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Autore: _Ellie_    13/08/2010    3 recensioni
Gustav entrò divorando la distanza tra la porta e i divanetti con grandi falcate e imprecazioni del tipo più colorito, bloccandosi a poca distanza da Bill e Dorcas, quest’ultima che sembrava evitare il suo sguardo con una notevole dose di determinazione. Gustav ignorò lo sguardo infastidito di Bill per concentrarsi sulla sua tecnica del suono.
«Ho bisogno di te, Schrëder. Ora.»
A dispetto del tono pacato e dal contenuto della frase, c’era un che d’imperativo nel messaggio. [...] Il silenzio calò come una cortina di velluto sulla stanza, spesso e rosso. Spesso per la tensione che saturava l’aria, si ritrovò a pensare Bill, trattenendo il fiato per non perdersi un solo sguardo, un solo gesto. Gli piacevano quei due insieme.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gustav Schäfer, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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'I won't give up
I'm possessed by her
Break this bittersweet spell on me
lost in the arms of destiny
I'm wearing a cross
she's turning to my good.'

 

             «Ohddiotipregono. Non di nuovo. Non questa musica straziante.»

C’era un motivo per cui le chilometriche ciglia di Bill Kaulitz si erano erse in uno sguardo di pura indignazione. Odiava essere rattristato di prima mattina, e la canzone ‘Bittersweet’ puntualmente rientrava in quel vasto rango di cose che lo rattristavano. Oltre al metal sinfonico, Bill odiava la cipria compatta che si rompeva, la pioggia che gli rovinava i capelli e le truccatrici distratte che truccavano i suoi magnifici occhi come se fossero quelli di un panda.

Ma il metal sinfonico, o qualsiasi cosa implicasse urli strazianti e violini e uomini virili dalla voce profondamente disperata, gli dava veramente, ma veramente fastidio.

Il fidato gemello non contribuì affatto alla conversazione, preferendo auto confinarsi in uno stolido silenzio. Sguardo vacuo e succo di frutta in mano, i due neuroni che giocavano a nascondino nel suo cervello, decisamente bravi a nascondersi.

Bill pensò bene di rivolgersi all’unica altra forma di vita presente al momento nella stanza: Georg.

            «Hagen, ti prego, fa qualcosa. Qualsiasi cosa, basta che non si permetta più a Gustav di ascoltare musica del genere di prima mattina.»

Georg preferì stropicciarsi gli occhi, prendere il primo pretzel che gli capitò sottomano e uscire senza troppe parole dalla stanza, seguito a ruota da Tom.

Pochi minuti dopo la musica cessò.

 

Bill si accoccolò meglio nella poltrona, rallegrandosi per il suo successo.  Salvo poi sentire il gelido silenzio della stanza penetrargli nelle ossa. Piuttosto che concentrarsi sul sentimento che gli agitava lo stomaco – qualcosa stranamente simile al senso di colpa – afferrò la prima rivista che gli capitò sottomano e si dedicò alle sfilate di Madrid.

Ma quel freddo rimaneva, strano e appiccicoso, il sapore del trionfo che si trasformava in qualcosa di acido in bocca, proprio là, sotto la lingua.

Si rese conto di aver bisogno di una scusa, di una qualsiasi scusa, per non dover dare troppo peso a quello che aveva fatto. Era stato un po’ acido, ma quello era sempre stato così, tutte le mattine un capriccio da togliersi.

 

La porta che si apriva lo distrasse da se stesso. Aspettandosi un Gustav rannuvolato, fu piuttosto sorpreso dal veder arrivare la tecnica del suono di quest’ultimo, Dorcas. Era splendida quel mattino, nella misura in cui può essere splendida una ragazza dai rasta bianchi, afflitta dall’insonnia e dall’iperattività, un braccio completamente tatuato e i vestiti una via di mezzo tra l’hippy e il metal con qualche trina e merletto di troppo. Era splendida, almeno secondo Bill, ma gli occhi blu erano opachi per la mancanza di sonno, e il viola delle occhiaie le donava in un modo malsano.

            «Hai dormito almeno stanotte, Dodò?»

La ragazza storse il naso al sentire il soprannome, senza prendersela più di troppo. Il suo impiego non sarebbe durato tutti quegli anni se incluso nel pacchetto non ci fosse stato anche il frontman dei Tokio Hotel, oltre che il batterista.

            «No, Bill. Non più del solito da quando siamo arrivati in Europa. Il che fanno due ore e mezza a notte.»

            «Mi chiedo come fai a tirare avanti poi per tutto il resto della giornata. Non credo di averti mai visto schiacciare un pisolino neppure nei viaggi in tourbus.»

            «Non mi puoi vedere perché quello che dorme in bus sei tu, Kaulitz.» Sorrise lei, afferrando ciò che rimaneva della colazione della band. Bill le rispose a sua volta, osservando come il silenzio, da quando lei era entrata nella stanza, era meno minaccioso. Stava quasi per intavolare la prima conversazione amichevole della giornata quando la porta, lasciata socchiusa dall’uscita di Georg, si spalancò. Gustav entrò divorando la distanza tra la porta e i divanetti con grandi falcate e imprecazioni del tipo più colorito, bloccandosi a poca distanza da Bill e Dorcas, quest’ultima che sembrava evitare il suo sguardo con una notevole dose di determinazione. Gustav ignorò lo sguardo infastidito di Bill per concentrarsi sulla sua tecnica del suono. Mani sui fianchi, felpa sportiva e jeans generosamente concessi al rigore dell’inverno svedese, la sua espressione rilassata contrastava con il livore dello sguardo, mentre sembrava perforare la tensione che aleggiava nell’aria tra lui e Dorcas.

            «Ho bisogno di te, Schrëder. Ora.»

 

I felt a little fear upon my back
He said "Don't look back, just keep on walking."
When the big black horse said, "Look this way, will you marry me?"

I said no, you're not the one for me

 

A dispetto del tono pacato e dal contenuto della frase, c’era un che d’imperativo nel messaggio. Chiunque conosceva l‘ora’ di Gustav: non era capriccioso come quello di Bill, non era infantile come Tom, non era indifferente come Georg. Se Gustav diceva ‘ora’, ora doveva essere, perché qualcosa d’importante era in ballo.

Ma era anche vero che della crew Dorcas era la più coriacea, capace di resistere ai ‘Quattro dell’Apocalisse’ anche in dosi elevate. Quindi si limitò a un semplice sguardo obliquo, continuando a sgranocchiare imperterrita.

            «Magari se glielo chiedi per favore…» Bill si nascose parzialmente dietro la rivista, primo, perché voleva sembrare del tutto indifferente, secondo perché voleva evitare lo sguardo infuriato di Gustav. Quest’ultimo, capendo che la sua tecnica del suono preferita, il suo braccio destro, conoscitrice di tutti i punti deboli delle sue batterie, avesse bisogno di essere smossa con metodi più raffinati, tese le mani verso di lei.

            «Avrei bisogno che mi fasciassi le dita con le garze, di nuovo. Al contrario di quelle del medico, le tue mi proteggono veramente dita. E, come puoi vedere, in questo momento ho i calli in condizioni pietose.»

Tre frasi complete di prima mattina? Decisamente il ragazzo si era superato, si ritrovò a pensare Bill. E il tutto in onore di Dorcas. Wow.

Riluttante, la ragazza si alzò con un gran frusciare di gonne, prendendo le mani di Gustav tra le sue, più piccole e cariche di anelli. Il silenzio calò come una cortina di velluto sulla stanza, spesso e rosso. Spesso per la tensione che saturava l’aria, si ritrovò a pensare Bill, trattenendo il fiato per non perdersi un solo sguardo, un solo gesto. Gli piacevano quei due insieme.

 

You got me wrapped around your little finger
If this is Love, it's everything i hoped it would be
You got me wrapped around your little finger
If this is Love, It's everything that i've been dreaming of

 

Gli piaceva come Gustav scrutava ogni minimo particolare di Dorcas, dal viso dalla sciarpa drappeggiata sul collo bianco. Gli piaceva come lei subisse quest’attenzione rifiutandosi di ricambiare lo sguardo, volteggiando sul palmo delle sue dita alla ricerca del miglior modo per prendersi cura di lui. Bill sapeva che lei avrebbe stretto le bende un po’ più del dovuto, e sapeva anche che lui avrebbe accettato senza fiatare. Rosso per la tensione che c’era tra i due, di quella che crepita tra un uomo e una donna che lavorano gomito a gomito la maggior parte della giornata, che devono il proprio successo l’uno all’altra, che si conoscono meglio di quanto si possa credere e che, a fine giornata, si sento frustrati da quella pacca sulla spalla che sarebbe potuto essere qualcosa di più.

Sì, Bill sapeva benissimo cosa stava succedendo, e così più o meno chiunque del loro piccolo mondo. Tom era d’accordo, Georg non vedeva l’ora, i produttori preferivano ignorare.

Senza smettere di tastare le mani di Gustav, continuando a non guardarlo con rabbiosa dedizione, Dorcas si rivolse a Bill, in un tono apparentemente svagato.

            «Kaulitz, prenderesti delle bende? Björk saprà dartene un rotolo.»

Trasmissione sottotitolata per chiunque fosse in ascolto: ‘fuori dalle palle, abbiamo litigato e dobbiamo discuterne.’

Bill preferì obbedire senza protestare, rattristato dall’idea di perdersi lo spettacolo ma consapevole che un Gustav che ringhia non è pericoloso tanto quanto una Dorcas cortese.

Quando la porta si chiuse alle spalle di un cantante particolarmente solerte, il tocco della ragazza si trasformò in una stretta ferrea, gli occhi blu che lampeggiavano finalmente in contatto con quelli di Gustav.

            «Non sfogare la tua cazzo di aggressività nei confronti di nessuno, Schäfer.»

            «E tu non fare la fottuta supereroina insensibile, Schröder.»

Dorcas sentì l’aria vicino alle sue guance ribollire a temperature sconosciute alla scala Celsius, mentre quei dannatissimi occhi castani la scrutavano con un’intensità fin troppo consapevole di quello che vi avrebbero trovato.

            «Cosa era, questa volta? Il braccio? O l’insonnia pura e dura?»

Lei masticò un’imprecazione o due, ma senza dargli la soddisfazione d’insultarlo apertamente, preferendo scostarsi da lui bruscamente. Se non fosse stato per il fatto che ora era lui, quello che la teneva stretta.

            «L’insonnia. Non dormo, e no, Gustav, non prenderò medicine. Sai che le odio.»

Lui sembrò per un attimo ancora discretamente irritato, l’espressione crucciata spazzata via dall’uso del nome proprio da parte di lei. Una tacita ammissione di debolezza, lo avvertì il suo sguardo severo, solo perché lui sapeva troppe cose sul suo conto per potergliene nascondere altre.

            «Non puoi continuare a fare questi orari, sono ormai tre giorni che ti riporto in camera stremata.» Troncò la frase in una maniera sospetta, consapevole di stare per dire a voce alta un segreto che entrambi condividevano come un peccato capitale, e che Dorcas non si sarebbe lasciata sfuggire neppure sotto tortura.

Era difficile decidere se odiarla o provare un’infinita tenerezza per lei, in quei momenti. Lei e la sua piega amara delle labbra, il mento morbido e gli occhi troppo grandi per quel visetto.

Occhi che si contrassero in un’espressione che prometteva guerra.

            «Ah, ora ti da fastidio? Non sembravi così scocciato, poi…»

Il suo sguardo scettico la indusse a sputare il resto della frase che cercava di trattenere a forza tra le labbra.

            «Poi, quando dopo due ore d’incubi prendevo il telefono, ti facevo uno squillo, e venivo in camera tua e trovavo la porta socchiusa, tu che facevi finta di dormire e metà del letto per me.»

Era stata tentata di interrompersi in vari punti critici nel corso della frase ma Dorcas era una ragazza decisa e sincera, odiava le agonie ma non sopportava le sue agonizzanti debolezze. Il punto finale sembrò risucchiare tutto l’ossigeno che le rimaneva nei polmoni, lasciandola sbigottita per come il silenzio distorceva il significato delle sue parole e come e cosa lui avrebbe potuto rispondere.

Il fatto che lui la guardasse con uno sguardo tranquillo e le tenesse le mani strettamente tra le sue sembrò aiutare i suoi nervi a calmarsi.

            «Non è mai stato un disturbo, non è mai stato niente di più che due amici che dormono insieme perfettamente vestiti e, soprattutto, è una cosa tra me e te.»

            «È stato solo per le date statunitensi. Non voglio disturbarti anche in Europa, non voglio pensare a cosa la gente penserebbe ‘se’, e non voglio dipendere dalla tua soporifera presenza.»

E voglio smetterla di sentire la parola ‘amica’ nella stessa frase dove c’è anche il mio nome, si ritrovò a pensare Dorcas. Gustav si limitò a sollevare un sopracciglio, facendole perdere un battito. O forse due. Spero solo di non svenirgli drammaticamente tra le braccia, si ritrovò a pregare con fervore. Ma una vocetta nella sua testa le fece notare quanto, in realtà le sarebbe piaciuto sentirsi stringere forte, respirare quel profumo di ‘felpa-del-suo-batterista’, e perdere ancora di più i sensi.

            «Grazie per il complimento, Dorcas, è bello essere considerati ‘soporiferi’.» Nella sua bocca, il suo nome sembra molto più imbarazzante di uno svenevole soprannome quale Dodò. Cercò di mascherare il suo imbarazzo con un sorrisino malizioso, cui Gustav rispose con una scrollata di spalle e un sorriso così luminoso da indurla a chiedersi se primo, fosse legale, secondo, cosa dovesse aver fatto una notte di parecchi anni fa Mamma Schäfer per produrre siffatto pargolo, terzo, se il suo cuore avesse retto o, senza accorgersene, le porte del Paradiso le si stavano spalancando davanti. Sempre se di Paradiso si trattava. Con lui, anche il Purgatorio e l’Inferno sarebbero state roba da scampagnata estiva.

In ogni caso il silenzio che aleggiava nella sala, per l’ennesima volta, era talmente assordante da farle fischiare le orecchie.

 

Your […] eyes watching every move I make.
And that feeling of doubt, it's erased.

I'll never feel alone again with you by my side.
You're the one, and in you I confide.

 

 

 

 

Era una magnifica mattinata invernale, lì in Svezia, e Benjamin si sentiva rinvigorito dall’aria fredda e cristallina mentre sistemava gli ultimi preparativi prima ti partire alla volta della prossima tappa. Aveva dato direttive ai camion con le attrezzature e il palco, aiutato il catering con gli ordini, salutato Bill e Tom sul loro tourbus. Rimaneva solo da dare il via. Uscendo dalla hall dell’albergo, fu sorpreso di trovare Gustav con una sacca in mano e un sorrisetto soddisfatto.

            «Uno Schäfer allegro di prima mattina?» Chiese, con fare curioso. Il ragazzo gli rispose con un leggero scrollare di spalle.

            «Hai visto Dorcas, per caso? »

            «Certo, è sull’autobus con gli altri produttori.»

Benjamin, distratto dalle sue priorità, non fece caso né al tono compito della risposta né alla fretta di Gustav per andarsene. Con un ‘hummm’ svagato, si diresse verso la sua missione privata: salvare il tour e procacciarsi un caffè decente.

 

Jutta era preoccupata. Dorcas le aveva chiesto espressamente il favore di prepararle un qualcosa per rilassarsi, ma dopo aver compilato gli ordini per la cena di quella sera non aveva avuto modo di darle il thermos con il suo infuso di valeriana e camomilla silvestre, zuccherato con miele. Tutti quella mattina sembravano avere troppa fretta di partire, ma Jutta e il suo istinto materno non se la sentivano di deludere quella delizia di ragazza. Incredibilmente il cielo decise di mandarle un segno: Gustav Schäfer con un sorriso sulle labbra. Jutta era ormai giunta a una conclusione: dove era lui a pochi metri trovava lei e viceversa, e finora questa legge universale non aveva trovato eccezioni che tenessero.

            «Jutta?» Si limitò a chiedere lui, curioso, al suo saluto preoccupato.

             «Ti prego, consegna questo a Dorcas da parte mia, e dille che mi dispiace se non l’ho potuto preparare prima! A proposito, sai dov’è?»

            «Oh, sarà con quelli del palco, sai com’è, problemi di cavi.»

            «Certo, certo.»

 Rispose lei prima di scappare via, preoccupata all’idea delle torte salate che avrebbe dovuto preparare per tutti quella sera.

 

            «Gustavino?»

            «Bill.» Gustav sobbalzò sorpreso, un piede sulla soglia del tourbus suo e di Georg, sacca in spalla e thermos in mano.

            «Tranquillo, non voglio sapere dov’è Dorcas. Dille semplicemente che dopo può sgattaiolare sull’auto di Tom, l’ho già avvertito.»

Annuirono entrambi, consapevoli di avere un segreto e un’evidente tenerezza in comune per quel tappo di tecnico che si ritrovavano.

Bill inarcò il sopracciglio, allontanandosi fischiettando. Gustav si limitò a salire, chiedere la porta, salutare Georg al posto di guida con una pacca sulle spalle e salire i gradini a due a due, mentre il bus si metteva in moto.

Arrivato al secondo piano lanciò la sacca con gesto noncurante sul letto di Georg, poggiando poi il thermos sul tavolino di fronte a una Dorcas che, distratta, guardava fuori dal finestrino. Lei ricambiò il suo sguardo con una nota titubante negli occhi. Lui sorrise, cercando di rassicurarla.

            «Da parte di Jutta, con le sue scuse per il ritardo.» Il suo sorriso si allargò ancora di più nel sentire il sospiro di sollievo di lei, mentre le sue dita sottili afferravano con aria bramosa il tappo, osservando la sua gola bianca che deglutiva a grandi sorsate, le labbra rosse, rosse e con un piercing al centro del labbro inferiore, che luccicavano invitanti dopo aver bevuto.

Abbracciò il thermos come se fosse stata la sua unica ancora di salvezza in un mondo cattivo e impietoso, un gesto che provocava un istantaneo sussulto di tenerezza che a dura pena poteva essere soffocato. Ma che anche quella volta, lui riuscì a mascherare con la dovuta bravura, cercando di vedere realmente il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.

Sentì un sospiro rassegnato, poi il rumore di un oggetto che veniva spostato. Non sussultò quando delle dita iniziarono a sfarfallare delicatamente sulle sue mani fasciate, allentando qui e lì, massaggiando i polpastrelli stretti fino a quel momento in garze troppo strette. Gustav sentì come il suo sangue riprendeva a fluire normalmente, e fu con una fitta di rimpianto che vide la sagoma di Dorcas alzarsi. Forse scenderà a parlare con Georg, si ritrovò a pensare con una punta di gelosia ingiustificata. O forse si sarebbe limitata a stare lontana da lui tutto il tempo.

 

Fear is not afraid of you
But guilt's a language you can understand
I cannot explain to you
And anything I say or do
I hope the actions speak the words they can

 

Il sentire il tonfo delle sue scarpe sulla moquette del pavimento lo sorprese, ma in una maniera piacevole, come quando ascolti una canzone legata a ricordi importanti o un giorno che si prospettava pieno d’impegni si rivela una lunga giornata di riposo.

Non ci fu bisogno né di parole, né di sguardi. Era il loro segreto, il regno dell’azzardo, i movimenti calcolati e pieni di speranza di una partita a scacchi giocata su terreni pieni di trappole.  Entrambi sapevano cosa sarebbe successo, sapevano che nessuno di loro se ne sarebbe vantato con nessuno, sapevano che quell’angolo di silenzio era breve e fragile e dipendeva dall’abbassarsi della guardia di lei, permettendogli di proteggerla, almeno con il suo silenzio. Mentre la osservava raggomitolarsi sotto le coperte, perfettamente vestita, si chiese quanta distanza esatta di fosse tra la sua pelle e quella di lei. Peggio, si chiese perché non avessero già percorso quella distanza, e si rese conto che, se mai sarebbe successo, sarebbe stato una di quelle persone che possono dire di aver toccato il cielo con un dito.

 

Ma non era quello il giorno, si disse mentre si sedeva sulle coperte e accendeva l’I-Pod con un gesto distratto. Una cuffia su, l’altra a penzolare liberamente sul cuscino, osservò attentamente la sua tecnica del suo chiudere gli occhi con un gesto stanco e sollevato insieme. Era una via di mezzo tra un segnale e una richiesta, che Gustav accolse volentieri: alzò una mano e, con il tocco più delicato che gli fosse possibile, iniziò ad accarezzarle i capelli, indugiando tra un rasta e un ricciolo bianco. Un intenso odore di cannella lo avvolse in un bozzolo separato dalla realtà, ignorando la musica, i propri pensieri, il respiro tranquillo e leggero di lei che occasionalmente gli accarezzava la pelle, il rosso invitante delle labbra socchiuse.

Un sentimento di angoscia gli spalancò per un eterno secondo il petto, quando si rese conto che forse non avrebbe potuto chiedere di più per molti, molti lunghi giorni insonni.

Forse non ci sarebbe stato mai nulla e forse avrebbero fatto l’amore quella sera stessa, forse avrebbero aspettato di avere il coraggio di parlare a voce alta e forse non avrebbero fatto altro che continuare a rincorrersi per sempre, forse questo e forse quello, e forse un altro uomo, e forse la pazienza e la tenacia sarebbero state ricompensate solo da un ‘no’ colpevole, forse erano amici e forse erano l’uno la frustrazione dell’altra.

Non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva neppure se dovesse aspettarsi un qualcosa di reale da tutto questo casino che, al solo pensarci, lo faceva soffocare.

 

You've become a piece of me
Makes me sick to even think
Of mornings waking up alone
Searching for you in my sheets
Don't fade, away

 

Ma poi l’angoscia passò, come passava sempre. Bastava che lei continuasse a fare le fusa sotto le sue carezze, che si raggomitolasse più strettamente a lui, che strofinasse il naso contro la sua felpa.

Allora anche lui poteva chiudere gli occhi e, lasciandosi cullare dal rollio dell’autobus, riuscire a ripetersi che era meglio lasciar maturare le cose per l’ennesima volta, prima di addormentarsi con il viso immerso nei suoi capelli.

_#_

Dedicato a quella sera a St. James Park, al terzo lato del Duomo (con annesso McDonal vegetariano inesistente), a mille incoraggiamenti nonostante la mia autostima vacillante, a una di cui non mi sono dimenticata e che mi ha spiegato cosa c'è dietro una moneta da due centesimi, a quelli con cui non mi sento più e a quelli che vorrei sentire ma che continuo a pensare. Anche a quello che ho dimenticato, ma che comunque ci sono stati.

One-shot di rodaggio per riprendere in mano quei due masochisti, cercando di evitare frasi svenevoli e metafore mirabolanti, costituisce anche che un tentativo dedicato alla narrazione in terza persona.

A voi il giudizio.  E sappiate che ci tengo ad averlo, e anche parecchio.

P.S: Le canzoni sparse per la one-shot sono tanto di ispirazione quanto di riassunto, ma non so se per questo possa essere classificata come song-fic melensa. Fatemi sapere in caso.
In ordine di citazione:
'Bittersweet' Apocalyptica & Him & The Rasmus;
'The Black Horse & the Cherry Tree' K.T. Tunstall;
'You've got me wrapped around your little finger' Beth Rowley;
'Warmness on the soul' Avenged Sevenfold;
'In between' Linkin Park;
'This Love' The Veronicas;
   
 
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