Disclaimer: i personaggi sono copyright
della sensei Minekura.
Note: un giorno capirò perché sono simil Tokito e mi
faccio del male con i pov di Kubota (che tra l’altro è troppo complicato per i
miei poveri neuroni) XD
Ringraziamenti: a Yoko891
per aver betato.
Una volta, svegliandosi, Kubota si è ritrovato a guardare
il soffitto.
Ha continuato a fissarlo, articolando come unici pensieri
“è bianco” e “continua ad essere bianco”.
Ad un certo punto si è voltato verso il comodino, ha
allungato la mano e ha preso il pacchetto di sigarette lasciato aperto la sera
prima. Ha portato una stecca alle labbra, l’ha accesa e ha buttato fuori la
prima boccata di fumo. Tenendola tra le dita con presa non troppo forte, si è
ritrovato a far caso al fatto che se avesse stretto troppo l’avrebbe spezzata a
metà, mentre se avesse allentato troppo la presa, la sigaretta sarebbe
scivolata cadendogli addosso.
Poi l’ha portata alle labbra ancora, e ancora, e poi di
nuovo; aspirata, sapore del fumo, espirare, nuvola grigia – e un po’ di vita
che scivola via, avrebbe detto una persona particolarmente poetica.
Qualcuno poteva stupirsi di quel flusso di pensieri
inutili, ma fintanto che Kubota li teneva per sé era tutto sommato ok.
Guardava il soffitto, fumava e si diceva “la spezzo? La
lascio cadere? O la tengo ferma?”, come era successo altre volte.
Alla fine, impiegava troppo tempo a pensarci – o a non
pensarci – e la spegneva completamente consumata nel posacenere.
Anche quella volta, Kubota ha spento la sigaretta ormai
finita ed è tornato a guardare il soffitto; è rimasto in silenzio nella stessa
posizione, ripetendo “mh, ora mi alzo” e ad immaginare senza motivo una
conversazione sul genere di: «Certo che le sigarette sono fragili, eh?»
«Kubota-san, ma a chi vuoi che interessi?»
Quando finalmente si è alzato, per il resto della città
era ora di andare a dormire.
Uno, due, tre…
Il soffitto è bianco. Non cambia mai.
Dieci, undici, dodici…
Una sigaretta,
un gatto,
un essere umano;
alla fine sono tutte esistenze poco importanti.
Una volta, Kubota si è ritrovato a guardare il soffitto.
Ha sbadigliato, si è messo a sedere sul bordo del letto e
si è grattato pigramente la nuca.
Non ha fatto caso a cambiarsi subito, seguendo la sua
routine giornaliera – almeno, quella di quando si svegliava con l’intenzione di
alzarsi prima di sera.
Si è alzato, è andato in bagno e si è sciacquato il viso;
si è spostato in cucina, gli occhiali al loro posto sul naso, e si è fatto un
caffè. Mentre aspettava che fosse pronto – il solito caffè solubile di sempre –
ha guardato un punto imprecisato fuori dalla finestra.
Gli è parso di intravedere un paio di uccelli, ma non ci
ha badato troppo; e forse ad un certo punto ha pensato “ah, oggi pioverà”, ma è
stata una distrazione di pochi attimi.
Poi ha versato il caffè pronto nella tazza, ha soffiato e
bevuto mentre andava in soggiorno.
Quella mattina Kubota non ha acceso la tv, ma seduto sul
divano ha continuato a guardare senza un vero motivo lo schermo rimasto spento
e nero.
Forse c’era qualche notizia – un suicidio sotto la
metropolitana, un traffico di droga della yakuza, un bambino prodigio in
qualche parte del mondo – ma Kubota aveva continuato a guardare uno schermo
vuoto dove l’unica immagine era il suo riflesso.
Quando si è stancato si è alzato, è andato in bagno ed ha
aperto il rubinetto del doccia, lasciando scorrere l’acqua; si è tolto i
vestiti – in realtà solo i pantaloni che aveva addosso – e poi si è sistemato
sotto il getto della dell’acqua.
Non se lo ricorda quanto ci è rimasto, perché s’è perso un
po’ per strada, per i soliti pensieri che definirli “profondi” o
“sconclusionati” dovrebbe essere il compito di qualcuno che li condivide.
Ma Kubota è solo.
Non c’è nessuno dentro casa a parte lui, non c’è chi
condivide a parte lui un qualsiasi pensiero e se anche lo esprime ad alta voce
– si è accorto di farlo ogni tanto, ha sentito che è naturale e accade di
frequente quando si va a vivere da soli il primo periodo – in risposta non
arriva nulla.
Il silenzio ingloba le parole, ghiotto di qualsiasi cosa lo
spezzi per il semplice e naturale ripristino che poi si attua.
Un paio di volte, una delle quali proprio quella sotto la
doccia, Kubota forse se l’è chiesto, come mai il silenzio alla fine torna
sempre.
Di sicuro c’era una teoria. Ma se l’è dimenticata.
Dopo quella doccia, Kubota ha letto il giornale tanto per informarsi di un mondo di cui tutto sommato non gli interessa granché, e alla fine ha deciso di mangiare qualcosa di solido e poi di vestirsi in maniera decente perché fare la spesa richiede di uscire vestito, e a fare la spesa è obbligato.
Perché, nonostante la cosa potrebbe non andargli
particolarmente a genio forse, è ancora umano abbastanza da aver bisogno di
nutrimento.
Alla fine ha messo la giacca, ha messo in tasca l’orologio
da taschino senza guardare l’ora, si è acceso una sigaretta ed è uscito; sul
pianerottolo Kubota ha incrociato i vicini – o meglio, la signora e suo figlio
– e ha detto “buongiorno” in risposta al cenno col capo di lei.
Si è mosso, ha sceso le scale, si è messo in strada; è
andato e tornato dal conbini, e poi si è ritrovato a guardare per aria e a
spiegarsi il perché dell’espressione stranita di lei.
Forse dire “buongiorno” alle sei del pomeriggio non era
sensato, effettivamente, anche se era stato involontario.
E dire che stavolta era davvero convinto di essere uscito
di mattina.
Ventidue, ventitre, ventiquattro…
Alla fin fine,
riconosce il giorno dalla notte solo guardando il cielo.
Trentasei, trentasette, trentotto…
L’orologio da taschino,
ogni tanto,
scandisce il suo tempo in quella casa.
Ma Kubota non ci fa mai caso.
Kubota non è mai stato un tipo particolarmente
superstizioso.
Dal momento che non crede in Dio, in Buddha o in qualsiasi
dottrina filosofica potrebbe scovare leggendo un libro in proposito, alla fine
ha fatto suo un solo: quello secondo cui non c’è nessuno “lassù” ha decidere
della sua vita al posto suo.
Ad un certo punto, giocando ai videogame, ha pensato che decisamente dubita che ci sia qualcuno che lo controlla con un joystick.
E questo è stato fondamentalmente il motivo per cui alla
fine molte cose hanno perso di importanza.
Non c’è nulla di particolarmente importante, o di giusto o
sbagliato: alla fine, per quello che lo riguarda, la maggior parte delle cose
dipendono dal suo giudizio personale, e tutte quelle che non vi rientrano è
semplicemente perché non lo sfiorano nemmeno.
Che la società vada in malora, che i giovani si uccidano
d’overdose, oppure che qualcuno in un vicolo uccida qualcun altro non è
comunque qualcosa che lui potrebbe cambiare.
Allora ha deciso che se non è influente per la città come
la città non è influente per lui, preoccuparsene troppo sarebbe davvero poco
utile; e così anche il futuro.
Chissà se domani respirerò.
Chissà se domani correrò perché sono in ritardo.
Chissà se domani Komiya entrerà di nuovo dicendo che “dovresti decisamente rispettare gli orari e non andare e venire come ti va, Kubota-san”.
Quando gli chiedono se non abbia preoccupazioni al mondo, Kubota spesso non risponde – non lo fa quasi mai davvero a prescindere dalla domanda, in realtà – e le poche volte che dice qualcosa cose come: «Sono troppo pigro.» e ne sorride, o con la sigaretta tra le labbra continua a giocare ai videogames.
Però, nonostante non sia superstizioso, Kubota quella
volta ha capito che qualcosa forse sarebbe andato diversamente.
Bah, più che capito forse se l’è solo chiesto per i primi dieci secondi, durante i quali è passato dal mondo dei sogni a quello reale.
Eppure non ha potuto farne a meno.
Una volta a Kubota è capitato di svegliarsi.
Non guardava il soffitto.
Era girato di lato, ed era mattina.
Il primo suono che ha sentito non è stato il silenzio; era
l’orologio che scoccava le otto e un minuto.
Quarantadue.
Quel giorno Kubota, chissà perché, ci ha pensato.
Quarantatre.
A quel gatto morto che ha visto.
Quarantaquattro.
Era un po’ che non ci pensava.
Quarantacinque.
Si è detto: “Ah”, niente di più.
Poi ne ha seppellito uno visto con Komiya.
Quarantasei.
Mentre tornava a casa, Kubota ha visto un altro gatto.
Uno che somigliava più ad un essere umano, e siccome lui
non è particolarmente affine a quella razza, ha esitato.
Lo ha guardato chiedendosi se non dovesse tirare dritto, e
basta.
Per un attimo, ha quasi mosso un passo in avanti: poi ha
sospirato, si è chinato, si è fatto passare un braccio di quel qualcuno intorno
alle spalle, ed è tornato a casa dicendosi che avrebbe dovuto smetterla di
raccogliere randagi per i vicoli.
Cinquanta.
Il rumore delle lancette era insolitamente fastidioso.
Kubota ha preso ormai l’abitudine di alzarsi la mattina, e
non ad orari improponibili – il suo massimo è attardarsi a ridosso di
mezzogiorno, ma accade raramente e solo quando un lavoro di Kou-san lo ha
tenuto particolarmente occupato fino a tardi.
Di solito a svegliarsi è sempre il primo – salvo forse quando
tocca a Tokito cucinare – e legge con calma il giornale che ormai ha preso a
controllare quotidianamente o almeno in maniera più regolare di prima; ogni
tanto, in attesa che Tokito si svegli, guarda il notiziario in tv, giusto per
avere una panoramica migliore dei fatti che smuovono la società.
Non fa mai colazione da solo, ma spesso beve il caffè
solubile quando l’altro ancora dorme, un po’ per abitudine e un po’ per passare
il tempo.
Spesso però capita che si metta ad ascoltare il silenzio, che regna ormai solo quando Tokito non è sveglio o in giro per casa.
La stanza che ora è vuota e tranquilla, e che era sempre stata così in passato, ora si riempie di suoni che se anche c’erano prima, non attiravano la sua attenzione – quelli artificiali dei videogames con musichette annesse, ad esempio.
E ad essi se ne aggiungono altri che prima erano
sconosciuti; il telefono che squilla per un lavoro, Kasai-san che ogni tanto
passa a trovarli, il modo in cui chiama Tokito con quel fare scherzoso da
vecchio zietto – ehi, Toki-bo! – e… la voce di Tokito.
Parla, ride, impreca, si annoia, si arrabbia, e poi ride
di nuovo, e si lamenta e continua a ripetere: “Kubo-chan”.
Lo ripete in continuazione, forse anche più di quanto
servirebbe, quel nome con cui nessuno l’ha mai chiamato.
La voce di Tokito ha preso il vizio – ma si può poi
chiamare vizio? – di riempire la stanza, il silenzio e il tempo; Kubota ha
messo via l’orologio da taschino, ma quando Tokito dorme gli sembra di sentire
il ticchettio leggero dell’oggetto, anche se si trova in un’altra stanza.
Quando ci ripensa sorride, e torna a leggere
il giornale.
Quell’orologio si sarà sicuramente fermato, durante la pausa impercettibile fra il sessantesimo secondo e lo scoccare il nuovo minuto.
«’giorno…» è il borbottio che gli arriva all’orecchio, e poco dopo la fronte di Tokito è contro la sua spalla; probabilmente mentre lui sbadiglia, ancora troppo in coma per dire o fare qualcosa di diverso prima dei prossimi cinque minuti.
«Buongiorno.» è la replica che gli rivolge Kubota,
tornando con lo sguardo sul giornale; dopo qualche minuto lo sente alzare la
fronte: «Kubo-chan, caffè…» chiede implicitamente di averne uno anche lui,
mentre posa le braccia sulle spalle del coinquilino con fare casuale – di
questo Kubota ne è praticamente certo.
«Va bene.» gli concede, alzandosi e rivolgendogli un sorrisetto, abbandonando il giornale ripiegato sul divano: «E’ il mio turno in cucina per colazione, giusto?» fa retoricamente, l’altro che pronuncia qualcosa con fare entusiasta che fa incurvare le labbra di Makoto con naturalezza, anche se Tokito non se ne accorge.
Kubota ha preso l’abitudine di osservare Tokito mentre fa
colazione.
Lo dissimula con facilità, ma lo fa sempre.
Lo osserva ogni volta che può, spesso anche per lunghi
periodi di tempo e principalmente quando Tokito è troppo preso dai videogame a
cui sta giocando per accorgersene.
Kubota gli siede alle spalle, sul divano, e lo osserva.
Osserva la causa quello che lo ha scombussolato la mattina
in cui si è svegliato alle otto e un minuto; pensa di aver trovato la risposta a quella sensazione di
qualcosa di diverso dal solito.
Kubota ha sempre avuto un debole per gli animali, perché probabilmente preferiva considerarsi tale anche lui: senza lasciarsi influenzare dalle questioni degli esseri umani, uomini o donne che fossero, non era importante che si svegliasse la mattina, vivesse nel pomeriggio e andasse a dormire la notte.
Non era importante quando mangiava, o se il suo fuso
orario era completamente opposto al resto della città.
Poi ha trovato un gatto che aveva bisogno di cure, che
doveva essere nutrito e ha dovuto aggiustare i propri ritmi di vita perché fra
i due – che gli piacesse o meno – era lui quello più umano.
O meno animale.
O più autosufficiente, forse.
Kubota ora vive con un coinquilino da un anno ormai.
E qualcuno gli ha detto sottilmente che c’è qualcosa di malato,
quasi, in come si comporta verso di lui – in ogni caso… se dovessi di nuovo
affezionarmi a qualcuno, starò attenta a non diventare come te! – qualcosa
che somiglia alla dipendenza.
Ironico, parlare di dipendenza dalla droga, o no?
Kubota ogni tanto tende l’orecchio.
Quando Tokito si sveglia, prima che la sua voce riempia la
stanza, è quasi certo di sentire la lancetta di un orologio diverso da quello
da taschino.
È quasi certo che, se lo guardasse, segnerebbe le otto e
un minuto.
Cinquantanove,
sessanta.
Pausa.
«Kubo-chan!»
Forse la
vita non è così male.
Uno…