Voglio delle rose bianche
Voglio delle rose bianche.
Sono le mie preferite.
Sono giorni che aspetto, che
attendo l'arrivo del momento più opportuno.
Può
sembrare cosa da poco, ma in una casa piena di gente come la mia...beh...è
tutto il contrario.
Ora
finalmente è arrivato il momento.
L'ultimo
è uscito pochi minuti fa, con la solita procedura che ci distingue da sempre.
Mi ha detto che andava, mi ha salutato, ha aperto la porta ed ha sceso le
scale. Io mi sono seduta, già consapevole di come sarebbero andate le cose.
Infatti, pochi attimi dopo ho sentito gli stessi passi avvicinarsi e la
maniglia della porta abbassarsi per la terza volta. Ha detto di aver
dimenticato le chiavi e se n'è andato...di nuovo. Se non fossi stata in totale
stato catatonico mi sarei messa a ridere.
Le
dimentica sempre, le chiavi.
Il
motore si accende, il portone si chiude, l'auto riparte. Sono le 21.05 e
finalmente sono sola.
Ora
finalmente è arrivato il momento.
Posso
agire in totale tranquillità. Ho preparato una scaletta a mente e ho tutto il
tempo di seguirla, punto per punto. Dopotutto non ero io quella che diceva 'Le
cose o si fanno bene o non si fanno'? Allora che razza di persona sarei se non
mi attenessi ai miei stessi principi? Una stronza presuntuosa, probabilmente.
Basta
pensare, non è il momento. Dunque, la scaletta.
Punto
primo: cambiarsi.
Vado
in camera, accendo la luce e tiro le tende. Ci mancherebbe solo che qualcuno mi
vedesse dalla strada... Apro l'aramdio e dò un'occhiata ai vestiti: pantaloni,
camice, maglie a collo alto, gonne lunghe sino al pavimento e una sfilza di
corsetti. Tutto rigorosamente in nero o altri colori scuri.
All'inizio
avevo pensato di comprare qualcosa di bianco per l'occasione, ma ho cambiato
idea quasi subito...sono già pallida di mio, col bianco faccio impressione.
Non
indugio più di qualche secondo sul vestiario, ho avuto mesi, anni di tempo per
decidere cosa indossare e di certo non cambierò idea adesso. Pantaloni neri,
corsetto e cappotto nero. E' un avvenimento importante e voglio indossare
quello che mi distingue, non quello che mi nasconde.
Detto
da me sembra quasi una barzelletta. Io che ho sempre avuto il ruolo della
piccola, fragile ragazzina, io che non ho mai amato gli occhi della gente
puntati addosso, io che tutta la vita ho desiderato di poter sparire, una volta
tanto voglio vestire quello che mi piace solo per distinguermi.
E'
in questi momenti che mi accorgo di non essere normale.
Prima
di cominciare a svestirmi accendo il computer e alzo il volume al massimo. Punto
secondo: ascoltre qualcosa di suggestivo.
Infilo
i pantaloni e prendo il corsetto, l'ultimo che ho comprato. Lo indosso senza
alcun problema e sento la rigidità delle stecche premere sul ventre e sui
fianchi. Infine metto gli stivaletti neri borchiati. Tutto con in sottofondo la
canzone dei Gotan Project che preferisco, Santa Maria (del Buen Ayre), un tango
in versione 'moderna'.
Mi
avvio verso il bagno immaginando i passi di quel ballo tanto passionale che ho
sempre amato. Il pensiero triste che si balla...
Mi
posiziono davanti allo specchio e vedo che il nastro che stringe il corsetto è
decisamente troppo lungo. Decido di sciogliere il fiocco e avvolgo la sottile
striscia di raso intorno alla vita. Mi guardo di nuovo e decreto che il tessuto
blu scuro decorato con piccoli ricami mi sta abbastanza bene.
La
canzone finisce e parte la prossima. Io intanto
comincio con l'ennesimo punto. Punto terzo: ultimi ritocchi.
Prendo
l'eyeliner e lo metto intorno agli occhi, poi passo all'ombretto e mi metto a
canticchiare Lovesongs dei Cinema Bizarre, che in questo momento riempie ogni
angolo della casa. Quando finisco fisso ancora un po' la mia immagine, mi
concentro sugli occhi. Va bene, per questa volta me lo concedo: sono bella.
Le
ultime note si affievoliscono, spengo tutto e mi posiziono davanti ad un foglio
bianco, con le parole che ancora mi riempiono la testa. Prendo la penna e
scarabocchio una o due frasi. Rileggo e sì, avevo ragione, sono proprio messe
in croce. Piego il foglio e lo infilo in tasca, e già che ci sono mi maledico
perchè non ho fatto uscire quello che mi riempie il cuore.
Infine
mi preparo ad attuare l'ultim fase della tabella.
Punto
quarto: agire.
Entro
in cucina, dove si lasciano sempre borse, pacchetti e altro, e prendo quello
che mi serve.
Mi
accerto che tutte le luci siano spente, esco in veranda e chiudo la porta a
chiave. Scendo le scale con attenzione, il ghiaccio si è riformato e sono di
nuovo scivolose. Appoggio la mano al muro e ne avverto le increspature sul
palmo, contemporaneamente penso al tessuto liscio delle lenzuola. Ok, non
centra niente...ma sono solo dettagli! Per opera dello Spirito Santo raggiungo
la 'terra ferma' deltutto incolume, cosa realmente miracolosa considerando la
mia quasi totale mancanza di equilibrio, e dopo aver fatto un piccolo
ringraziamento a mente, m'incammino.
Mentre
passeggio e lascio delle impronte nella neve, una lacrima lascia la sua
impronta sulla mia guancia. L'ennesima. E di nuovo prometto che questa sarà
l'ultima, che anche il tempo del 'si piange a casa da soli' è giunto al
tramonto.
Raggiungo
il giardino sul retro della casa e ringrazio che sia così grande. Le luci al
lato della strada avrebbero rovinato l'atmosfera, invece in questo modo sono al
buio.
Ho
sempre amato il buio. Solo lì posso stare in pace e pensare a cose che mi fanno
stare bene. E' come vivere un sogno ad occhi aperti.
Mi
posiziono al centro del prato e riprendo a fare quello che ho fatto negli
ultimi undici anni. Sto ferma, fisso il vuoto che ho di fronte e penso. Questa
volta però più che pensare mi rimprovero, per il mio egoismo, per le
stupidaggini, per mancanza di tentativi e per l'assenza di spiegazioni. In
silenzio.
Il
silenzio è sempre stata la mia lingua.
L'unica
con cui ho sempre saputo esprimermi. In silenzio ho pianto, in silenzio ho
riso, in silenzio ho urlato dalla disperazione, in silenzio sono esistita.
Anche dopo che la situazione si è un po' radrizzata, dopo che ho cominciato ad
aprirmi con gli altri...ho sempre avuto dei problemi nell'esprimermi.
Il
silenzio è la mia lingua madre.
Si
alza il vento e il freddo mi penetra nelle ossa. Spero che raggiunga anche il
cuore, che lo congeli completamente e che lo anestetizzi. Purtroppo non
succede. Sapevo che che non sarebbe successo, ma ho comunque sperato che
accadesse. Il dolore continua, il peso aumenta e la voragine si espande. Mi
sorprendo ancora se penso che ho resistito così per undici anni.
Ma
ora basta pensare, è il momento del quarto punto, è il momento di agire.
Sbottono
il cappotto e il freddo mi investe di nuovo. Sento la mano pesante, ma riesco
lo stesso a sollevarla. La luna colora la pelle di quel bianco non meglio
identificato e le stelle fanno scintillare la lama che ho puntato contro lo
stomaco.
Per
trovare il coraggio ripenso alle urla, agli sguardi, ai gesti, alle parole
pronunciate, a quelle morte in gola che mi hanno ucciso ogni giorno di più.
Ripenso alle volte in cui ho voluto passeggare nell'oscurità da sola, alle
volte in cui ho deciso di scappare, a quelle in cui ho desiderato di trovarmi
altrove. Ripenso alla sola cosa che mi ricordava che ero viva, la tristezza. Mi
concentro sulla pace che mi aspetta. La tanto agoniata pace.
Sono
pronta, sono pronta...
La
mano trema e io...io mi do della stupida. Sono undici anni che non conservo
altro che brutti ricordi, undici anni che soffro senza che nessuno se ne
sccorga e sono ben tre anni che programmo questo cavolo di suicidio. E per
l'ennesima volta non ho il coraggio di andare fino in fondo.
Ho
paura, ecco il motivo. Ho paura di morire e di scoprire che proprio il giorno
dopo tutto sarebbe diventato perfetto. La stupida speranza che tutti migliori
definitivamente non accenna a soccombere. Mi viene da piangere, le lacrime si
affacciano e cercano di superare il confine che ho loro imposto.
Ma
nello stesso istante in cui le ricaccio indietro inizia a nevicare.
E'
tutto quello di cui ho bisogno.
La
presa si fa salda, premo la punta della lama sulla pelle e affondo.
Credevo
sarebbe stato più difficile.
Resto
piegata in avanti per qualche secondo assaporando la sensazione del metallo
nello stomaco e il gusto del sangue che mi dipinge le labbra. Sapendo che solo
questo non basterà, estraggo il coltello e permetto al liquido scarlato di
fuoriuscire, come desidera.
Cado
sulle ginocchia, poi sul fianco e riesco a stendermi sulla schiena. Sento le
forze abbandonarmi e un piccolo sorriso nasce sulle labbra. Finalmente me ne
andrò da tutto questo casino.
All'improviso
sento una macchina frenare, delle voci e qualcuno che dopo poco scavalca il
cancello. Le voci mi chiamano, i passi risuonano sulla neve fresca e delle
figure si avvicinano.
Allora
ricordo. E' il 31 gennaio, dovevo andare ad una festa...la mia veramente...oggi
compio 16 anni.
Con
le ultime forze che mi rimangono stringo tra le dita la piccola bara appesa al
bracciale e mi impongo di continuare a sorridere.
La
luna e le stelle sono nascoste e io lascio tutto e tutti così, circondata
da petali rosso sangue e lacrime gelate,
il foglio piegato in tasca e le parole della canzone che riempiono la testa.
This place is a mess
The one has gone...
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Mi
posiziono davanti ad un foglio bianco, con le parole che ancora mi riempiono la
testa. Prendo la penna e scarabocchio una o due frasi.
Questa non è una morte.
E' la fine di un'esistenza.
Ultime disposizioni per il funerale.
Sepellitemi coi vestiti che ho addosso e
poi...
Voglio delle rose bianche.
Sono le mie preferite.
Ciao
P.S. Sono un bel cadavere, vero?