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Autore: chaplin    14/08/2010    2 recensioni
“Ah, ovvio che mi mancano i bei tempi.”
1960. Una ragazza decide di scappare di casa insieme a tre amici verso la Germania, alla ricerca del valore della liberta' dai vincoli della famiglia e dell'adolescenza appena raggiunta. L'incontro con un giovane batterista cambiera' in parte la sua vita. In una notte del 1962, il bassista dei Beatles, James Paul McCartney, si sveglia da un incubo.
Il nuovo episodio - sebbene completamente indipendente dal precedente - della serie "Rubber Soul." del "The Beatles... Again."
Genere: Demenziale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: George Harrison, John Lennon , Paul McCartney , Quasi tutti, Ringo Starr
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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- Questa storia fa parte della serie 'Rubber Soul.'
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Mi svegliai con la testa che mi pesava come un macigno e un'insensata voglia di prosciutto.
Le cose apparivano davanti a me lentamente, iniziavo con il visualizzare i profili delineati dalla luce dei mobili, dei letti, poi i suoni. La risata cristallina della Barton raggiunse le mie orecchie, subito dopo udii delle urla.
Avevo i sensi sottosopra e mi sentivo come una persona che si sveglia dopo un coma: tutto sembrava in disordine.
Ho da sempre quel vago odio per il disordine e per le cose sporche, tutto dev'essere pulito e ordinato, la confusione fa girare la mia testa. Guy mi definiva una “maniaca dell'ordine”, ma non credo di essere proprio una “maniaca dell'ordine”, sono solo ordinata.
Tutto inizio' a diventare piu' chiaro e piu' nitido quando sentii qualcosa sbattere contro la mia fronte.
“Ahia!” esclamai, tenendomi subito la testa.
“Oh, la bella addormentata si e' svegliata!” disse qualcuno.
“Finalmente! Non poteva dormire a lungo...”
“Meg! … Buongiorno!”
Strofinai le dita sulle palpebre e mi accorsi ben presto di avere il naso di Guy a pochi centimetri di distanza da me.
“Gabriel Linderman.. se non ti allontani immediatamente da me, giuro che..” bofonchiai, ancora assonnata, senza riuscire a concludere la mia minaccia che tanto non avrei mai formulato.
“Va bene, Signorina Felicita! Si goda il mattino!” rispose lui, giocoso, saltando giu' dal letto.
“E' una cosi' bella giornata!” aggiunse Robby, spuntando dalle sue spalle come in uno stupido balletto di cabaret.
“Ciambelle?” E ci si metteva pure la Barton. Grandioso...
Scossi la testa e mi liberai con facilita' degli altri, alzandomi dal letto per vedere l'ora sull'orologio da polso che portavo sempre con me, posato sul comodino della camera. Quando la vista inizio' a diventare piu' nitida, capii che le lancette erano posizionate entrambe sul dodici. Era mezzogiorno in punto; ora altrettanto perfetta per svegliarsi non poteva esserci. Sbuffai, stizzita.
Guy e Robby si erano messi a giocare agli indiani. Non li ricordavo cosi' infantili, scossi la testa per non pensarci. Peccato che si erano posizionati proprio davanti all'armadio per fare lo sketch del “Toro Seduto mettere in ostaggio Viso Pallido Linderman, augh!” che spesso mi era capitato di vedere durante il soggiorno ad Amburgo, nei camerini, prima di un'esibizione di Robby Stardust, il mitico chitarrista di Kevin, il genio delle sei corde.
La Barton rideva di gusto sbriciolando con la ciambella un po' tutta la fodera del letto.
“Fate largo, devo vestirmi!” li sgridai, tentata dal prendere le mie ciabatte e lanciarle entrambe addosso a loro.
Robby si volto' verso di me con gli stessi occhi di un cane che implora pieta' e subito accorse Seamus, abbaiando gioioso, che si mise a pancia in su' davanti a me. Guy scoppio' a ridere.
Non ero tonta, le avevo capite le intenzioni di Rob e del suo amato Fido...
“Daaaai, puoi andarci dopo, al lavoro! Gioca con noi!” frigno' il genio delle sei corde, come un bambino.
“Poi non dovresti lavorare a sedici anni.” aggiunse Guy, facendosi all'improvviso serio.
Io proprio non potevo prendere Guy sul serio mentre aveva le guancie striate di rosso, le piume tra i capelli e le mani legate da due lacci di scarpe. Dovetti sforzarmi per non ridergli in faccia. Ma non avevo affatto voglia di ridere.
“Ehi, Guy ha ragione, sai?” intervenne l'altro. Seamus abbaio' in segno di sostegno al padrone.
“Vivo io la mia vita, non voi. Vivete la vostra di vita e ficcate un po' di meno il naso nei fatti altrui. Devo andare.” dissi, secca, senza neanche preoccuparmi di risultare troppo acida o meno. Spinsi Guy un po' di la' sotto i suoi occhi che mi scrutavano inespressivi, mi tolsi la cannottiera e i pantaloncini senza preoccuparmi di avere davanti due ragazzi e mi vestii in fretta, tagliando subito la corda.
Abitavo in un trilocale assieme ad una coppia di quarantenni molto gentili, signore e signora Wright, che mi avevano gentilmente offerto la loro casa; mi trattavano come loro figlia, non mi dicevano nemmeno di pagare l'affitto. Erano davvero fin troppo gentili per essere davvero delle persone: mi era venuto piu' volte da chiedere se fossero una coppia di marziani sterili che desiderava solo il mio sangue. Presto mi resi conto che era una prospettiva surreale e la abbandonai, lasciandomi accudire come una piccola bimba.
Sapevo che avevano avuto un figlio, Jacob. Non vollero rivelarmi che fine avesse fatto e io lo accettai.
In quei giorni erano in vacanza. Tanto meglio, non avrebbero avuto l'occasione di giudicare in anticipo i miei.. amici, si'.
Mi infilai le scarpe senza neanche allacciarle e scappai.
Lavoravo in un fast-food: pulivo il pavimento, i tavoli, lucidavo le finestre. Non facevo molto, a volte mi capitava di fare la cassiera. Ero la tuttofare part-time, il resto del tempo lo passavo in biblioteca a leggere. Questa mia routine – sveglia, lavoro, pausa pranzo, lavoro, altro lavoro fino alle quattro del pomeriggio, biblioteca, casa – stava per essere spezzata violentemente dalla presenza di Guy e Robby e non sapevo se mostrarmi felice di cio'. Mi ero fin troppo abituata a quella noiosa quotidianita', anche se era da mesi che rileggevo lo stesso libro.
Quel libro era “Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald. L'avevo preso in biblioteca un paio di mesi prima e me lo portavo ovunque, lo leggiucchiavo mentre mangiavo la mia solita pizza gratis procurata dal padre di Rob – persona cordiale e dall'animo umile, nonche' stravagante – sorseggiando una lattina di Coca. In quel momento lo tenevo all'interno della borsetta, rovinato e con la copertina rigida sulla via di staccarsi dalle pagine ingiallite, con una scritta in nero all'interno che indicava la scadenza. La scadenza era passata gia' da un po' di settimane ma non ci badavo. Neanche il signor Collins ci pensava; meglio di cosi'...
Non feci colazione, quel giorno. Tanto sarebbe stato inutile, era mezzogiorno, la mattina era passata da un bel pezzo, era quasi ora di pranzo. Non feci il mio solito salto dal padre di Rob ed entrai in fretta nel fast-food – l'insegna stava per cadere a pezzi ma nessuno ci faceva caso da ormai tanto tempo – facendo un gran baccano con la campanella (si scontrava con la porta ogni volta che entrava qualcuno) e appesi la felpa col cappuccio su un appendino accanto alla porta d'ingresso e, ignorando gli sguardi e le risatine di alcuni, andai a nascondermi dietro al bancone. Troppo tardi: Charlie era gia' li' a guardarmi, sprezzante, con le braccia incrociate.
Ah, il buon vecchio Charlie – che alla fine aveva solo due anni in piu' di me. Aveva diciott'anni e gia' stava a dirigere un ristorante, se cosi' si poteva chiamare quel posto.
Mi voltai lentamente verso di lui, sorridendo. “Ciao Charlie.” mormorai.
“Salve Meg.” rispose Charlie, alzando una delle sue due spesse sopracciglia. Era buffo quando faceva cosi'.
“Cavolo, non vorrai stare a fissarmi cosi' per sempre!” ribattei, vedendo che non aveva intenzione di smuoversi.
“Beh, solo una dipendente che arriva con due ore di ritardo puo' permettermelo.”
“Non fare il rompiballe, sai meglio di me che stai recitando!” gli dissi, scompigliandogli i capelli.
Al contatto con la mia mano, vidi il suo viso addolcirsi e le sue labbra tendersi in un enorme sorriso. “Uffa Meg! Non vuoi proprio lasciarmi essere coglione almeno per un giorno, eh?”
“No, visto che sei solo un cretino.” Feci una pausa. “Beh, piu' cretino che coglione, direi.”
Charlie sbuffo' di nuovo e afferro' lo straccio che stava poco distante dalla cassa. “Dai, ora arrivano i clienti.. Lo sai che vengono tutti verso l'ora di pranzo!” Poi si fermo' a riflettere tra se e se a voce alta. “Ora che ci penso.. e' inutile aprire la baracca alle dieci se non arriva nessuno!”
“E l'hai capito solo adesso?” lo canzonai, tirandogli un lieve schiaffetto sul braccio.
C'era poca gente, c'era qualche coppietta che mangiava un hamburger chiacchierando su svariati argomenti di cui non ero a conoscenza e alcuni depressi solitari che se ne stavano fermi a osservare la strada fuori dalla vetrina.
La campanella all'ingresso trillo' segnalando l'entrata di un nuovo cliente.
Ma quando vidi la faccia del nuovo arrivato ebbi un sussulto.
“Che ti prende Meg? Hai visto un fantasma?” mi chiese Charlie, sfiorandomi la spalla.
“Niente. Ospiti indesiderati.” risposi, tornando a lucidare la superficie del tavolo.
L'ospite indesiderato indossava una giacca larga e un grosso cappello che lo faceva sembrare un ladro, camminava a passo lento con una sigaretta accesa pendente dalle labbra e un paio di libri sotto braccio.

I miei occhi scivolarono automaticamente sul cartello alla destra della porta. Diceva: “Vietato fumare”.
Perfetto, nessuno glielo faceva notare al posto mio. Alzai gli occhi al cielo e mi sporsi dal tavolo.
“Ehi, non si fuma qua dentro.” lo ammonii. Avevo la voce tremante, non risultavo per niente minacciosa.
Lui sollevo' il viso per guardarmi in faccia e il cappello crollo' sul suo viso, coprendogli l'occhio destro. L'occhio sinistro si era aperto in maniera esagerata, mostrando con chiarezza il colore azzurro dell'iride.
“Oh, chiedo perdono..” mormoro', spegnendo la sigaretta contro il muro. Storsi la bocca: perfetto, dovevo pulire.
“E magari potresti anche non sporcare il muro, mentre metti via..”
Arrossi' con violenza e annui' senza dire niente, mordendosi il labbro inferiore. “S-scusa..”
“Che scena patetica..” commentai, in un borbottio. “Ora dimmi cosa cazzo ci fai qua.”
“... C-cosa?” chiese lui, liberando il labbro dalla morsa.
“Lo sai meglio di me! Avanti, chi ti ha detto che lavoro qua?” domandai, cercando di mantenere un tono arrabbiato. Forse funziono', poiche' lui inizio a balbettare frasi senza senso, sconnesse tra loro. Voleva mettermi pena? Trattenni una risata.
Chi ti ha detto che lavoro qua?” ripetei, stavolta a bassa voce.
“M-ma io..” degluti'. “Io volevo solo un hamburger.”
“Ovviamente. Avanti, che cazzo vuoi da me?” poi, scavalcando il tavolo, dissi, quasi involontariamente “Coglione..”
Forse mi senti' ma non ci diedi tanto peso, lo presi per il polso e lo trascinai fuori; lo portai nel retro del locale, dove non passava mai nessuno – c'erano solo alcuni gatti senza un tetto, quelle insopportabili creature randagie che ci capitava di vedere nelle cucine mentre rovistavano tra i sacchi di carne marcia. Passammo attraverso le cucine, ricambiai i vari saluti e mandai al fanculo alcuni dei soliti buffoni che cercavano di infastidirmi vedendomi passare.
Feci sbattere la porta della cucina e lo presi rapidamente per il colletto, prima che potesse dire altro.
Sembrava una scenetta comica. Quando lo tirai verso di me, stringendo le dita accanto al suo collo, lui alzo' subito le mani come un ladruncolo fallito. Non mi lasciai distrarre e mi decisi a sbrigare la faccenda.
“Ti consiglio di andartene prima che..” ci pensai su, presa dalla fretta. “P-prima che Charlie ti.. ti picchi!”
Charlie non era proprio il tipo da risse, pero' non avevo altre idee in mente, quindi sparai quella enorme cavolata con piu' sicurezza del previsto. Lui dapprima mi osservo' con la stessa faccia spaventata e intimidita di prima, poi notai che un lieve sorriso era comparso sulle sue labbra carnose. Strinsi la presa, irritata, ma lui sembro' quasi non accorgersene.
“Io sono stato coinvolto in molte risse. Allora, chi e' questo Charlie?”
Al mio cuore manco' un battito ma continuai la mia scenetta, anche se con la gola secca.
“Charlie.. Charlie e' o-occupato! Sai, occupato a fare altro.. E tu non sei alla sua altezza!” sbottai.
“Dev'essere davvero un tipo in gamba.. me lo presenti?”
Sembrava sincero nella sua volonta' di conoscerlo. Mi stava mettendo alle strette.
“T-ti ho detto che e' occupato!
“Ma non era o-occupato?”
Vaffanculo!
Fantastico! Vuol dire che possiamo cenare assieme, un giorno?”
Quel Ringhio, O' Rang, come cazzo si chiamava, mi stava prendendo in giro, mi pareva ovvio. Dovevo tirargli un pugno su quell'enorme naso che si ritrovava su quella brutta faccia da schiaffi, gettarlo dentro uno dei cassonetti della spazzatura e lasciarlo li' a marcire. L'avevo visto fare da un ragazzo che abitava accanto a me, piu' grande di me, quando avevo circa dieci o undici anni – se non sbaglio.
Ad un certo punto, non seppi cosa dire. Le parole caddero per terra e non potevo raccoglierle; se ne stavano li' ad osservarmi in silenzio.

Oliver Twist? Chi e' questo Oliver Twist?”
“Non conosci
Oliver Twist?! E' un romanzo di Dickens, cretino!”
Tirai una gomitata allo stomaco di Ritch che scoppio' a ridere, contorcendosi dal dolore.
“Si', scusa, ora mi viene in mente..” disse, asciugandosi le lacrime che erano uscite dal tanto ridere.
Sbuffai. La pioggia scendeva copiosa, fuori dalla finestra della camera. Mi divertivo a contare le gocce, quando non stavo leggendo i soliti libri – o non stavo leggendo un libro per bambini a Billy, aggrappato al mio vestito, in silenzio.
Ritchie stava seduto accanto a me, in procinto ad accendersi una sigaretta – probabilmente era un po' riluttante a fumare in presenza di una bambina di dieci anni, il che mi irritava molto. Mi sorrise e si volto' dall'altra parte.
“R
iiiiichaaaaard?” feci, come se stessi parlando al rallentatore.
“Siiiii?” rispose lui, con altrettanta velocita', scherzoso.
“Ma non ti e' mai venuto in mente che..” deglutii. “Insomma, non ti e' mai venuto in mente che non durera' per sempre?”
Ritch aggrotto' la fronte. “Cosa non durera' per sempre?”
“Sai no? Forse un giorno lasciero' la citta' per andare in Germania..” mi morsi il labbro. Non sapevo come esprimermi e Ritch mi guardava, incitandomi a parlare. “D-dopo quel viaggio, tu..
ci sarai ancora per me?
Seguirono alcuni secondi di silenzio, che venne interrotto da una fragorosa risata. Richard mi strinse a se – sentii le guancie che si riscaldavano pericolosamente – come per rassicurarmi di un timore. E quello era un timore, forse..
“Ma ovvio! Noi due staremo per sempre assieme! … non ti devi mica preoccupare per questo!”
“S-si', ma...”
“Niente ma! Pero' devi solo farmi una promessa!”
Lo guardai negli occhi, mentre i miei si erano gia' riempiti di lacrime. “Cosa?”
“Non mi devi dimenticare per nessun motivo, capito?” fece, tra l'ironico e l'intenerito. Mi asciugo' la guancia con il dito indice e mi abbraccio' un'altra volta, baciandomi delicatamente l'orecchio.
“V-va bene..” dissi, accoccolata tra le sue braccia.
Ai miei occhi appariva come un fratello maggiore di cui sentivo il bisogno. A volte lo odiavo terribilmente, mi trattava come se fossi una bimba dell'asilo dimenticandosi che avevo
dieci anni ed ero venti volte piu' responsabile di lui, che di anni ne aveva gia' sedici. Pero' gli volevo bene, era l'unico amico che avevo nelle vicinanze e nei momenti di sconforto c'era sempre lui, sotto la mia finestra, disposto a sorbirsi tutte le mie lamentele nei confronti delle ochette che mi prendevano in giro per il naso, le mie maledizioni rivolte alla scuola e ai miei insegnanti, tutte quelle futili chiacchiere che mi avrei potuto pure risparmiargli.
Ma lui mi ascoltava, anche se a volte usciva fuori con un teatrino per marionette e iniziava a farmi tutte le commediole da quattro soldi che piacevano solo ai marmocchietti con il moccio al naso.
“Tutti sul Sottomarino Giallo!” esclamava.
E io gli rispondevo: “Si', in direzione della Terra del Fanculizzati!”
Ci rimaneva male e passava il resto della giornata con le labbra all'infuori e lo sguardo perso. Mi dispiaceva per lui ma era colpa sua se continuava a sottovalutare la mia maturita', non mi avrebbe mai messo addosso il senso di colpa.
Ripensando a quei momenti, al pensiero che forse avrebbero avuto una fine, mi aggrappai alla camicia di Ritch con piu' forza. Sapevo di non volerlo perdere per nessun motivo: era la cosa piu' bella che Dio si fosse deciso di inviarmi, dopo tutte quelle sfighe che mi avevano colpita in soli miseri dieci anni di vita. E se quel benedetto Dio – che di sicuro mi odiava a morte – mi avesse tolto anche Ritch, i Shears, quel deficiente di Manchester che mi ostinavo a chiamare Guy...

Allora? Ceniamo assieme si' o no?”
Avevo le lacrime agli occhi quando capii che Richard era tornato. E quello che mi rese ancora piu' arrabbiata, confusa, felice, fu che non me n'ero resa conto. Coprii il mio viso dalla vergogna per la mia ignoranza, mentre tutto quello che mi era successo in quelle dodici ore inizio' a diventare piu' chiaro – la nebbia inizio' a svanire dalla mia mente, finalmente.
“Va tutto bene, Maggie?” chiese ancora, notando che ormai avevo staccato le mani da lui. Singhiozzavo.
“Si', va tutto bene!” risposi, brusca. “E ora vattene!!”
Il suo viso divenne improvvisamente triste; offeso, in un certo senso.
“S-spero di rivederti, allora..” disse, sottovoce. “Domani sera, magari..”
Non osai alzare lo sguardo su di lui, mentre si incamminava per allontanarsi da me. E io non sapevo cosa sentivo dentro di me, non capivo come mi sentivo. Ero solo confusa.

 

 

See Emily Play
Saro' breve, oggi, poiche' ho poco tempo e tra poco vado a cenare!
Mi scuso per il terribile ritardo ma non ho molto tempo (e molta voglia, tantomeno tanta ispirazione) per scrivere! ^^' Questo capitolo e' davvero orribile ma l'ho scritto davvero di fretta, non sapevo come scriverlo, a dire la verita'. Ringrazio tutte le persone che hanno recensito e tutti quelli che hanno letto! <3

P.s.: La partenza e' rimandata, quindi sto ancora con voi (per vostra sfortuna)! :D

  
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