Desclaimer: i personaggi di One Piece non sono miei, ma è tutto © di Eiichiro
Oda-sensei. Nonostante io mi chieda spesso che cosa
mangia per riuscire ad inventare cose del genere, purtroppo non possiedo nulla.
Attendo speranzosa Zoro o Ace come regalo di
compleanno, però ;D
Note: una bella
Alternative Universe, giusto per tornare alle vecchie
tradizioni.
Lo Yubikiri Genman è quella che in
Italia chiamiamo “promessa del mignolino”; è una
filastrocca che i bambini giapponesi canticchiano quando devono farsi una
promessa. Il testo è praticamente insensato in italiano.
Parecchie
altre note sono alla fine. Sono un po’ inutili ma danno un senso ad alcune
particolarità della narrazione ;D
Un
grazie enorme a CloudRibbon per il betaggio <3
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Yubikiri
Genman
~ a red
thread for our promise ~
Il fatto
che quel coso lo stesse inseguendo,
probabilmente con la ferma intenzione di fare di lui il suo aperitivo, forse –
ma forse, eh? – era una riprova che,
ogni tanto, poteva anche sforzarsi e stare a sentire quello che Nami diceva.
Cose del
tipo “la prossima volta che ti mangi la mia pagnotta te ne faccio andare di
traverso altre quaranta”, oppure “se metti di nuovo piede nel mio studio la
mappa dell’isola te la incido sulla pelle della schiena”; e ancora, come nel
caso in oggetto, “quell’atollo buio e cupo non mi dice nulla di buono”.
Beh,
doveva ammettere che le aveva dato ragione, quando quella roba aveva cominciato ad inseguirlo. E il fatto che umani, pur
sembrandolo, non lo fossero affatto cominciava a fargli pensare di essersi – di
nuovo – infangato in una discreta manica di guai.
« Shishishishishi! » ridacchiò divertito, correndo il più
velocemente possibile senza tuttavia guadagnare terreno: « beh, è pur sempre
un’avventura! » esclamò.
« COL
CAVOLO! » urlò Nami al suo fianco, impegnata con
tutta se stessa a fare le falcate più lunghe che poteva. Si era anche tolta le
scarpe – le zeppe non erano molto comode per correre – e nonostante il terreno
non fosse proprio del tutto regolare, la disperazione che albergava sul suo
volto rigato dalle lacrime le impediva di considerare un semplice sasso come un
impedimento considerevole alla fuga. « Possibile che la tua testa sia piena
solo di trucioli e segatura? Dov’eri tu quando Dio distribuiva il senso del
pericolo, in bagno?! » imprecò, provocando in Rufy
solamente una risata più marcata. « E NON RIDERE! » sbottò contrariata.
« Ma Nami! E’ divertente! » le rispose Rufy,
ignaro che la pazienza della navigatrice era andata per altri lidi sin dal
momento in cui lui stesso, allungando il suo dannato braccio di gomma, aveva
deciso di propria iniziativa di scendere dalla nave nonostante il brutto presentimento di metà della ciurma (tolto Usopp e il suo malore del non-posso-andare-su-quell’isola,
che ormai era una costante).
« Ti
attacco al pennone con la sparachiodi, poi vediamo se ti diverti ancora!
Deficiente! Chi me l’ha fatto far- » cominciò a brontolare, ma fu interrotta da
un “richiamo” fin troppo famigliare... e di sicuro non più rassicurante.
«
Nami-swaaaa~n!♥ » sentì da destra, e non ci volle molto perché Sanji si affiancasse a loro. « Ho sentito il tuo
inconfondibile e soave tono di voce dalla foresta! Stai bene? » domandò, quasi
saltellando al suo fianco al posto di correre.
« Dì, ti
sembra che vada tutto bene!? » sbottò lei in risposta, troppo impegnata a
salvare la pelle per prenderlo per il colletto della camicia e piantarlo di
testa nel tronco di un albero random. « Siamo
inseguiti da dei vampiri e mi chiedi
se va tutto bene!? » domandò di nuovo retoricamente, sull’orlo della più
completa disperazione.
Cappello
di Paglia, a quella sua reazione, ridacchiò di nuovo. « Ci penso io! » se ne
uscì poi, fermandosi di botto.
A loro
volta, anche il cuoco e Nami frenarono la corsa. « Si
può sapere cosa cavolo fai?! » gridarono entrambi all’unisono, adocchiando
all’istante svariate ombre nere avvicinarsi al loro capitano.
« Stai
attento, cretino! » « Se ti mordono è la fine! » urlarono Nami
e Sanji nello stesso istante, l’ultimo già pronto a
scattare con uno dei suoi calci.
Ma non
fu necessario.
Mentre Rufy caricava il braccio, sparandolo e aggrappandosi solo
lui sapeva dove, altre due ombre presero forma, distaccandosi dalla boscaglia.
Un luccichio, sibili di lame.
« Hanauta sanchou... »
si sentì la voce di Brook pronunciare: « ...yahazu giri! ».[1]
« Santoryu... » soffiò il tono profondo di Zoro: « ...oni giri! ».[1]
Nello
stesso momento, quasi tutti i vampiri che li seguivano finirono
irrimediabilmente colpiti dalle tre spade dello spadaccino e dal fioretto del
musicista. Caddero a terra con un rantolio... ma non fu sufficiente.
« Non ha
funzionato, non ha funzionato, non ha funzionato! » si agitò Nami, pallida.
Zoro, contrariato, sbuffò. « Mi sa
che non si possono tagliare i vampiri... » considerò, come se il fatto non fosse
nemmeno suo.
Sanji si sentì in dovere di attaccare
briga. « E allora pensaci prima, stupido marimo! ».
« Ripeti
un po’, sopracciglio a spirale? » ovviamente ringhiò Zoro.
«
TACETE! » si impose poi Nami, stampando le nocche
della sua mano destra direttamente sulle teste dei due litiganti.
« Yohohohoho! » cantilenò Brook, ma
la macabra battuta che sicuramente stava per pronunciare fu interrotta da Rufy, che aveva al contempo teso entrambe le sue braccia
fino al limite.
E Nami conosceva benissimo quella posizione, purtroppo.
«
Aggrappatevi! Gomu gomu no... ».
«
A-Aspetta Rufy! Non... » cercò inutilmente di dire,
ma fu afferrata da Sanji e trascinata via da quel
pazzo sconsiderato che tutti loro chiamavano “capitano”.
« ...Rocket! »[1] gridò e, lasciandosi
andare, presero il volo.
J:Com
ADSL rilevati problemi di connessione.
Errore
numero 637 il portale non risponde.
Disconnessione
avvenuta.
Osservò
la finestra di dialogo comparsa sullo schermo del computer come se fosse il
preludio di un disastro atomico su scala nazionale, oppure un avviso di allarme
tsunami appena rilasciato dalle autorità portuali del Chugoku.
« No.
No, no, no, no, no, no! » implorò sorpreso, provando subito a riconnettere il
notebook alla linea.
Niente
da fare. Linea morta. La lucina del modem che Ace gli aveva insegnato a
guardare nel caso ci fossero stati problemi di linea, e che in teoria doveva
rimanere fissa, lampeggiava ad intermittenza e pareva non avere la minima
intenzione di fermarsi.
Maledizione,
perché proprio in quel momento? Non
potevano prendere la linea, che ne sapeva, mentre era a scuola e magari non
irritare la gente impegnata in partite importantissime su altrettanto
fondamentali GDR on-line?
Beh,
stare lì a domandarselo non era salutare per il suo sistema nervoso. Inoltre,
nonostante non avesse sonno per niente al mondo, riconosceva che le due di
notte erano decisamente troppo per lui, dato che nemmeno cinque ore più tardi
si sarebbe dovuto svegliare per andare a scuola.
Borbottò
qualcosa di indistinto, spegnendo il computer con un broncio infantile. Alzandosi
dalla sedia con le ossa scricchiolanti, poi, andò a buttarsi sul letto poco
distante senza la minima grazia. Probabilmente Makino-san
non era nemmeno più giù in locanda, dunque non avrebbe disturbato nessuno con
il suo volo ad angelo sul materasso e con il conseguente cigolio della rete.
Non ci
volle molto perché il cellulare vibrasse sul comodino, producendo un sordo
suono legnoso. Rufy allungò svogliatamente la mano –
già consapevole di chi potesse essere – e facendo tintinnare il cellstrap a forma di teschio con un cappello di paglia lo
aprì, leggendo il mittente.
Zoro. Come si era aspettato.
Con un
tono fra il comprensivo e lo scherzoso, chiedeva se la linea si era finalmente
decisa a piantare capra e cavoli e a lasciarlo a piedi.
«
Divertente... » ironizzò Rufy, rispondendogli
velocemente un “sì” contrariato e chiedendo di porgere le sue scuse anche agli
altri.
Già se
lo sentiva Usopp la mattina dopo: “sei il capitano
per la miseria, non puoi sempre scomparire a metà partita!”.
Niente
di più vero, ma come doveva fare? Non è che la connessione Internet crescesse
sugli alberi, e lui non abitava in centro ad una metropoli!
Da
quando ne aveva memoria, quel villaggio fra le colline fuori Sakaiminato era sempre stato tutto ciò che aveva visto.
Almeno fino alla scuola superiore, che lì non c’era; dunque era stato costretto
ad andare nella scuola della vicina cittadina.
Non
odiava quel posto... o almeno, non lo detestava completamente. Era pur sempre
il paese dov’era nato e cresciuto, dove aveva tutti i ricordi dell’infanzia –
un po’ traumatici ma pur sempre ricordi – e dove aveva trascorso la maggior
parte della sua vita... ma sapeva di desiderare più di così.
Oramai,
tutti coloro che arrivavano integri al diploma prendevano il primo treno
disponibile e si trasferivano in città, oppure direttamente nella capitale. Lo
aveva fatto anche suo fratello Ace, tre anni prima, e dato che suo nonno non si
fidava a lasciarlo in casa da solo – prima condivideva una casetta proprio con
il fratello – aveva chiesto a Makino, la proprietaria
dell’unica locanda del villaggio, se lo poteva ospitare.
Ma
sarebbe stato solo fino al diploma. Voleva andarsene, magari... perché no?
Girare il mondo.
Come
palliativo per quel sogno momentaneamente rimandato, aveva trovato su internet
un GDR on-line basato sui pirati a cui si era subito appassionato: One Piece.
Narrava
la storia di Gold Roger, il Re dei Pirati, che prima
di essere giustiziato avrebbe rivelato alla folla sotto al patibolo di un
tesoro immenso, chiamato appunto “One Piece”, lasciato alla fine della Grand
Line, una linea marittima pericolosa solcata solo dai
navigatori più abili. Era cominciata così la grande era della pirateria.
Non
sapeva spiegare che cosa lo avesse attratto di quel gioco on-line, proprio lui
che non aveva mai dato troppa importanza a quel genere di divertimenti – era
più uno del tipo “vita all’aria aperta”. Forse l’idea di essere, anche se per
finta, un pirata, ovvero una delle figure storiche rappresentanti la libertà.
Può
darsi. Fatto stava che era bravo a giocarci; aveva una ciurma, una nave ed era
diventato anche famoso. Lo chiamavano “Cappello di Paglia” e sulla testa aveva
già una signora taglia.
Il
ciondolo che aveva attaccato al cellulare era il simbolo della sua Jolly Roger[2].
Ogni membro della sua ciurma ne aveva uno; ops, beh,
ogni player della sua ciurma.
Disteso sul letto, nel buio della stanza, gli venne da ridere. Solamente i
grilli all’esterno della finestra accompagnarono la sua risata con il loro
stridore assordante, puntualmente ignorato fino a quel momento ma ora più
fastidioso che mai.
Chiudendo
gli occhi in un sospiro si abbandonò ai tipici rumori notturni della campagna,
in testa solo un pensiero, un’idea strana che si era sviluppata fra una sinapsi
e l’altra sottoforma di domanda.
Perché
non si erano mai incontrati dal vivo, loro...?
La
campanella della locanda suonò rumorosamente quando si aprì la porta a vetri,
avvisando la proprietaria dell’entrata di un nuovo potenziale cliente.
Anche se
proprio di un cliente non si trattava.
«
Buongiorno Usopp, sempre puntuale ».
«
Buongiorno Makino-san » salutò cortesemente il
ragazzo, puntando poi gli occhi – e il lungo naso a seguire – verso il
soffitto. « Dorme ancora? » domandò, a giudicare dal tono solo come pura
formalità.
La
risposta a quella domanda la conoscevano entrambi anche senza bisogno di
formularla.
«
Sicuramente » sospirò infatti la donna, portandosi una ciocca di capelli dietro
le orecchie mentre lucidava il bancone di legno: « Sali pure, vedi di farlo
arrivare prima della campanella una volta ogni tanto » aggiunse sorridendo,
risparmiandosi di indicare al ragazzo la strada da percorrere per arrivare al
secondo piano.
Da parte
sua, Usopp annuì affranto. « Ne dubito, ma almeno ci
provo » rispose, togliendosi le scarpe ed infilandosi velocemente su per le
scale.
Non
conosceva Monkey D. Rufy da
molto, ma se glielo avessero chiesto avrebbe affermato con sicurezza che il
moro fosse il miglior amico che avesse mai avuto.
Certo,
era difficile stargli dietro a volte, soprattutto quando se ne usciva con delle
idee da carcere a vita... ma, con un (bel) po’ di pazienza e sopportazione, e
soprattutto con una spiccata capacità di adattamento, andare d’accordo con lui
non era affatto complicato.
Si erano
conosciuti in un modo strano, loro due. Erano diventati amici senza sapere
nulla l’uno dell’altro, tutto grazie ad un gioco on-line chiamato One Piece, a cui Usopp aveva cominciato a giocare solo per curiosità.
Poco
distante da Fuusha, il villaggio in cui abitava Rufy, vi era un secondo agglomerato urbano che contava la
bellezza di cinquemila abitanti scarsi: Shirop. Usopp era nato e viveva lì, e come Rufy
aveva avuto problemi organizzativi quando si era ritrovato a dover frequentare
le scuole superiori.
Motivo
per cui si era munito, a sua volta, di abbonamento per i mezzi pubblici e si
era iscritto alla scuola superiore di Sakaiminato. Al
contempo, appena prima di formalizzare l’iscrizione a scuola, si era registrato
su One Piece ed era
entrato a far parte della ciurma di Cappello di Paglia.
Dovettero
passare tre anni, prima che si accorgessero l’uno dell’altro. Soprattutto, che
si rendessero effettivamente conto del fatto che frequentavano la stessa scuola.
Da lì
era stata tutta discesa. Avevano caratteri che si amalgamavano bene l’uno con
l’altro; se uno cominciava qualsiasi cosa l’altro gli dava corda, se uno
saltava le lezioni l’altro faceva tutto il possibile per farlo a sua volta
(erano in classi diverse), se uno prendeva un brutto voto la stessa cosa
succedeva all’altro.
Molto
presto si era istaurata un’amicizia molto forte, che si era interrotta solo una
volta per una discussione di poco conto. Si era risolto tutto entro una
settimana, ma quel periodo sarebbe stato ricordato nell’infamia per quanto si
erano vicendevolmente ignorati.
A dirla
tutta, dopo due giorni Usopp era già pronto a fare
pace; ma l’orgoglio a dimensione 747 che si portava dietro dalla nascita non
glielo aveva permesso così facilmente.
Fortunatamente
però, anche grazie agli altri membri della ciurma, si era risolto tutto nel
migliore dei modi. Motivo per cui Usopp andava sempre
a svegliare Rufy, invece di arrivare puntuale e fare
bella figura con gli insegnanti.
« Ohi, Rufy! » chiamò aprendo la porta – bussare era una
particolare irrilevante quando si parlava del moro. Non c’era pericolo che
stesse facendo cose sconce, non aveva semplicemente il neurone adibito a quel
tipo di interessi.
Come
sempre, la risposta al suo richiamo fu un russare sommesso.
Usopp sospirò sconcertato. Si chiese,
come al solito, se la banda della scuola al completo posizionata in camera
sarebbe stata capace, oltre che demolire i muri e frantumare i vetri delle
finestre dell’intero stabile, di svegliarlo.
A mali
estremi...
« Rufy, Makino-san sta preparando
le frittelle » disse solamente, nemmeno impegnandosi, ma la parola “frittelle”
– che la mente di Monkey D. tradusse in modo grezzo
con un semplice “cibo” – fu sufficiente a dare la scintilla di vita alle
sinapsi dell’addormentato, catapultandolo nella realtà. « Con il miele o al
cioccolato? » fu la prima cosa che disse, osservando il nasone in un palese
dormiveglia in cui l’espressione più efficace che era capacitato a produrre era
quella di una lumaca. Ammesso e non concesso che la lumaca possieda effettivamente espressioni facciali di
sorta.
«
Buongiorno anche a te, sì » ribatté di fatti Usopp,
ormai stufo di dover ripetere la stessa cosa ogni mattina. « Ti consiglio di
darti una mossa a vestirti, altrimenti arriviamo in ritardo anche oggi »
aggiunse, prendendo posto nella sedia girevole della scrivania.
« ...ma
le frittelle? » domandò Rufy, mettendosi seduto.
« Non ci
sono! » ribatté seduta stante Usopp, sventolandosi la
mano davanti al volto come per dire “dimenticatele”.
Rufy, a quanto pare finalmente parte
integrante della realtà cosciente, esibì un broncio in piena regola. «
Bugiardo... » bofonchiò, alzandosi e dirigendosi a passo strisciato verso
l’armadio.
« A che
ora sei andato a letto ieri sera? » chiese Usopp
seduto alla scrivania, appoggiando il gomito al ginocchio e la testa sulla
relativa mano.
« Mah,
non appena è caduta la linea. Piuttosto, avete finito lo stage? » domandò
l’altro, dirigendosi verso il bagno.
Usopp, anche se Rufy
non poteva vederlo, negò con il capo. « No » disse poi a voce, « lo sai che
senza il capitano non possiamo muoverci troppo, no? Abbiamo deciso di
aspettarti ».
Lo sentì
ridacchiare dal bagno. « Bene, così non mi perdo nessuna avventura! » esclamò
contento.
Per
quanto potesse ragionarci sopra, Usopp non riusciva a
capire da quale pianeta fosse sceso l’essere dal nome Mokey
D. Rufy, che si professava umano ma di cui lui non
era molto convinto. Insomma, aveva conosciuto anche suo fratello maggiore Ace
prima che si trasferisse a Tokyo, e nonostante qualche particolare trascurabile
sembrava una persona con la testa sulle spalle. Tutto il contrario del fratello
minore.
Bah, non
era il caso di farsi dei problemi... forse.
Una
volta che Cappello di Paglia fu finalmente pronto per uscire, salutarono Makino e montarono sullo scooter che Usopp
aveva riparato l’anno prima.
Il
cecchino mise in moto con la pedalina laterale e, una volta a bordo, infilò gli
occhiali da pilota e diede a Rufy l’unico casco che
possedevano. Quando furono pronti entrambi, diede gas e partirono alla volta
delle sei ore di noia scolastica che dal lunedì al venerdì dovevano sorbirsi.
« Ohi, Usopp » lo
chiamò ad un certo punto Rufy, aggrappato debolmente
ai suoi fianchi. Non aspettò che rispondesse: « come mai non ci siamo mai
incontrati di persona in tutti questi anni? » domandò, suonando
inquietantemente serio.
Perché
sì, ormai Usopp aveva capito che il Capitano aveva
due modi di porre domande: il primo era quello stupido, adatto agli scherzi e
ai giochi innocenti per bambini deficienti, che utilizzava per il 98% della sua
esistenza. L’altro, purtroppo, era il 2% serio e composto, che veniva usato
quando Cappello di Paglia era in balia di particolari turbe mentali o pensieri
profondi.
E non
era mai una buona cosa. Uno come lui doveva riflettere solo d’istinto e
lasciare il cervello sotto formalina.
Ci mise
un poco, il cecchino, per allacciarsi al discorso che Rufy
aveva voluto esprimere con quell’uscita; ma quando ci arrivò, sentì il proprio
stomaco chiudersi in uno di quei presentimenti che annunciano guai. O se non
guai, comunque qualcosa di dispendioso e particolarmente impossibile da farsi,
che inevitabilmente il Capitano avrebbe cercato con tutte le sue forze di
rendere fattibile; anche a costo di fargli venire un’ulcera.
Decise
in ogni caso di sincerarsi di aver azzeccato di cosa parlasse, sperando al
contempo di non avere ragione: « Con chi? » domandò dunque, sudando freddo
nonostante gli arrivasse abbondante aria sul volto a causa della velocità.
« Noi di
One Piece »
precisò dunque l’altro, osservando senza realmente vederle le risaie scivolare
via.
Che Dio
ce ne scampi.
« Il
fatto che abitiamo tutti in parti diverse del Paese non ti dice niente? »
domandò sarcastico il Re dei Cecchini, ridacchiando nervosamente e aumentando
un po’ l’andatura.
« Ci
sono sempre i treni » rispose Rufy.
« Alcuni
lavorano e noi abbiamo scuola » riprovò lui.
« Non di
domenica » ribatté l’altro.
Era
fatta. Poteva dire di tutto, anche recitare un sutra,
ma Rufy non avrebbe più dato ascolto ad una sola
delle sue parole.
Sospirò
affranto, sentendo il proprio stomaco gorgogliare. « Penso di avere la malattia
del “non-dare-ascolto-alle-sue-scemenze”... » borbottò
contrariato, ma Rufy interruppe ogni sua protesta con
una risata convinta e felice. « Suvvia, sarà divertente! » gli disse,
aggrappandosi alle sue spalle come per convincerlo. E non che ne avesse
realmente bisogno, dato che alla fine si faceva comunque coma pareva a lui.
« Prometti
» se ne uscì il moro improvvisamente.
Usopp, un occhio su di lui e uno sulla
strada, alzò un sopracciglio. « Che? » chiese poi, rudemente.
Rufy, con l’aria infantile di un
bambino di sei anni, gli allungò davanti al naso il mignolo della mano destra.
Il riccio lo fissò con una consapevolezza, che temeva essere più reale di
quello che in realtà immaginava.
Fra i
due ci fu un istante di silenzio.
« Beh? »
esclamò poi il capitano, muovendo il suddetto dito. « Prometti » incalzò.
« Non
intendi lo “yubikiri genman”,
vero? » domandò. Non era davvero al
livello di un moccioso delle elementari... vero?!
Rufy, notando la sfumatura incredula
e compatente della voce, arricciò il naso. « Ho tutto il giorno, Usopp » insistette, come per dirgli “guarda che non ho
fretta”.
Usopp, sopraffatto come al solito dal
volere dell’altro, staccò la mano sinistra dal manubrio – la destra teneva il
gas, staccarla non era il caso – e intrecciò il mignolo con quello del compagno
dietro di lui.
Fu
mentre l’altro canticchiava la canzoncina, che il Re dei Cecchini cadde in uno
di quei momenti in cui si chiedeva come fosse
finito ad essere il migliore amico di un pazzo.
Yubi
~ kiri ~ gen ~ man ♪
Questa è la promessa del mignolino.
Mail
from: Rufy
To: Usopp
Object:
Fatto!
Ho mandato il
messaggio a Nami! Tutto fatto!
Ti incollo il
testo.
[DATI
INCOLLATI]
P.s. scusa se ti disturbo a
lezione (^___^)
« Cuoco,
spiegami cosa ci faccio io qui. E sii
sintetico ».
Il biondo,
controllando attentamente la scadenza della panna da cucina, non si voltò
nemmeno a guardarlo. « Sei qui perché romperti le palle è il momento migliore
della mia giornata, spadaccino » rispose, effettivamente conciso.
Zoro, facendo volutamente respiri
profondi, evitò per poco di tornare in macchina a prendere la Wado Ichimonji. Più che altro
perché il titolare del supermercato gli avrebbe fatto pagare i danni, e non è
che se lo potesse permettere.
Sospirò,
cercando di incanalare il chakra positivo dell’universo. « Te lo chiederò una
seconda volta per puro spirito altruistico, sopracciglio a spirale... » sputò
quasi ringhiando: « per quale motivo
il tuo cervello ha pensato che io e te a far spesa potesse essere al pari di
una gitarella amichevole? » domandò, squadrando il
maledetto cuoco come se dovesse incendiarsi per autocombustione spontanea lì
dove si ergeva.
Sanji, che già non fremeva di gioia a
trovarsi in compagnia dello spadaccino, purtroppo aveva il sistema nervoso
pesantemente compromesso da una giornata essenzialmente infernale.
A
cominciare dal litigio avuto con un cliente del ristorante in cui lavorava,
passando dal padrone di casa mezzo siberiano – Emporio Ivankov,
“Iva” per gli amici – che ancora cercava
di spacciarsi per una donna, fino ad arrivare all’obbligo dello Chef di andare
a fare spesa dopo che un suo calcio aveva mandato in frantumi la porta della
dispensa... scaffalature annesse.
Perciò,
considerando che il marimo non veniva gonfiato di
botte a causa dell’ultima stilla di ragione che ancora gli manteneva lucido il
cervello – chi se li poteva permettere anche
i danni del supermercato? -, il biondo decise di stare al gioco... e di
smettere di stritolare la confezione della panna, che raggiunse il carrello.
«
Sturati le orecchie perché lo ammetterò solo una volta, testa d’alga. Devo far
spesa per un intero ristorante, che si trova a due quartieri da qui, e io non
ho la macchina. Inoltre non riesco a portare tutta questa roba – e indicò il
carrello ricolmo di generi alimentari assortiti – cosa che tu, fissato dei pesi,
riesci a fare benissimo. Perciò ora fa un favore all’umanità e cuciti quella
bocca! » blaterò tutto d’un fiato, tornando poi a ponderare sulla mozzarella.
Zoro era sull’orlo di un tracollo
nervoso. Solo l’idea dei soldi che avrebbe dovuto pagare nel caso fosse
scoppiato lo trattennero (di nuovo) dal far danni, magari stampando la faccia
del cuoco nel pavimento.
Decise
per una via d’uscita rapida ed indolore: stare zitto ed ignorarlo. La
ristrutturazione della pavimentazione poteva essere rimandata a giorni migliori
in cui non fosse economicamente con l’acqua alla gola. L’affitto lo imponeva.
Bel modo
di passare un giorno libero, comunque.
Zoro e Sanji
non si conoscevano da molto, ma entrambi avrebbero affermato senza nemmeno
pensarci due volte che avevano passato insieme abbastanza tempo per starsi
sullo stomaco reciprocamente.
Roronoa Zoro,
nato nel villaggio di Shimoshiki nella regione del Kanto, si era allenato sin da piccolo nell’arte della
spada, diventando in poco tempo uno degli atleti più famosi del Giappone.
Mirava alla fama di livello mondiale motivo per cui, una volta terminate le
scuole, si era trasferito a Tokyo per dedicarsi pienamente al kendo in uno dei dojo più famosi: il Kyumeikan[3].
Tuttavia
non poteva vivere di sola aria, così per pagarsi il piccolo appartamento che
possedeva – due stanze, il bagno e la cucina – lavorava part-time nel
laboratorio di un mastro di spada. Il suo compito era tenere curate le katane in esposizione e aiutare il maestro nelle rifiniture,
possibilmente senza spaventare gli eventuali clienti.
Non era
il lavoro dei suoi sogni, ma in preparazione per i campionati mondiali se la
cavava bene anche così.
La
malasorte aveva voluto che nello stesso stabile – anzi peggio: alla porta
accanto – abitasse anche un certo cuoco di comune conoscenza.
Sanji lavorava da una mezza vita al
ristorante “Baratie”, proprietà dello Chef Zef, chiamato “Gamba Rossa” quando ancora era il capo di
una banda di strada.
Il ristorante,
pur avendo sede in una delle zone più malfamate della baia di Tokyo, attirava
parecchi clienti per merito sia della buona cucina, che delle frequenti liti
fra i cuochi, tutti di origine umile e non propriamente amici della legge.
Entrambi
avevano cominciato a giocare a One Piece quasi per caso, e nonostante all’epoca si
conoscessero solo di vista – a volte si erano incontrati per le scale, o in
corridoio – non appena ebbero occasione di essere “compagni di ciurma”
cominciarono a dar vita a battibecchi infiniti, che continuavano puntualmente
anche fuori dal gioco.
Non si
poteva dire che fossero amici, ma almeno l’essere conoscenti potevano
concederselo. E poi non era infrequente che Sanji,
mosso a compassione dalla nutrizione totalmente inadeguata di Zoro (« ancora sushi confezionato del conbini?!
Impara a vivere, testa quadra! » « si può sapere chi ti ha messo in quella
zucca verde che si può vivere di solo sakè?! »), portasse al suddetto qualche
rimanenza del ristorante.
Eh già, Sanji aveva un debole per dare da mangiare agli affamati.
Perché lo era stato anche lui, dunque non si sentiva in grado di privare di un
pasto chi ne aveva bisogno. Non era strano vederlo fare volontariato, nei
giorni di festa.
Ma
questo non cambiava il fatto che si detestavano cordialmente a vicenda, e allo
stesso tempo che si fidassero quasi totalmente l’uno dell’altro.
Quello
che tutti avrebbero definito un rapporto basato sui controsensi, in poche
parole.
Mentre
attendeva (poco) pazientemente che il biondo decidesse quale fra le due
confezioni di tofu perfettamente identiche
prendere, Zoro si guardò intorno.
C’era un
motivo se preferiva i combini: il cibo era precotto e in confezioni salva
freschezza, poteva acquistare da bere giorno per giorno senza avere inutili
scorte di bottiglie ad occupargli il poco spazio in casa, c’erano delle riviste
da comprare con il cibo e avevano la benedetta caratteristica di essere semi
vuoti, a tarda notte. Cosa che lo spadaccino aveva sempre apprezzato.
Non che
detestasse la gente, ma meno ne vedeva e meglio stava.
A
quell’ora i supermercati erano terra delle massaie e delle casalinghe, che
ciabattavano lentamente fra uno scaffale e l’altro ponderando e soppesando per
ore qualsiasi articolo capitasse fra le loro mani.
Se non
lo avesse conosciuto abbastanza bene per poterlo negare, purtroppo, avrebbe
affermato che fra il cuoco e la signora intenta a guardare due pacchetti
identici di farina di riso potesse esserci qualche affinità.
« Cuoco
del cavolo, hai finito di farti venire le fisime esistenziali sul tofu? »
domandò sgarbato Zoro, ritornando sul biondo.
Sanji, arricciando il naso con aria
stizzita, borbottò un glaciale « annegati, testa d’alga » che fece ridacchiare Roronoa di gusto.
Probabilmente
l’altro stava per stampargli la suola delle scarpe in mezzo agli occhi, ma il
suono di un cellulare interruppe l’idilliaca scena proprio sul nascere. Zoro, raggiungendo l’aggeggio, osservò il nome che
compariva di fianco alla lettera che segnalava una mail ricevuta.
« Come
diavolo fa il tuo cellulare a prendere qui dentro? » chiese stranito il biondo,
attendendo stranamente paziente che Zoro
visualizzasse il testo. « È di Nami » disse leggendo.
L’espressione
che Sanji riuscì a tirare fuori fu un perfetto
esempio di miscela; partì da una base di sincera sorpresa, passando per
un’eccitazione al pensiero della persona associata al nome sentito, arrivando
infine alla rabbia e alla depressione derivate dal pensiero “perché Nami-swan manda una mail all’idiota con i capelli verdi e
non all’illustre sottoscritto?” che le sue sinapsi formularono.
Finì
molto presto a coltivare funghi immaginari appoggiato con la fronte al banco
frigo.
Roronoa al contempo si preoccupava
seriamente dell’oggetto della mail, condito con epiteti poco gentili della
stessa rivolti alla persona contro cui inveiva. Che altri non poteva essere se
non Rufy, ovviamente.
Una
volta terminata la rilettura, sogghignò compiaciuto. « Quell’idiota... » borbottò
piacevolmente colpito, mostrando con un sorrisetto il telefonino al
neo-depresso di turno.
Sanji, a sua volta, spalancò la bocca
dall’incredulità. « Si può sapere cosa si è messo in testa di fare? » esclamò
basito, prendendo il cellulare per leggere tutto il messaggio dall’inizio.
Zoro, allargando di poco il ghigno,
ridacchiò. « Una promessa ».
Yubi
~ kiri ~ gen ~ man ♪
Questa è la promessa del mignolino.
Mail
from: Nami
To: Zoro
Object:
Capitano babbeo!
Ti incollo di
seguito l’ultima trovata
del nostro
caro capitano. Quell’idiota!
Dillo anche a Sanji, poi avvertite Chopper.
[DATI
INCOLLATI]
Il Night
Bar “Rumba” – sede, si diceva, della migliore musica di tutta Yokohama – era
uno di quei posti che, a dispetto del nome e della parvenza, andava visitato
almeno una volta nella vita.
Spaziava
dalla musica jazz, direttamente da oltre oceano, a più pacchiane serate di
canzoni corsare e cantate popolari, a quanto pare molto apprezzate da chi voleva
togliersi di dosso la quotidianità stressante della stacanovista società
giapponese facendo un po’ di sana baldoria.
Il
proprietario, chiamato da tutti Brook, era conosciuto
da molti e stimato da tutti. Aveva uno strano carattere di stampo gentlemen
londinese, e nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome; tuttavia, se lo si
sentiva pronunciare, non erano mai cattiverie quelle che venivano ad esso
associate.
Si
diceva che di anni ne avesse più di ottanta, ma la maggior parte delle persone
che visitavano il Rumba stentava a crederci. Era alto quasi sicuramente più di
due metri, però, e andava in giro vestito per lo più con abiti eleganti e
giacche a doppio petto. Il tutto, ovviamente, completato dall’immancabile
bastone da passeggio.
L’unica
cosa che stonava, in quella sua faccia oblunga con un ombra di barba, erano i
capelli: una massa riccia di capelli afro, neri come carbone e all’apparenza
impenetrabili da qualsiasi pettine.
Ma non
ci si badava poi più di tanto, alla fin fine. Non una volta che si conosceva il
tipo di persona, dato che aveva molte altre cose a dir poco peculiari che
facevano passare come la cosa più normale i suoi strani capelli.
Nonostante
quella del bar fosse una vita più che altro notturna, si poteva vedere Brook all’opera già la mattina. Essendo il bar poco
distante dal porto, non era insolito per i pescatori di passaggio sentirlo
cantare “Il sakè di Binks”, la sua canzone favorita,
accompagnato dal violino o dal pianoforte.
La
mattina in cui Franky andò a fargli visita, stava
proprio fischiettando quella canzone nel tentativo di riverniciare l’insegna
del bar.
« Ohi, Brook » si sentì apostrofare dal basso della scala su cui
era appollaiato; magro com’era, le sue gambe sottili riuscivano quasi ad
annodarsi, dal quanto erano incrociate.
Smise di
canticchiare, alzandosi con le dita sporche di vernice bianca gli occhiali da
sole. « Oh, Franky. Buongiorno » salutò cortesemente,
mimando un inchino con il capo (che rischiò di far cadere il barattolo del
colore).
Cutty Flam
detto “Franky” era un carpentiere, proprietario della
società di smantellamento navi “Franky Family” con
sede – la Franky House – non distante dal Rumba.
Era un
uomo strano, degno compare dell’ancora più strambo proprietario del night bar:
portava i capelli tinti di azzurro e tirati sulla testa in un ciuffo “alla
Elvis”, di primo acchito talmente carico di gel da sembrare di una durezza
simile al cemento armato. Aveva tatuata una stella blu su entrambe le braccia,
muscolose e possenti, più la sigla “BF36” sulle spalle. Andava matto per la
Cola e girava perennemente in costumino inguinale e camicia hawaiana.
« Seh, seh, ‘giorno » borbottò a
mezza voce, portando al contempo la mano al taschino della camicia a fiori.
Brook, distraendosi del tutto
dall’insegna, lo guardò con un sopracciglio alzato. « Come mai così scarico
oggi? Non è una giornata “super”? » chiese, seriamente incuriosito dal fatto
che non lo aveva ancora sentito urlare la sua tipica parola... così come non
era accompagnato da Mozu e Kiwi.
Doveva
essere successo qualcosa di grave. Forse ancora dei battibecchi con la Galley-La Company?
Tuttavia,
quando lo vide smanettare con il cellulare e passarglielo, cambiò idea sulla
possibile causa del suo malumore. « Yohoho. Cos’è? »
domandò, afferrando il telefonino e alzando nuovamente gli occhiali da sole per
vedere meglio lo schermo.
« Un
messaggio dal caro capitano. Me lo ha girato Nico Robin » pronunciò, attendendo
che l’altro leggesse prima di aggiungere qualsiasi cosa.
Brook e Franky
avevano cominciato a giocare a One Piece quando una sera, mentre bevevano qualcosa insieme
al Rumba, un paio di ragazzi avevano cominciato un discorso sull’argomento.
Essendo di fianco a loro al bancone, nonostante origliare non fosse il massimo
della correttezza – anche se Brook non sembrava dare
troppo peso alla regola d’educazione – erano riusciti a carpire la parola
“pirati”, e da lì era fatta. Brook si sarebbe
definito un super appassionato entro massimo ventiquattro ore, data la fissa
sui pirati che sembrava possedere.
Cominciarono
più o meno lo stesso periodo, ma intrapresero due carriere di gioco separate.
Motivo per cui Franky era entrato prima di Brook nella ciurma di Cappello di Paglia; ci volle
parecchio tempo prima che le pagliette giungessero al Triangolo Florian, luogo in cui era bloccato Brook
con il suo personaggio, che al contempo si era trasformato in uno scheletro
parlante dopo aver mangiato un frutto del diavolo.
Anche se
Franky si era fatto un personaggio cyborg, perciò non
aveva proprio niente da commentare in proposito.
Da lì,
la loro amicizia con gli altri membri della ciurma si era fatta più forte di
stage in stage. Più sfide affrontavano insieme, più rimanevano connessi ore al
computer per parlare sia del gioco, che di ogni altro discorso potesse venire
loro in mente. C’erano giornate tranquille dopotutto, anche se non troppe,
persino per i pirati.
Brook, ancora abbarbicato sulla scala,
lesse il messaggio con curiosità. Una volta terminato, sorrise.
« My, my... che
idea meravigliosa! » esclamò, facendo sospirare Franky.
« Sapevo che lo avresti detto... » sbuffò infatti il carpentiere, riprendendo
il cellulare e rileggendo a sua volta il testo. « Ma che pensa di fare, si può
sapere? Crede che tutti siano a sua disposizione quando vuole? » si lamentò
appena, esibendosi in una sorta di broncio nel non riuscire a staccare gli
occhi dal testo della mail ricevuta poco prima.
Brook, dall’alto della sua posizione,
ridacchiò. « Franky, perché non ammetti semplicemente
che ti piac... » si interruppe, distratto.
Poco
sotto di loro, infatti, un paio di ragazze si dirigevano in direzione del
porto, valigie a seguito. Pronte a partire per un viaggio, quasi sicuramente.
«
Signorine, scusate... » le apostrofò Brook, quelle si
fermarono.
Franky se ne accorse troppo tardi e no,
non riuscì ad impedirlo.
«
...potrei vedere le vostre mutandine? » terminò l’afro, mimando ancora una
volta un inchino galante.
Abbandonando
Brook al pestaggio delle due turiste, che si era
ampiamente cercato, Franky si incamminò a ritroso
verso la Franky House. Da sotto i baffi, poi,
sogghignò.
« Se
proprio devo la manterrò, questa promessa... capitano ».
Uso ~ tsui ~ tara ♪
Se dici una bugia...
Mail
from: Nico Robin
To: Franky
Object: direttive
Seguendo il
desiderio del capitano,
ti mando le
nuove direttive.
Avverti anche Brook.
[DATI
INCOLLATI]
« Sono
tornato! » esclamò non appena rientrato, richiudendosi la porta alle sue
spalle. Sospirò al sentire il calore proveniente dalla magione, riscattandosi
del vento – freddo nonostante la stagione estiva – che si era appena dovuto
sorbire camminando dalla fermata dell’autobus fino a casa.
E per
fortuna che i corsi scolastici non comprendevano il pomeriggio, d’estate.
Essendo
abituato a non ricevere alcuna risposta – Doctorine
non era molto favorevole allo stile di vita “famigliare”, o almeno non lo
dimostrava apertamente – Chopper semplicemente appese il cappotto
all’attaccapanni e si incamminò per i lunghi corridoi in direzione della sua
stanza.
Tony Tony Chopper, quindici anni, frequentava con un discreto
successo la terza media ad Hokuto, in Hokkaido.
In
realtà però viveva nel villaggio di Sakura, un piccolo centro urbano parecchio
distante dalla cittadina, che si poteva raggiungere praticamente solo in auto o
in autobus (neve permettendo).
Capelli
corti castano chiaro, occhi neri, fisico snello ma veloce e sportivo, voglia
d’imparare e curiosità ottime in confronto all’ingenuità spiccata. Era orfano,
abbandonato in realtà, e aveva passato praticamente tutta la sua vita in
affidamento a medici. Certo, alcuni seri e altri un po’ meno, ma pur sempre
dottori.
Motivo
per cui, nel tempo libero o subito di ritorno dalle lezioni, studiava medicina
sia sui libri che tramite i metodi spartani della sua attuale tutrice, la
dottoressa Kureha.
Quella
che, per l’appunto, stava scendendo le scale con fare quasi patronale. E... era
il decotto che aveva preparato ieri come esercitazione, quella provetta
verdognola che aveva in mano?
« Alla
buon’ora! Dov’eri finito, in pasto ai lupi? » borbottò la donna contrariata,
scuotendo la piccola provetta in vetro: « cosa ti sembra questo, moccioso? Un
decotto? A me pare uno schifo. Non si diventa medici con delle schifezze,
idiota! E adesso vallo a rifare! Questo deve diventare verde smeraldo, non
verde vomito! » urlò, oltrepassandolo con ampie falcate.
« S-Sì! » rispose lui, cominciando a correre in direzione del
laboratorio.
Ok,
doveva ammettere che la dottoressa Kureha non era
come Hiruluk, il suo precedente tutore, purtroppo
venuto a mancare per via di una malattia. Andavano sicuramente meno d’accordo,
e lei non faceva altro che sgridarlo e riprenderlo, ma per quanto riguardava le
abilità mediche non c’era paragone. La dottoressa era il miglior medico del
paese, e non capitava raramente che anche gente di Hokuto
venisse a richiedere i suoi servizi.
Certo,
era brusca e aveva un caratteraccio, per non parlare del fatto che si facesse
pagare ben bene per le cure che elargiva... ma non aveva importanza, quando si
trattava di medicina.
E
Chopper voleva diventare medico ad ogni costo. Un dottore come colui che lo
aveva trovato, cresciuto e gli aveva donato il nome. Così che nessuno, nessun altro sarebbe venuto a mancare a
causa di una malattia.
Lui le
avrebbe guarite tutte.
Era con
questa convinzione che ogni volta che veniva ripreso, o sgridato, o gli veniva
dato dell’incapace dalla dottoressa, lui non ci rimaneva male; anzi, ci
riprovava.
Ci
avrebbe tentato di nuovo anche quella volta.
Arrivò
dunque in camera, appoggiando la cartella di fianco alla scrivania piena di
erbe mezze pestate e alambicchi di ogni tipo. Una fila di provette piene di
intrugli erano poste di fronte alla lampada e alla sua destra, aperto, un libro
di piante officinali mostrava la pagina con le caratteristiche curative della
malva.
A volte
si chiedeva perché, nonostante tutti i medicinali in commercio e il lavoro
delle aziende farmaceutiche, Doctorine gli facesse
studiare le proprietà delle piante e gli facesse fare e rifare svariati
decotti. Una volta aveva anche provato a chiederglielo, ma era uscito dal suo
studio con un bernoccolo pulsante sulla testa e una frase tipo “capiscilo da
solo se ci tieni tanto a saperlo” che non aveva aiutato molto, nel fare
chiarezza.
Però, si
diceva, anche se non capiva perfettamente andava bene comunque. Finché aveva la
possibilità di vivere sulla stessa strada affrontata anche da Hiruluk, il suo salvatore e primo amico, sarebbe stato
felice.
O
almeno... questo lo pensava all’inizio.
Certe
volte di notte, quando Doctorine non lo teneva
d’occhio, Chopper ci pensava al perché i suoi genitori avessero deciso di
abbandonarlo. Lui si sforzava di non arrivare subito a conclusioni
amareggianti, ma ogni suo tentativo non andava mai a finire troppo bene;
arrivava sempre al punto in cui, stanco di farsi del male, si rimetteva a
studiare anche se la sua mente chiedeva la grazia delle otto ore minime di
sonno.
Era
arrivato a decidere, tempo prima, che stare soli era meglio. Aveva provato a
farsi degli amici prima di incontrare Hiruluk e Doctorine, ma le cose non erano andate bene; chissà perché,
quando lo vedevano lo chiamavano “mostro” e si tenevano alla larga da lui.
Eppure
non gli sembrava di aver fatto nulla di male.
Doctorine aveva detto che era perché
discendeva dagli Ainu, che veniva trattato così. Lui
non sapeva nemmeno cosa fossero, ma non è che la cosa gli importasse poi così
tanto.
Le
ragioni potevano essere tante, ma il rimedio solo uno: sarebbe rimasto con Doctorine in quell’enorme castello fuori paese, imparando a
diventare medico, e un giorno sarebbe diventato un dottore così bravo che la
gente avrebbe smesso di prenderlo in giro ed evitarlo.
Dunque,
escluso per la scuola – in cui era comunque messo in disparte – non usciva mai
da quella casa.
Fu per
solitudine, più che altro, che cominciò a connettersi a quel gioco on-line che
tanto spopolava, quasi due anni prima. One Piece lo aveva attratto solo per una parola: “pirati”.
Anche Hiruluk amava i pirati. Diceva che erano la reincarnazione
della libertà, e che un pirata era un esempio della fedeltà agli ideali, anche
se non alla legalità; metteva il cuore nella libertà che l’oceano gli regalava
e legava la sua vita al simbolo della propria bandiera. Poteva essere malvagio
o relativamente buono, ma non esisteva pirata che non rispettasse la propria
bandiera.
Questo, Hiruluk lo diceva con gli occhi colmi di ammirazione, e
aveva catturato anche il cuore anche di Chopper. I pirati erano “compagni”, “nakama” era la
parola, e vagavano per il mondo alla continua ricerca di avventure.
Per
quello aveva amato ogni singolo angolo di quel gioco on-line, anche se con
tutto il lavoro che Doctorine gli affibbiava non
riusciva a giocarci attivamente. Motivo per cui, volendo ad ogni costo
parteciparvi comunque, aveva scelto di dar vita ad un personaggio di secondo
piano; una renna dal naso blu.
Poi, il
gioco lo aveva portato alla creazione del “Tenero Peluche”, nomignolo con cui
tutti gli utenti di One Piece – ed
erano veramente tanti – avevano
rinominato il suo omonimo personaggio. Aveva ingerito il frutto del diavolo Hito-Hito, che aveva dato alla sua renna la capacità di
parlare e camminare eretto come un uomo.
Beh, di
certo era un “character” fuori dal comune. E forse fu
proprio questo che attirò l’attenzione di un personaggio ancora più strambo su
di sé. Un personaggio che si mise in testa di farlo divenire parte della sua
ciurma ad ogni costo; anche a quello di ridurre le ore di gioco effettive sue e
dei membri della sua ciurma, adattandole alle proprie.
Monkey D. Rufy.
Detto “Cappello di Paglia” per il cappello in paglia che portava sempre in
testa – e lo portava anche il teschio della sua Jolly Roger!
In quel
momento, schiacciando per bene alcune bacche di ginepro, non poté fare a meno
di farsi sfuggire una risatina. Non aveva mai visto il player, anche se
parlavano tanto per sms quando non erano connessi, ma era sicurissimo che non
si allontanasse per nulla dal carattere che aveva il suo personaggio su One Piece.
Spensierato, sincero, allegro e forte. Molto forte.
Come...
un eroe.
« Non ci
avevo mai pensato. In effetti potrebbe... » sussurrò rivolto a se stesso, perso
nei suoi pensieri persino nel leggere di nuovo la preparazione del famigerato
decotto verde-smeraldo-non-verde-vomito.
Probabilmente,
Rufy e la sua ciurma erano stati i suoi primi veri amici.
Il che era strano; non li aveva mai incontrati, né aveva mai parlato con loro
di persona, faccia a faccia. Tuttavia teneva a loro come se fossero sempre
presenti in tutte le sue giornate; come se fossero stati presenti quando si
sentiva triste e deluso da se stesso, come se avesse potuto salutarli la
mattina mentre prendeva l’autobus per Hokuto, come se
potesse realmente vedere Rufy e Usopp sorridergli
furbescamente proponendogli un nuovo gioco da fare, o uno scherzo per rubare a Sanji i biscotti appena sfornati.
Anche
loro facevano ormai parte della sua piccola, minuscola fetta di felicità, che
conservava al sicuro così che nessuno potesse rubargliela.
Non
sapeva come, né perché o per come... ma viveva le avventura della ciurma di
Cappello di Paglia come se fosse realmente lì, salendo dal mare al cielo a
bordo di una nave volante o sopravvivendo agli attacchi della marina militare.
Se solo One Piece fosse
stato la realtà, sarebbe uscito fuori di corsa solo per saltare sulla Thousand Sunny e vivere tutte
quelle avventure con i suoi amici.
Già, se
solo fosse stato... vero.
Il suono
del suo cellulare lo distrasse dalla spirale di negatività che lo stava per
avvolgere, e che non lo disturbava da ormai parecchio tempo. Conoscere Rufy e gli altri gli aveva fatto proprio bene, alla fin
fine.
Si
inclinò pericolosamente sulla sedia, aprendo in quell’equilibrio stentato la
tasca anteriore della borsa ed estraendone il cellulare.
Era un sms
di Sanji. Si lamentava, nella prima parte, per poi
informarlo che stava facendo girare una mail da, testualmente: “Nami-swa~n!♥”,
inviatale inizialmente da Rufy.
La
lesse. Ebbe il batticuore.
Non
rispose nemmeno, anche se il messaggio di Sanji lo
specificava, e corse subito per il corridoio rischiando di inciampare e cadere
su ogni minimo ostacolo. « Doctorine, Doctorine! » urlò durante la corsa, aprendo porte a caso
nel tentativo di trovare la sua insegnante il prima possibile. « Doctorine! » ripeté, raggiungendola finalmente in salotto,
seduta sul divano e con i piedi sul tavolino.
« Cos’è
tutto questo fracasso, Chopper? » chiese la dottoressa staccandosi,
visibilmente interrotta durante la degustazione di un calice di vino rosso.
Chopper,
bloccandosi a pochi passi oltre la soglia, deglutì. Come poteva chiederglielo
senza la possibilità di sentirsi rispondere un “no” secco e senza possibilità
di appello? Avrebbe dovuto usare la calma, la pazienza...
«
Domenica posso andare ad incontrare i miei amici di Internet?! » sputò tutto
d’un fiato, chiudendo gli occhi e stringendo la mano sul telefonino ancora
aperto sulla mail rivelatrice.
E attese
l’ardua sentenza.
Dal
canto suo, Kureha non sapeva se definirsi sorpresa o
semplicemente insofferente. Optò per fare entrambe le cose, cosa che come le
riuscisse non è dato saperlo. « Fai quel cavolo che ti pare » rispose, tornando
al suo vino e alla replica alla televisione di un programma qualsiasi che tanto
non seguiva nemmeno con attenzione.
Chopper,
decisamente spiazzato, lanciò un urlo di festa che fece sbuffare la donna. Era
contenta che fosse felice, ma lo sarebbe stata di più se avesse sprizzato gioia
da una qualche altra parte della casa.
«
Chopper, cosa c’è da essere così felici? » domandò dunque, più per curiosità –
e per farlo smettere di saltellare in quel modo ridicolo – che per altro.
Chopper,
fermandosi e guardandola con un gran sorriso, disse la cosa che più
lontanamente lei avrebbe ritenuto attinente al (breve) discorso appena avuto.
« Perché
devo mantenere una promessa! È una missione da pirati! ».
Hari
~ sen ~ bon ~ nomasu ♪
...berrai mille chiodi.
Mail
from: Sanji
To:
Chopper
Object:
“Ordini” dal capitano
Il cervello
del capitano ha dato forfeit.
Possibile che
non riesca a pensare alle
conseguenze di
quello che chiede? Mah.
Comunque, ti
passo il testo che mellorin
Nami-swa~n!♥
sta facendo girare a tutti.
Rispondi direttamente
all’idiota.
[DATI
INCOLLATI]
Quando
la ragazza aveva ricevuto l’sms del suo “capitano”, qualche ora prima, era nel
pieno della sua lezione mattutina di cartografia. Il solo vibracall
del cellulare aveva fatto sì che le coste della Groenlandia fossero decisamente
più frastagliate del normale, ma ciò che vi era scritto aveva mandato
definitivamente per altri lidi la sua concentrazione (e la pazienza del
professore, a quanto era parso dall’espressione omicida dipintasi sul suo
volto).
Quel
ragazzino era pazzo. Sinceramente fuori di testa.
Borbottò
qualcosa lungo la strada affollata, costeggiando da lontano il meraviglioso
castello Nijo-jo, privato però della maggior parte
della sua bellezza dalla stagione estiva. Kyoto, lei lo avrebbe sempre
sostenuto, dava il suo meglio durante l’autunno, cioè quando gli alberi
caducifoglia riempivano di toni rossi e arancio l’intera città.
Nami era nata in un piccolo paese ai
confini orientali del Kanto, Kokoyashi,
e lì aveva passato la sua infanzia come figlia adottiva di Bellmere,
una marinaia straniera trasferitasi in Giappone. Sua sorella maggiore Nojiko (non di sangue, ma migliore di una vera) abitava
ancora lì e coltivava i mandarini che ogni tanto le spediva.
C’erano
due cose che Nami adorava: i soldi e i mandarini.
Solo dopo un’adolescenza non esattamente tranquilla aveva deciso di trasferirsi
a Kyoto per frequentare l’università e diventare cartografa.
A dirla
tutta, anche se si lamentava sempre di lui, era stato proprio Rufy a farle decidere la svolta della sua vita. Aveva
cominciato a giocare a One Piece da
parecchio, quando incontrò la “ciurma” – due uomini su una scialuppa non si
possono definire proprio come tale; però... – di Cappello di Paglia.
Lei,
all’epoca, faceva la ladra; e nella vita reale coltivava mandarini insieme a Nojiko, sopprimendo il sogno di disegnare di propria mano
la mappa del mondo.
Dopo
aver incrociato Rufy, seppur non lo conoscesse
nemmeno in volto o non avesse mai veramente sentito la sua voce, divenne la
navigatrice della ciurma di quello spostato e decise in una notte di realizzare
il suo desiderio.
Tutt’ora
rincorreva il suo sogno. E non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza, ma lui
rimaneva comunque un maledetto malato di mente.
Infilandosi
in un vicolo poco distante dal centro città, e tuffandosi nei colori sgargianti
di una delle tante vie commerciali, la ragazza si defilò subito in un negozio
dall’insegna bordeaux tinteggiata d’oro.
Una
libreria d’antiquariato: l’All Sunday.
Aveva
conosciuto la giovane proprietaria di quella libreria su One Piece, scoprendo con stupore che era un
personaggio inizialmente nemica, poiché arruolata nella Baroque
Works, una ciurma sfidante. Un paio di situazioni favorevoli – e l’intervento
di Rufy, ancora una volta – avevano portato quella
che si faceva chiamare “miss All Sunday”
(una coincidenza?), alias Nico Robin, ad entrare a far parte delle “pagliette”.
Da quel
momento, Nami non aveva mai smesso di frequentare
abitualmente la libreria di Robin.
« Onee-san! » esclamò infatti la navigatrice, entrando dalla
piccola porta a vetri e facendo suonare la campanella sopra di essa.
Dalla
scrivania a sinistra, immersa nell’aria immobile piena dell’odore tipico dei
libri datati, la ventottenne alzò gli occhi da un volume di taglia ammirevole che
teneva appoggiato sulle gambe accavallate. Sorrise pacatamente, facendole segno
con la mano di avvicinarsi.
Cosa che
Nami stava comunque già facendo, e non a passo
leggero.
«
Quell’idiota del nostro capitano è un’idiota! » disse, sbattendo rumorosamente
i fascicoli che portava in mano sulla scrivania in legno di mogano.
« Hai
ripetuto l’ovvio » fece notare Robin con una nota di divertimento, osservando
l’altra estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloncini a livello glutei.
Nico
Robin era nata in un villaggio, Ohara, sperduto in
mezzo alle montagne del Kansai. Rimasta orfana per un
tragico incendio che bruciò il suo intero paese, aveva viaggiato in lungo e in
largo per il mondo, accumulando una notevole conoscenza su cose più varie. Era
inoltre archeologa, e solo da poco aveva deciso di rimanere stabilmente a
Kyoto, a suo parere la città più bella del Giappone.
Il
merito, forse, era da ricondursi a colui che Nami
chiamava “capitano idiota”. Poteva sembrare un motivo futile, ma da quando il
suo personaggio su One Piece faceva
parte della ciurma di Cappello di Paglia, non le andava più di viaggiare da una
città all’altra e connettersi quando e se trovava tempo.
Per la
prima volta, aveva voluto per la sua vita qualcosa di più stabile.
Per
quello aveva aperto la libreria. Aveva unito la sua passione per i libri a
quella per le cose antiche, e nonostante il negozio fosse meta di una clientela
di nicchia, partecipando ancora a spedizioni archeologiche e facendo da
consulente per svariati musei aveva abbastanza entrate da permettersi anche
un’affluenza moderata.
« Beh,
cos’ha fatto il signor capitano questa volta? » chiese dunque la mora,
rimettendo con cura il segnalibro alla pagina a cui era giunta e chiudendo il
pesante tomo.
« Ha
avuto una delle sue idee che non si possono mettere in discussione. Solo che
questa volta non riguarda il gioco! » borbottò contrariata, passandole il
cellulare con la mail inviatale da Rufy.
Leggendo,
Robin allargò il sorriso che le assottigliava le labbra. « È proprio una cosa
da lui » commentò leggermente, ridacchiando appena prima di restituire il
cellulare a Nami. « Perché no? » le disse poi.
La
navigatrice, completamente stranita, la guardò a bocca aperta. « Non dirmi che
vuoi dar retta ai vaneggiamenti di quel pazzo... » ma lasciò cadere non appena
vide il suo volto; non c’era nemmeno da domandarselo, dato che Robin sembrava
attratta da qualsiasi idea provenisse dalla mente del primate che avevano come
capo.
« Non è
un’idea così malvagia, alla fin fine. A me non dispiacerebbe conoscere di
persona anche gli altri membri della ciurma da 600 milioni di Beri » aggiunse divertita, osservandola.
Erano
quei momenti che davano la certezza a Nami di poter
dire “questo è un gruppo di svitati che deve far pace col mondo il prima
possibile”.
La ladra
osservò l’archeologa per un lungo secondo, sospirando poi sopraffatta. Trovava
perfettamente inutile discuterne già da prima di entrare all’ “All Sunday”.
« Uffa,
vediamo di cercare un mezzo di trasporto decente » si lasciò convincere,
togliendosi la borsa dalla spalla e sedendosi in uno dei tavoli di lettura
liberi.
Robin
continuò a sorridere serafica. « Vado a cercare la cartina della linea
ferroviaria » si offrì, dirigendosi verso uno dei tanti scaffali a più piani
che riempivano il piccolo negozio.
Dopotutto era una promessa, no?
Yubi
~ kitta! ♪
E il tuo dito verrà tagliato.
[DATI INCOLLATI:
Mail from: Rufy
To: Nami
Object: giuramento
Ho deciso!
Questa
domenica
ci vediamo
tutti quanti a Kumamoto[4],
davanti al castello
alle 12.
Ordine del
capitano!
Avvisa tutti, Nami!
Yubikiri genman~!]
Erano
passati dieci anni.
Ma
nonostante si dica che il tempo, pian piano, cancelli tutto, lui non aveva
assolutamente dimenticato quel periodo.
Dieci
anni prima, aveva fatto la sua prima promessa a qualcuno.
Sentiva
ancora risuonare le loro voci nella mente, se ci pensava; la sua, infantile e
ribelle, e quella dell’altro, incrinata da una serietà scherzosa.
Lo
chiamavano “il Rosso”, Shanks, ed era una delle
persone più ricercate del Giappone. Non sapeva perché, con tutta sincerità, ma
quando si era fermato per quasi un anno al villaggio, Rufy
aveva trovato in lui un inoppugnabile mentore.
Girovagava,
Shanks, da una parte all’altra del Paese. Per questo
sapeva molte cose, e gli aveva raccontato ogni sorta di avventura che lui e la
compagnia con cui viaggiava aveva affrontato. Voleva lasciare l’isola, prima o
poi, e girare il mondo con la sola forza di volontà a fargli da motore.
Lo
stimava dal primo momento in cui si erano salutati, Rufy.
E lo ammirava così intensamente, che da quel rispetto così profondo ne era nato
un sogno.
Il suo sogno. Quello che avrebbe lottato
per portare a compimento.
Su One Piece, quel
sogno si chiamava “Re dei Pirati”. Nella realtà, in verità, non cambiava poi
così tanto.
Avrebbe
girato il mondo ancora più a fondo di quanto avrebbe fatto Shanks.
Anzi, di quanto aveva e avrebbe fatto chiunque altro.
Perché
lo aveva pensato, la prima volta; alzando gli occhi neri su quelli di Shanks, aveva visto in lui la forza di chi non si arrende
mai. E nella sua ingenuità di bambino aveva sussurrato a fior di labbra le
parole “come un pirata”.
Poi, un
giorno, Shanks se ne era andato. Ma aveva lasciato
dietro di sé il suo cappello di paglia – un normalissimo
cappello di paglia intrecciata con una banda di tessuto rosso – e gli aveva
fatto promettere di restituirglielo non appena si sarebbero rivisti.
« Me lo ridarai quando sarai
diventato anche tu un pirata ».
Ma Shanks non scherzava, né tanto meno parlava di un gioco al
computer. Il Rosso parlava seriamente, Rufy lo aveva
capito anche se era piccolo e stupido. Lo stava invitando a raggiungerlo e
superarlo... no, gli stava facendo promettere
che lo avrebbe fatto, un giorno.
E lo
fece intrecciando il mignolo al suo, canticchiando una canzoncina che Cappello
di Paglia, nella sua vita di dieci anni più tardi, non aveva ancora smesso di
sussurrare, sorridendo.
« Yubikiri genman. Uso tsuitara... ».
«
Ancora? » domandò Usopp con tono scocciato, seduto al
suo fianco sull’erba. Sbuffava ogni due minuti e, se Rufy
non fosse stato più che convinto che la causa di quel nervosismo era il caldo,
probabilmente avrebbe risposto a tono e si sarebbero messi a bisticciare come
sempre.
« “Ancora”
cosa? » domandò allora, sorridendo calmo sotto la tesa del cappello di paglia.
L’erba a contatto con le braccia nude pizzicava appena, ma l’ombra di quel
verde ciliegio era proprio ciò che ci voleva per combattere almeno un po’ la
calura di mezzogiorno.
« Quella
canzoncina. Lo so che te l’hanno promesso, ok? Ma io non vedo ancora nessuno! »
si lamentò il cecchino, slacciandosi la salopette per farsi aria con la
maglietta. Rufy ridacchiò.
« Cosa
c’è di così tanto divertente? » brontolò allora l’altro, ancora accaldato.
« Usopp, sembri seduto su degli spini. Verranno, ne sono
sicuro » pronunciò il capitano, portandosi le mani dietro la nuca e chiudendo
gli occhi.
Sentì
però il riccio esprimersi in un ringhio sbuffato. « E come cavolo fai a dirlo?
Prendi Chopper: viene dall’Hokkaido, hai presente? Sai che sta dall’altra parte
del Giappone rispetto a qui? » si lamentò: « ah... ho mal di stomaco. Penso che
mi stia tornando la malattia del non-posso-rimanere-qui-un-minuto-di-più...
» aggiunse.
Rufy rise di nuovo, trovando
decisamente ridicola la preoccupazione perenne del compagno. Era da quando
avevano preso il traghetto a Sakaiminato che non
rimaneva fermo o zitto per più di un minuto. All’inizio aveva pensato che
avesse mal di mare, ma ora era palese che fosse un fascio di nervi a causa
dell’incontro con gli altri.
«
...comunque è mezzogiorno e un quarto » disse di nuovo, dopo qualche minuto di
silenzio.
« Usopp, se continui così verrà l’ulcera anche a me ».
« A dire
il vero non capisco come fai a stare così tranquillo. Anzi, come fai a fidarti!
Dopotutto non li abbiamo mai visti. E se sono tutti lottatori di sumo? O di
wrestling? O della yakuza? ».
« Certo,
perché non anche astronauti già che ci siamo? ».
« Ehi,
non sfottermi, ok? Non farlo ».
« Ma
dai! Sei ridicolo! ».
« E non
ridere! ».
Mentre Rufy se la rideva della grossa, Usopp
finalmente trovò l’occasione di zittirsi per più di sessanta secondi. Fu però Rufy ad interrompere quella pausa, questa volta.
« Tempo
fa, un amico mi ha detto che lo Yubikiri è un
giuramento che non si può rompere. C’è un filo rosso al mignolo delle persone
che giurano, così che siano legate fra loro finché la promessa non è mantenuta,
o infranta » disse, sorridendo ma con tono più serio del solito.
Il
cecchino lo guardò con la coda dell’occhio. « E con questo? » insistette, non
contento.
«
Prendi, guarda i messaggi ricevuti » se ne uscì poi il capitano, passandogli
con un gesto veloce il proprio cellulare. Usopp, più
per fare qualcosa che per vera curiosità, seguì il consiglio del moro.
Il primo
messaggio registrato, l’ultimo inviato in ordine cronologico, era di Nami. Un inquietante “ti prometto che domenica quando ti
vedo ti prendo a calci!”, ma nonostante la minaccia ne confermava la presenza.
Il
secondo era di Robin, inviato poco prima di quello della navigatrice. Si
limitava ad un “ci sarò”, ma dava comunque l’idea di qualcosa di rassicurante.
Poi,
Chopper. Aveva scritto un sms pieno di punti esclamativi, ma in pratica diceva
di avere avuto il permesso da Doctorine – e chi
cavolo era Doctorine?! – e che avrebbe preso la nave
la notte prima. Usopp pensò semplicemente che il
ragazzino fosse pazzo, ma non commentò.
Seguivano
Franky, che rispondeva con un criptico “ci sono SUPER
sicuramente!”, e Brook, che nel digitare “Yohohohoho~, agli ordini!” aveva preso quasi due righe di
testo solo con la risata.
In
ultimo Sanji, con un falsissimo “ci vengo solo perché
ci sono anche Nami-swan e Robin-chwan”
e Zoro, il più veloce di tutti a rispondere e quello
che aveva lasciato, forse, l’sms più significativo.
“Yubi kitta”.
Non
seppe dire cosa lo calmò, nel leggere quelle risposte. Forse il fatto che
ognuno avesse risposto all’iniziativa del loro strambo capitano, oppure che
avessero promesso tutti quanti di essere presenti a quell’incontro organizzato
in fretta e furia.
Per un
minuto, rifletté su cosa avesse Rufy di speciale per
riuscire in una cosa simile. Per far sì che tutte le persone che incontrava si
fidassero di lui, e fossero immancabilmente dalla sua parte.
Per dare
il significato di un giuramento di sangue ad una canzoncina per bambini.
« Usopp » si sentì chiamare, e per reazione si girò verso
l’altro. « Se tu non abitassi nel villaggio poco distante dal mio, e non mi
conoscessi di persona come tutti gli altri, saresti venuto? » gli domandò,
probabilmente cogliendolo di sorpresa.
Non
riusciva a vedere i suoi occhi, nascosti dal cappello, ma aveva intuito che
questa era ancora una domanda che rientrava in quel raro 2%. Sospirò, però,
perché la risposta era una sola e già la sapeva senza bisogno di pensarci.
« Sì »
disse infatti.
Rufy sorrise. « Allora verranno anche
loro » affermò con sicurezza.
Yubikiri
genman.
Uso tsuitara,
hari
sen bon nomasu.
Yubi
kitta.
A
distanza di anni, il ricordo di quella giornata è custodito gelosamente da una
fotografia di gruppo, scattata ai piedi del castello di Kumamoto.
E tante,
tante altre. Di anno in anno, di album in album, sempre più fotografie
testimoniano il loro forte legame; nato in condizioni non proprio
convenzionali, ma speciale come e forse più di altri.
Il filo
rosso del giuramento, che univa le loro dita... non è mai stato spezzato.
Yubikiri genman.
Giura insieme a me.
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1. Ho
lasciato i nomi della tecniche d’attacco in giapponese, perché io mi ritengo
una maledetta purista XD la traduzione, anche se intuibile, è la seguente:
Hanauta sanchou: yahazu
giri (Tre
passi in leggerezza: colpo cocca di freccia)
Santoryu: Oni Giri (Tecnica Tre Spade: Taglio
dell’Orco)
Gomu gomu no rocket (Razzo Gum
Gum)
2. La
"Jolly Roger" è la bandiera nera con il teschio, classica dei pirati.
3. Il dojo di kendo "Kyumeikan"
esiste veramente.
4. Kumamoto (Kyushu) è il luogo di nascita di Eiichiro Oda. Una sorta di tributo, chiamatelo così.