a una fumante scodella di minestra di verdure che non aveva degnato di uno sguardo.

Era da un bel po’ che era lì, appoggiata con i gomiti al tavolo, la testa piegata a leggere il foglio di pergamena steso sulle sue ginocchia. Quell’Informatore era stato srotolato così tante volte che adesso rimaneva svolto senza problemi.

Aveva impiegato un mese ad arrivare nella Terra dell’Acqua, o più precisamente nella Marca dei Boschi. Aveva preso la strada più lunga, quella attraverso la Terra del Fuoco, delle Rocce e del Vento, perché Yeshol le aveva detto che sarebbe stato pericoloso attraversare la Grande Terra. Algeiba non aveva chiesto il perché; aveva capito che non pagava.

Perciò si era limitata ad obbedire.

A cavallo ci aveva messo relativamente poco. E adesso stava seduta a quel piccolo tavolo in quella vecchia locanda, chiamata in modo strano. Sulla strada per Laodamea. L’aveva trovato piuttosto banale quando l’aveva letto, ma a quanto pareva il nome non scoraggiava i suoi avventori; la taverna, che pur si sviluppava su un piano sotterraneo e un robusto soppalco di legno, era praticamente piena.

I clienti erano per lo più mercanti in viaggio o messaggeri, e, nell’angolo più lontano da lei, c’era un’allegra e chiassosa tavolata di soldati in armatura.

Le piaceva guardare le altre persone non vista, soprattutto quando sembravano felici a quel modo. Ma il vero motivo per cui era entrata lì era raccogliere qualche notizia. Ancora non aveva chiesto niente; avrebbe aspettato la sera tardi, quando la taverna sarebbe stata semivuota.

La ragazza si riscosse, e appoggiò la guancia alla mano guantata, riprendendo a leggere.

Scorse velocemente, per l’ennesima volta, i punti del suo Informatore. Anche se ormai l’aveva imparato a memoria, concentrarsi sui dettagli tecnici l’aiutava a non pensare.

Per l’ennesima volta, posò lo sguardo sullo schizzo della vittima, e incrociò i suoi occhi. Era buffo come la sua mente trasformasse la sua espressione neutra in una d’accusa, e colorasse quel disegno in bianco e nero di colori estremamente reali. La pelle pallida, i capelli corvini spettinati, il viso giovanile, e dei profondi e grandi occhi blu. Così almeno diceva la scheda, anche se, ad essere precisi, non faceva accenno alla profondità degli occhi della vittima. Quello era tutto un gioco della mente di Algeiba.

La ragazza fissò per qualche altro secondo il viso del giovane, e spostò lo sguardo sulla piccola parola criptata vicino al disegno. Diciannove anni, solo due in più di lei.

Chissà cos’aveva fatto per tirarsi addosso le ostilità della Gilda. Di sicuro qualcosa di enormemente stupido.

Ad un tratto un’ombra si parò sul tavolo, e con un breve sussulto Algeiba fece sparire l’Informatore nella tasca del mantello.

Alzò lo sguardo, e incrociò quello alticcio di un grosso soldato appartenente alla compagnia che aveva osservato poco prima, e di cui adesso i componenti si davano di gomito ridendo a squarciagola.

Ma che diavolo…?

 

 

Taras stava appoggiato contro la porta da ormai tre ore.

Il suo compagno di guardia, Nes, l’aveva scaricato circa venti minuti dopo l’inizio del turno, mandando con enfasi il lavoro a farsi maledire, e esortandolo a scendere con lui a farsi una birra.

Taras aveva declinato gentilmente. Primo, dubitava che le intenzioni di Nes si limitassero a una birra. Secondo, di conseguenza, non ci teneva affatto a ubriacarsi con i suoi compagni di scorta. E terzo, per quanto inutilmente, qualcuno a fare sul serio la guardia ci doveva rimanere.

E visto che, ovviamente, quelli che dovevano dargli il cambio non si erano fatti vedere, Taras era rimasto lì fuori, da solo, al freddo.

Il ragazzo strofinò le mani l’una con l’altra e poi ci soffiò dentro, cercando di riscaldarsi, senza in realtà molto successo. Sciolse le gambe e inarcò le spalle, che stavano cominciando a fargli male per il peso della spada legata sulla schiena.

Taras si dette uno sguardo dietro, pensando a quando Regolo gliel’aveva regalata. Era uno spadone a due mani, con la lama azzurra che sembrava emanare luce propria, e l’elsa cesellata di uno strano materiale trasparente simile ad ambra, e di lucide pietre bianche. Regolo l’aveva chiamata Abissea, perché veniva dal Mondo Sommerso.

Taras invece non la chiamava. Si limitava a usarla, e a considerarla come il più bel ricordo di suo padre.

Fece uno sbadiglio, e chiuse gli occhi. Era dura essere come lui. E non soltanto perché aveva i capelli blu e segni verde acqua su tutta la parte destra del corpo; era dura essere l’unico con un po’ di forza di volontà e responsabilità di un gruppo di circa venticinque persone, compreso quello che avrebbe dovuto essere il suo superiore. Era dura perché spesso finiva così; con lui da solo e il resto della compagnia da qualche parte a spassarsela.

Sbuffò sonoramente, e lanciò un’occhiata alla ripida scala di legno che conduceva alla taverna nel sotterraneo della locanda.

Scosse la testa, raddrizzò la schiena e riprese a guardare la strada. Ma non ci volle molto perché i suoi occhi venissero attratti di nuovo verso il chiasso e la luce calda del piano di sotto.

Così sospirò, e si tolse uno degli spessi guanti di cuoio. Si guardò intorno con circospezione, e poi sussurrò:

“Inwert megra Tèedin dleìll.”

Una soffusa luce violacea si sprigionò dalle punte delle sue dita e si diresse luccicando verso le mura, che sembrarono assorbirla. Per un attimo le pietre delle pareti si colorarono di viola, ma fu un lampo così breve che nessuno avrebbe potuto esserne sicuro.

Un buffo senso di colpa s’impadronì di Taras. Non sapeva perché, ma quando usava la magia aveva sempre l’impressione di stare sbagliando. Era una cosa che faceva fin da quando era bambino; quando aveva bisogno di pronunciare un incantesimo le sue mani sembravano fare tutto da sole. Ma funzionava praticamente sempre.

Aveva formulato quell’incantesimo in modo che, se si fosse avvicinato alla locanda qualcuno con cattive intenzioni nei confronti del Consigliere, lui lo sapesse immediatamente.

Una sorta di campanella che mi suona nella testa, pensò il ragazzo, ricordando con un sorriso il metodo simile che usava da bambino quando suo padre lo lasciava solo in negozio.

Fece un altro sospiro e poi, combattendo il disprezzo per se stesso e il senso di colpa, cominciò a scendere le rumorose scale di legno.

Si ritrovò in un ambiente caldo e accogliente, gremito di persone che si muovevano da una parte all’altra e invaso dall’odore amaro della birra.

Prima che avesse il tempo di individuare i suoi compagni, qualcuno gli passò con forza una mano intorno alle spalle e lo spintonò.

“Guardate chi ci ha raggiunto!” gridò Nes un po’ troppo forte, con in mano un grosso boccale di birra.

Un allegro clamore si levò da una lunga tavolata proprio davanti a Taras, e una buona parte dei venticinque soldati in armatura sedutivi attorno levarono il bicchiere verso il ragazzo.

Molti altri gli batterono vigorose pacche sulle spalle che lo fecero sprofondare di diversi pollici sul pavimento di legno.

“Taras si unisce a noi, gente!” urlò di nuovo Nes, spingendolo a sedere su una panca, accanto a un grosso soldato dal viso paonazzo di cui Taras non ricordava il nome, ma che l’abbracciò con vigore.

“Tieni, capelli blu!” esclamò in tono gioviale, sbattendogli il suo boccale di birra sotto il naso “Fatti una pinta!”

La tavolata scoppiò a ridere a crepapelle, e Taras tentò di sorridere, imbarazzato.

“Io veramente…”

“Non fare il guastafeste!” esclamò il tizio dal faccione rubicondo “Ingoia e dimentica i problemi!” aggiunse poi, prima di rovesciare una buona metà del boccale nell’esofago di Taras.

Il ragazzo tossì e ne sputò una buona parte, mentre il resto della compagnia continuava a ridere sguaiatamente. Si pulì la bocca con la mano, e ansimò un:

“Grazie…”

“Figurati!” esclamò l’omone ridendo “Ma non ti aspettare altra carità, solo la prima prova è gratis! Perciò muovi le tue gambine da cicogna e fila al bancone, se ne vuoi ancora!”

Taras stava per ribattere, ma Nes l’afferrò per un braccio e lo fece alzare di nuovo.

“Sì, io e Taras andiamo a prendere altra birra! Chi vuole fare un altro giro?”

Praticamente tutti alzarono la mano. Prima che potesse rendersene conto, Taras veniva di nuovo trascinato da Nes, che lo faceva rimbalzare con qualcuno ogni due passi, stavolta verso il bancone.

Una volta raggiunto, Taras tirò un sospiro di sollievo. Nes sbatté violentemente una mano sulla superficie di legno e la locandiera, una signora di mezza età ben in carne, si voltò verso di lui con un sopracciglio inarcato.

“Sì?” chiese svogliatamente.

Taras si chiese quante volte, nella sua vita, si fosse trovata a dover discutere con un ubriaco.

“Altra birra per me e per il mio amico!” esclamò Nes, circondando di nuovo le spalle di Taras con un braccio “E per tutti i miei amici laggiù!” aggiunse poi, indicando l’allegro e dissoluto tavolo della scorta del Consigliere Tèedin.

La donna alzò anche l’altro sopracciglio. “Mi spieghi poi chi paga tutta questa roba?”

“Offre tutto il Consigliere Tèedin!” rispose immediatamente Nes, con un grosso sorriso.

La locandiera non sembrava molto convinta. Ma in men che non si dica fece scivolare due grossi boccali di birra sul bancone verso Nes e verso Taras, e dispose gli altri venti su un enorme vassoio che si caricò su un fianco. Aggirò il bancone e si fece con grazia strada tra la folla, diretta al tavolo.

Nes si sedette su uno degli sgabelli lungo il bancone, tracannò subito una buona parte del suo boccale, e poi guardò Taras. Aprì bocca per dire qualcosa, ma prima che potesse farlo, il ragazzo agguantò la sua birra e bevve qualche sorso.

L’altro gli sorrise soddisfatto. “E bravo Taras! Sai, sapevo che non eri così rigido come sembravi, anche se quella volta, quando volevi che non ci fermassimo alla locanda perché era pericoloso sono stato vicino a crederlo!”

Taras lo guardò un po’ preoccupato. “Era oggi, Nes.”

Il ragazzo sbatté gli occhi un paio di volte, confuso. “Ah, sì? Allora sei cambiato in fretta!” esclamò poi, tornando alla solita allegria “Sai, mi ricordo del cambiamento più veloce che ho fatto, una volta, quando ho mangiato delle bacche velenose, era circa due anni fa, o forse tre, comunque, quella volta…”

Taras smise di ascoltarlo quasi subito. Bevendo lenti sorsi dal suo boccale di birra lasciò vagare lo sguardo intorno alla stanza strapiena di gente.

Quasi si stentava a credere che tutte quelle persone potessero entrare in un posto solo. Non soltanto il pianoterra era affollatissimo, ma anche il grosso soppalco che percorreva le alte pareti straripava di persone.

Taras vide un sacco di commercianti che parlavano di affari, un gran numero di ubriaconi attaccabrighe –si capiva perché le zone attorno a loro erano le uniche vuote della stanza-, messaggeri che viaggiavano di Terra in Terra portando missive, molti abitanti evidentemente del posto –riconoscibili dall’abbigliamento meno impegnato degli altri-, magari provenienti da un villaggio vicino, e giovani, adulti e vecchi di tutte le fogge.

Quello che però Taras notò, era che, oltre alla locandiera, non c’era neanche una donna. Aggrottò le sopracciglia, pensando che fosse impossibile. Di solito nei posti come quello c’era sempre qualche prostituta pronta ad allietare il viaggio degli avventori.

Beh, non che a lui importasse, a dire il vero. Ma il fatto che, con tutta quella gente, non ci fosse neanche…

Eccone una. Credo…

Lo sguardo di Taras si era soffermato su una figura incappucciata seduta in un angolo e che, per qualche motivo, era stata invisibile per lui fino a quel momento. Un mantello nero la copriva dalla testa ai piedi, lasciando intravedere solo delle labbra carnose e un mento liscio evidentemente femminile. Non fosse stato per quel piccolo particolare, sarebbe sembrata soltanto un uomo molto piccolo.

Si guardò intorno, cercandone magari altre vestite a quel modo, ma sembrava davvero esserci solo lei.

La donna aveva il capo abbassato sul petto e a stento si muoveva. Forse era addormentata.

Per qualche ragione, Taras non riusciva a staccare lo sguardo da lei. Adesso che l’aveva notata, avvertiva una sensazione strana. Un misto di inquietudine e curiosità.

“Ah, che occhio!” esclamò improvvisamente Nes molto, molto vicino al suo orecchio.

Taras sussultò, e per poco non si rovesciò tutta la birra addosso. Aveva vagamente sentito il compagno farneticare di qualcosa come l’aver perso trenta libbre in due giorni, ma a quanto pareva si era accorto che non lo stava ascoltando e aveva seguito il suo sguardo.

“L’hai notata subito…” fece il ragazzo allusivo, tirandogli una gomitata “L’unica ragazza del locale. Beh, a parte la taverniera, ma lei è…” Nes aprì la bocca in una smorfia e scosse velocemente la testa. Taras intuì che era un brivido di disgusto. “Non ce ne sono altre perché, a quanto pare, questo è il periodo in cui la Dea delle Acque ha fatto qualcosa in qualche posto, ed è tradizione che in quest’occasione le donne rimangano a casa.” spiegò confusamente “Sfortuna, eh? Comunque, l’abbiamo vista anche noi. Cioè, non subito, ma a forza di cercarne una l’abbiamo beccata. Sai, prima stavano scommettendo su chi sarebbe riuscito a guardarle sotto il cappuccio e sotto…”

Nes scoppiò a ridere, e poi all’improvviso si accasciò sul bancone. Taras lo fissò per qualche secondo, spaventato, prima che il suo compagno prendesse a russare sonoramente.

Scosse la testa con un sorriso, e si voltò di nuovo a guardare la figura incappucciata seduta nell’angolo più lontano dal bancone, cercando di capire perché si fosse coperta a quel modo.

Improvvisamente, un rumore alla sua sinistra attirò la sua attenzione. Uno dei suoi compagni, quello grosso che gli aveva fatto tracannare la propria birra, si era appena alzato un po’ traballante dal tavolo, e si faceva strada verso la parte di stanza dove si trovava la ragazza.

Quando si avvicinò un po’ di più, Taras capì che stava andando proprio verso di lei.

Oh-oh…

A quanto pareva qualcuno aveva accettato la sfida.

Fece appena in tempo ad alzarsi dallo sgabello che il grosso tizio l’aveva raggiunta, e le si era parato di fronte, con le mani sui fianchi e il bacino pericolosamente inarcato.

Adesso sì che Taras si ricordava come si chiamava.

“Maledizione, Argogas!” gridò esasperato, spintonando gente a destra e a manca per raggiungere il tavolo.

Aveva la netta sensazione che la sua popolarità nella compagnia stesse di nuovo per calare vertiginosamente.

 

 

Algeiba fissò dal basso quell’energumeno con una brutta sensazione d’inferiorità.

“Che cosa?” chiese attonita per la seconda volta, aggrottando le sopracciglia sotto il cappuccio.

“Sei sorda, tesoro? Ti ho chiesto se vuoi ballare con me…” biascicò di nuovo il tizio, con un’espressione che non le piaceva per niente.

Algeiba si guardò intorno di nuovo, ma non sentiva nessuna musica. “Ballare? Sentite, io…” 

“Che, fai la schizzinosa, piccola? Andiamo... Se non ti va di ballare possiamo andare direttamente a…”

“Non toccarmi.” gl’intimò Algeiba, guardando con freddezza la grossa mano che l’uomo le aveva posato sul braccio.

Cominciava a capire, e la cosa le piaceva sempre meno.

“Che caratterino!” commentò lui, ridendo in modo osceno “Scommetti che ti faccio cambiare idea?”

La tirò in piedi, e il cappuccio le scivolò dal viso.

L’uomo si voltò a guardarla. “Oh, sei anche carina. Si prospetta una bella serata…” rise di nuovo, fiatandole in faccia un’alitata di birra, e con il braccio libero la indicò alla tavolata di soldati “E la prima parte dei soldi è già mia!”

Sempre ridendo cominciò a trascinarla via dal tavolo. Algeiba oppose resistenza, e con un lesto movimento del braccio si liberò dalla sua presa.

L’uomo si voltò a guardarla con gli occhi spalancati. “Ma come…?”

Fece per riafferrarla, ma Algeiba fece un passo indietro. Si dette della stupida. Non avrebbe mai dovuto entrare lì dentro.

“Per favore, lasciami in pace.” gli chiese con voce velatamente intimidatoria.

Non costringermi a farlo.

All’uomo non sfuggì il tono di minaccia. “Come osi, sgualdrina?” sibilò, avanzando di nuovo verso di lei.

Levò il braccio come a volerle tirare uno schiaffo, e la ragazza si preparò a difendersi.

Improvvisamente, un lampo blu.

Algeiba fece un passo indietro, e si trovò davanti le spalle di un ragazzo. Alto, asciutto e… con i capelli blu.

Con una velocità incredibile il ragazzo bloccò la mano dell’energumeno, e si parò davanti a lei con fare protettivo.

“Ma che accidenti pensi di fare, bamboccio?” farfugliò furioso l’altro.

“Non credi di avere esagerato, Argogas?” disse il ragazzo con voce tranquilla ma ferma, senza muoversi da dov’era.

“Tu non puoi certo dirmi quando ho esagerato, hai capito, razza di marmocchio multicolore? E adesso togliti di mezzo, se non vuoi che ti prenda a calci!” ringhiò l’energumeno di nome Argogas, e fece un passo avanti per scostarlo.

Come aveva fatto Algeiba, il ragazzo indietreggiò, facendo arretrare anche lei. Le sue spalle s’irrigidirono davanti alla ragazza, e fu con estrema freddezza che disse:

“Non siamo qui per dare spettacolo.”

L’energumeno divenne paonazzo, e sembrarono uscirgli gli occhi fuori dalle orbite. “Che problema hai, mostro? Ho detto togliti di mezzo!

Mosse un altro feroce passo in direzione del ragazzo, ma prima che potesse raggiungerlo, lui caricò e gli assestò un violento pugno sulla mascella.

Argogas cadde a terra come un sacco di patate, e il ragazzo scrollò la mano.

“Ahia…”

Solo allora, alzando lo sguardo, Algeiba si accorse che tutte le persone nel locale si erano zittite, e li fissavano.

Addio copertura.

Quasi subito, altri due soldati della tavolata dell’energumeno chiamato Argogas si alzarono per aiutarlo a tirarsi in piedi. Lui da solo non ci riusciva; le opzioni erano due. O era troppo ubriaco e stordito per farlo, oppure non lo era poi così tanto.

I due soldati lo presero da sotto le ascelle e lo sollevarono, poi, guardando Taras di sbieco, lo trascinarono di nuovo al tavolo.

Nel frattempo, piano piano, il frastuono si era rimpadronito della taverna. Doveva essere una cosa che capitava spesso.

Una volta che il gruppo di tre soldati fu definitivamente fuori portata, il ragazzo si voltò verso di lei. Algeiba spalancò gli occhi.

Era decisamente il ragazzo più strano che avesse mai visto.

Oltre alla chioma blu, aveva pallidi segni verde acqua che dalla guancia s’intersecavano su tutta la parte destra del corpo, e due buffe orecchie a punta che gli sbucavano in mezzo ai capelli. Ma –ed era tutto dire- erano i suoi occhi la cosa più interessante e bizzarra; grandi e leggermente allungati, a prima vista sembravano grigi. Ma bastava che sbattesse le palpebre che la tonalità cambiava, e Algeiba contò una quantità incredibile di sfumature e colori. Azzurro, blu, verde, miele, marrone, persino indaco.

Ma da dove viene questo tizio?

“Uff… E io con quel tipo ci devo passare ancora ventinquattr’ore.” sbuffò il ragazzo, massaggiandosi la mano. La guardò, e dischiuse le labbra carnose in un sorriso. Il suo volto sembrò illuminarsi. “Scusalo.” disse poi, stringendosi nelle spalle “Di solito non è così…” esitò “Ubriaco. Tu stai bene?”

Algeiba spalancò gli occhi e sbatté le palpebre. L’aveva salvata, si preoccupava che stesse bene…

“Sì.” rispose, annuendo con decisione “Grazie…”

Quella parola le scivolò sulla lingua con una consistenza nuova. Come se fosse la prima volta che la pronunciava davvero.

“Figurati. Rimpiango solo di non aver usato i guanti dell’armatura per prenderlo a pugni. Quel tizio ha una mascella davvero dura.” commentò, scuotendo ancora una volta la mano. Poi la guardò con le sopracciglia aggrottate “Mi spieghi solo perché te ne vai in giro incappucciata a quel modo?” chiese improvvisamente “Qualcuno potrebbe pensare male… Io l’ho fatto.” aggiunse poi, stringendosi nelle spalle un po’ imbarazzato.

Algeiba si guardò furtivamente intorno, con una gran voglia di tirarsi su il cappuccio. Ma ormai il danno era fatto.

Perciò meglio che s’inventasse una scusa alla svelta.

“Per i tipi come quello, in realtà.” mentì, accennando appena col capo verso l’altra parte del locale.

Il ragazzo spalancò un attimo gli occhi dal colore indefinibile, e poi abbassò lo sguardo. “Hai ragione. Mi scuso per tutti i cattivi pensieri che ho avuto su di te.” le sorrise.

Scommetto non erano neanche lontanamente cattivi abbastanza.

Il ragazzo si voltò un attimo verso la tavolata di soldati a cui probabilmente apparteneva. Tutti lo fissavano in cagnesco, e lui sostenne con fierezza i loro sguardi finché non si voltarono, confabulando. A quel punto il ragazzo abbassò il suo, rabbuiandosi.

“Io sono Taras, comunque.” si riscosse poi, porgendole la mano.

Algeiba la strinse automaticamente, e la stoffa dei suoi guanti venne a contatto con la pelle di Taras.

“Sei un Cavaliere?” chiese la ragazza, prima che avesse il tempo di mordersi la lingua.

Taras spalancò gli occhi ancora una volta, colpito. Probabilmente non si spiegava come avesse fatto Algeiba ad intuirlo. Ma oltre al fatto che aveva, sul dorso delle mani, evidenti cicatrici provocate dalle redini delle selle da drago, sul pettorale della sua armatura era impresso lo stemma della Terra del Sole, a malapena riconoscibile. Era innaturalmente sbiadito e consumato, come se fosse stato grattato via.

“Sì…” mormorò dopo un po’, guardandola stranito “Cioè, per il momento mi limito a fare da scorta ma… Sì, ho un drago. Da qualche parte.”

Si sedette, continuando a fissarla attonito e allo stesso tempo divertito.

La ragazza lo guardò indecisa.

Sarebbe stato necessario andarsene, e di corsa. Ma se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe attirato ancora di più l’attenzione.

E poi, quel ragazzo era davvero curioso.

Così si sedette di fronte a lui.

“E tu ti chiami...?” proseguì il Cavaliere di nome Taras, interessato.

Algeiba.

“Fanela. Figlia di Lao.” rispose.

“E cosa sei?” rise il ragazzo.

Algeiba pensò ai propri guanti, e disse: “Una filatrice. Sono di Loos.”

Il Cavaliere sorrise di nuovo. “Loos… Non è molto lontana da qui. E che ci fa una ragazzina come te in viaggio da sola?”

Ragazzina?

Algeiba inarcò un sopracciglio. “Devo prendere degli accordi a Laodamea. Per mio padre.”

Taras si rizzò sulla sedia. “Vai a Laodamea?” le chiese allegro “Anche noi, sai? Se vuoi…”

“Grazie.” si affrettò ad interromperlo Algeiba “Ma non penso che con il tuo amico…”

Di nuovo, il ragazzo sembrò imbarazzato. “Ah. Sì. Scusa.” fece una breve pausa “Sappi che non è mio amico.” aggiunse poi.

Lei aggrottò le sopracciglia. “Perché no?”

Il Cavaliere esitò. “Beh… Sostanzialmente per le cose come quella che è successa prima. E poi non andiamo troppo d’accordo in genere.” disse guardando il tavolo.

“E come mai?” chiese ancora Algeiba.

Taras alzò gli occhi su di lei. “Fai un sacco di domande.”

La ragazza si riscosse. Aveva ragione.

Ma che accidenti sto facendo?

“Scusa, io…”

“Non preoccuparti.” l’interruppe il ragazzo, con un nuovo sorriso “E’ che, sai… Come puoi vedere sono un tipo piuttosto…” esitò, come cercando la parola adatta “Diverso.” tagliò corto, scrollando le spalle “E questo non va a genio a tutti.” aggiunse con amarezza.

“Capisco.” mormorò immediatamente Algeiba.

I loro sguardi s’incrociarono, e per un fugace attimo, negli occhi del Cavaliere la ragazza vide qualcosa. Stupore, comprensione, affinità.

Si sentì improvvisamente messa a nudo. Abbassò lo sguardo.

“Dev’essere difficile.” aggiunse in fretta.

Il ragazzo scosse la testa. “Non così tanto.” sorrise “Ormai ci ho fatto l’abitudine.” dette un’occhiata intorno “Per esempio, adesso ci stanno fissando tutti.”

Sì, anche Algeiba se n’era accorta. Seguì brevemente gli occhi di Taras intorno alla stanza, poi tornò a guardare lui.

Inarcò un sopracciglio. “Non pensi che sia perché hai appena preso a pugni un tizio?”

Taras sorrise. “Dici che l’hanno notato?”

La ragazza scoppiò a ridere. Poi chiuse di scatto la bocca, sentendosi stupida.

Non era così divertente.

“Il punto è mi succede spesso di sentirmi osservato.” concluse il Cavaliere, stringendosi nelle spalle.

Algeiba prese fiato. “E come mai sei…?”

Il Cavaliere la guardò. Lei ammutolì.

“Scusa. Non dovevo chiedertelo.”

Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui lei tenne lo sguardo basso.

Ti stai mettendo nei guai. Vattene.

Risollevò gli occhi, e quando lo fece, il Cavaliere tentò un altro sorriso.

“Non preoccuparti.”

Algeiba era sicura che si sarebbe fermato lì, invece lui continuò:

“Sono nato così, o almeno è ciò che mi hanno detto.” disse quella frase in modo strano, perso. Poi le fece un altro sorriso “Anche tu hai qualcosa di strano, però.”

Algeiba si sentì raggelare. “Io? Che cosa?”

Taras scrollò le spalle. “Beh, per prima cosa hai… Quanti anni hai?”

“Diciassette.”

Credo.

“Beh, hai diciassette anni e te ne vai in giro da sola di notte… Senza offesa, ma conosco poche ragazze a cui sarebbe permesso.” concluse il Cavaliere di Drago, e Algeiba avvertì nel suo tono una leggera nota indagatrice.

Pensò in fretta. “Non muoio dalla gioia nel farlo.” rispose “Ma siamo solo io e mio padre. E lui è troppo vecchio per spostarsi.”

“Capisco.” annuì il ragazzo “Mi spiace. Anche a casa mia eravamo solo io e mio padre… Più o meno.” aggrottò le sopracciglia, come riflettendoci.

Cosa vuoi dire?

Fortunatamente, stavolta la ragazza riuscì a mordersi la lingua prima di aprire bocca.

“Non è tutto qui, comunque.” riprese il Cavaliere “Sei particolarmente… curiosa per essere una filatrice.” commentò, come se fosse nella sua testa.

Algeiba lo guardò stupita. “Le filatrici non sono curiose?”

“No… E’ che…” Taras sembrava imbarazzato.

Una volta tanto, era lui a desiderare di rimangiarsi le proprie parole.

“Insomma, suppongo di sì. A quanto pare.” disse infine “Ma conosco studiose meno sveglie di te.” aggiunse poi, come a voler riparare alla figuraccia.

Algeiba sorrise. “E’ un complimento?”

“Suppongo di sì.” ripeté lui, rispondendo al suo sorriso. “Perché non togli il mantello?” fece ad un tratto. “Sembra pesante.”

Algeiba si morse il labbro inferiore. Lo faceva sempre quando era nervosa. E la tradiva sempre.

“Ho freddo.” buttò lì.

Il Cavaliere, che aveva le guance paonazze per il caldo, inarcò un sopracciglio.

“Da dove vieni?” si affrettò a chiedere Algeiba “Dall’Accademia dei Cavalieri di Drago di Makrat, vero?”

Il ragazzo sembrò irrigidirsi. Esitò. “…No.”

L’Assassina aggrottò le sopracciglia. “Dalla Terra del Mare, allora.” fece, poco convinta.

Perché allora ha lo stemma della Terra del Sole sul pettorale?

“Nemmeno.” rispose il Cavaliere.

“Ma… Non ci sono altre Accademie di Cavalieri nel Mondo Emerso, che io sappia.” osservò confusa.

“Infatti.” ribatté Taras, improvvisamente schivo. “A dire la verità non vengo da nessun’Accademia.” rimase qualche secondo in silenzio “E’ complicato.” disse infine, in risposta allo sguardo interrogativo della ragazza.

“Perché?” non poté fare a meno di domandare Algeiba.

Taras rise, e sospirò. “Fai davvero un sacco domande. Sei nervosa?” chiese poi all’improvviso.

Algeiba raggelò. “Io? Nervosa?” fece, senza accorgersi di aver detto qualcosa del genere poco prima.

“Non hai toccato cibo.” replicò il Cavaliere, alludendo al piatto di minestra di fronte a lei, completamente intatto “C’è qualcosa che non va?”

“No, sto bene.”

Maledizione.

Non solo era ansiosa, ma a quanto pare non riusciva neanche a nasconderlo. Doveva darsi una regolata.

“Non temere.” le sorrise Taras, rassicurante “Nessuno è obbligato a credere a una divinità solo perché lo fanno gli altri.”

Algeiba spalancò gli occhi, con una fitta allo stomaco. Il suo cuore accelerò il battito.

“Come, scusa?” mormorò con voce spezzata.

“Mi dispiace.” fece il Cavaliere, schiarendosi la gola “Non volevo insinuare niente. E’ solo che so che in questo periodo c’è l’esaltazione della Dea delle Acque per la creazione del Saar, e le donne tradizionalmente rimangono a casa. Pensavo che, visto che tu… Insomma, sei fuori… “ s’ingarbugliò “Magari non fossi una fedele. Ma probabilmente ci sono modi di venerarla anche senza chiudersi in casa, di sicuro ne so meno di te…” abbassò lo sguardo “Mi dispiace, non volevo.” ripeté.

“No, io…”

Si morse di nuovo le labbra.

Maledizione.

Non aveva niente da fare lì. Si stava intrattenendo a parlare con un Cavaliere di Drago, qualcuno che poteva arrestarla da un momento all’altro. Faceva domande. Si mostrava nervosa. Sbagliava a mentire.

La copertura era saltata, non avrebbe potuto raccogliere le informazioni che le servivano.

Che diavolo ci faccio qui?

Improvvisamente, le tornarono in mente le parole di Yeshol. Le risuonarono nella testa come se fosse stato lui a sussurrargliele nell’orecchio.

“Nessuno deve vederti a volto scoperto. Nessuno, all’esterno della Casa. A costo di fare una strage devi eliminare qualsiasi testimone. Nessuno può conoscere i tuoi lineamenti e continuare a vivere.”

Taras l’aveva vista. Tutto il locale l’aveva vista in faccia. Doveva ucciderli.

Dovrei ucciderli.

Avrebbe dovuto ucciderli.

“Dove vai?” chiese il Cavaliere, allarmato, quando la ragazza scattò in piedi.

“Fuori.” tagliò corto Algeiba, prima di farsi strada con agilità verso l’uscita.

Raggiunse il fondo delle scale, le salì a due a due e uscì nella notte. Mentre camminava spedita alzò lo sguardo verso il cielo.

Rubira, la stella di Sangue, splendeva luminosa sopra la sua testa, come un occhio sempre vigile. L’occhio di Thenaar. L’occhio della Gilda.

E l’accusava.

Si guardò alle spalle. Un piccolo gruppo di soldati stava uscendo dalla locanda, ma tra di loro non c’era il Cavaliere.

Addio, Taras, pensò, prima si sparire nella foresta.

 

 

Taras rimase a fissare l’uscita, stordito, per qualche secondo. Ma che accidenti le era preso?

Ho detto qualcosa di sbagliato?

Forse aveva toccato un nervo scoperto. No, evidentemente l’aveva fatto. In un attimo la freddezza della ragazza era sparita, ed era scappata come un ladra. Fuori, aveva detto. A prendere aria?

Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla superficie liscia del tavolo, sul piatto di minestra che Fanela non aveva ancora toccato.

Evidentemente sì.

Gli sfuggì un sorriso.

Quella ragazza era davvero strana. Ma uno strano piacevole. Strana come…

Come me.

Era stato un momento. Un secondo fugace, eppure così intenso. Quell’attimo in cui lei aveva detto che lo capiva, e i loro sguardi si erano incrociati.

Era stato come se gli occhi della ragazza –di un azzurro così puro e allo stesso tempo così torbido, come le acque del Saar- all’improvviso fossero diventati da glaciali a trasparenti, come un’onda che passa e, per un secondo, tornando indietro, lascia visibile il fondo. In quell’attimo, era stato come se gli occhi di Fanela gli avessero aperto la sua anima.

E in quell’attimo, Taras aveva sentito un incredibile senso di familiarità. Aveva letto in quell’azzurro un’intimità e una comprensione mai provata prima, e qualcosa, da qualche parte nella sua testa, gli aveva detto:

Lei è uguale a te.

Poi, l’attimo era finito, e si era sentito stupido ad averlo soltanto pensato. Ma il ricordo di quella breve scintilla continuava a ripresentarsi nella sua mente a intervalli regolari, come se non volesse lasciarlo in pace, e gli faceva desiderare di riuscire a scorgerla ancora.

Si riscosse e alzò lo sguardo.

Fanela se n’era andata da almeno cinque minuti. Spostò gli occhi sul tavolo dei suoi compagni, e considerò che almeno, avevano smesso di fissarlo.

Il giorno dopo sarebbe stato davvero divertente, non c’era dubbio.

Improvvisamente, si rese conto di una cosa. Attorno alla tavolata c’erano tutti. Ma mancava una figura alta e imponente, che circa cinque minuti prima era accasciata mollemente sul tavolo.

Oh no…

Si alzò in piedi di scatto e si guardò intorno. Ma non era da nessuna parte.

Cavolo.

Corse di slancio verso la porta, senza preoccuparsi di andare addosso alla gente. Raggiunse le scale e le salì più in fretta che poteva, per poi prendere a correre per la strada.

Stavolta ti ammazzo, Argogas…

Si bloccò in mezzo alla via col fiatone, senza avere la più pallida idea di dove andare. Poi sentì una risata sguaiata provenire dall’interno della foresta, sul lato sinistro della strada.

Non stentò a riconoscerla e si lanciò di corsa in quella direzione, sperando di arrivare in tempo.

Continuò a correre alla cieca per mezzo minuto, vagando freneticamente con lo sguardo, cercandoli.

Poi sentì il rumore di una spada sguainata alla sua destra, e si fermò.

Il suo cuore, nonostante battesse velocissimo, parve fermarsi.

Argogas era a terra, boccheggiante, steso in orizzontale di fronte a lui. E Fanela gli era sopra, con una lunga sciabola lungo l’avambraccio destro, i muscoli tesi allo spasimo e ansante.

I suoi occhi chiarissimi si alzarono su di lui, brillanti di una luce strana. La ragazza sussultò.

Rimasero a guardarsi per secondi interminabili, senza muoversi, con soltanto il suono dei loro respiri affannati a rompere il silenzio.

Qualcosa nella mente di Taras non faceva altro che urlargli di prendere la spada, di fare qualcosa, qualunque cosa, ma i suoi arti sembravano insensibili, e lui non poteva fare altro che rimanere immobile, impietrito, a fissarla.

Poi, l’Assassina ruppe l’incanto.

Rinfoderò la sciabola con un unico movimento fluido, spiccò un salto e sparì tra le fronde degli alberi.

Taras la sentì allontanarsi tra i rami, spostandosi correndo di pianta in pianta.  

Soltanto allora, sconvolto, abbassò lo sguardo su Argogas.

Si riscosse e gli si avvicinò velocemente, accovacciandosi di fianco a lui. Aveva una lunga ferita sul torace, e nonostante fosse superficiale stava perdendo molto sangue. Ma era ancora vivo.

Gli scosse la spalla.

“Stai tranquillo, d’accordo?” gli disse, cercando il suo sguardo “D’accordo? Resisti. Io vado a chiamare aiuto.”

Si alzò di nuovo, e prese a correre a perdifiato indietro verso la locanda.

Cercando di muoversi più veloce del senso di colpa che si stava insinuando, strisciante, dentro di lui.

 

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Note:

Ecco un altro personaggio. Lui è Taras... Il tatuatone. XD

Ha un po' di complessi e si dimentica le cose... Beh, c'è un motivo, ma lo scoprirete più in là. Però è simpatico. Sì. Non sappiamo bene cos'altro dire... Commentate voi XD

Grazie mille a tutti quelli che hanno recensito! Siamo un po' di fretta, perciò non abbiamo il tempo di rispondervi con dialoghi di altri personaggi delle Cronache XD MonyPurpa, alias nipote di Yeshol, tuo zio è un bell'uomo davvero, però è altrettanto malvagio (risata malefica di sottofondo). Asteria 95, se sei dal lato Marvash ti divertirai un sacco nel leggere questa FF, soprattutto se ti piace Aster :) Vedrai... Kratos the Pokemaster, ti ringraziamo tantissimo per i complimenti. Continua a leggere e vedrai il tuo odio per Dohor cambiare in... odio ancora più profondo. XD O forse no, la cosa è soggettiva.

Okay, basta con le anticipazioni. Continuate a commentare, ci divertiamo un sacco a leggere le vostre recensioni!

A presto,

Josie e June

  
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