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Autore: Yoko Hogawa    18/08/2010    11 recensioni
« Ohi, Usopp » lo chiamò ad un certo punto Rufy, aggrappato debolmente ai suoi fianchi. Non aspettò che rispondesse: « come mai non ci siamo mai incontrati di persona in tutti questi anni? » domandò, suonando inquietantemente serio.[...]
Ci mise un poco, il cecchino, per allacciarsi al discorso che Rufy aveva voluto esprimere con quell’uscita; ma quando ci arrivò, sentì il proprio stomaco chiudersi in uno di quei presentimenti che annunciano guai. O se non guai, comunque qualcosa di dispendioso e particolarmente impossibile da farsi, che inevitabilmente il Capitano avrebbe cercato con tutte le sue forze di rendere fattibile; anche a costo di fargli venire un’ulcera.
Decise in ogni caso di sincerarsi di aver azzeccato di cosa parlasse, sperando al contempo di non avere ragione: « Con chi? » domandò dunque, sudando freddo nonostante gli arrivasse abbondante aria sul volto a causa della velocità.
« Noi di One Piece » precisò dunque l’altro, osservando senza realmente vederle le risaie scivolare via.
Che Dio ce ne scampi.
[Prima classificata al Picta!Fanfiction; migliore AU]
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Monkey D. Rufy, Roronoa Zoro, Sanji, Usop
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: i personaggi di One Piece non sono miei, ma è tutto © di Eiichiro Oda-sensei. Nonostante io mi chieda spesso che cosa mangia per riuscire ad inventare cose del genere, purtroppo non possiedo nulla. Attendo speranzosa Zoro o Ace come regalo di compleanno, però ;D

Note: una bella Alternative Universe, giusto per tornare alle vecchie tradizioni.

Lo Yubikiri Genman è quella che in Italia chiamiamo “promessa del mignolino”; è una filastrocca che i bambini giapponesi canticchiano quando devono farsi una promessa. Il testo è praticamente insensato in italiano.

Parecchie altre note sono alla fine. Sono un po’ inutili ma danno un senso ad alcune particolarità della narrazione ;D

Un grazie enorme a CloudRibbon per il betaggio <3

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Yubikiri Genman

~ a red thread for our promise ~

 

 

 

Il fatto che quel coso lo stesse inseguendo, probabilmente con la ferma intenzione di fare di lui il suo aperitivo, forse – ma forse, eh? – era una riprova che, ogni tanto, poteva anche sforzarsi e stare a sentire quello che Nami diceva.

Cose del tipo “la prossima volta che ti mangi la mia pagnotta te ne faccio andare di traverso altre quaranta”, oppure “se metti di nuovo piede nel mio studio la mappa dell’isola te la incido sulla pelle della schiena”; e ancora, come nel caso in oggetto, “quell’atollo buio e cupo non mi dice nulla di buono”.

Beh, doveva ammettere che le aveva dato ragione, quando quella roba aveva cominciato ad inseguirlo. E il fatto che umani, pur sembrandolo, non lo fossero affatto cominciava a fargli pensare di essersi – di nuovo – infangato in una discreta manica di guai.

« Shishishishishi! » ridacchiò divertito, correndo il più velocemente possibile senza tuttavia guadagnare terreno: « beh, è pur sempre un’avventura! » esclamò.

« COL CAVOLO! » urlò Nami al suo fianco, impegnata con tutta se stessa a fare le falcate più lunghe che poteva. Si era anche tolta le scarpe – le zeppe non erano molto comode per correre – e nonostante il terreno non fosse proprio del tutto regolare, la disperazione che albergava sul suo volto rigato dalle lacrime le impediva di considerare un semplice sasso come un impedimento considerevole alla fuga. « Possibile che la tua testa sia piena solo di trucioli e segatura? Dov’eri tu quando Dio distribuiva il senso del pericolo, in bagno?! » imprecò, provocando in Rufy solamente una risata più marcata. « E NON RIDERE! » sbottò contrariata.

« Ma Nami! E’ divertente! » le rispose Rufy, ignaro che la pazienza della navigatrice era andata per altri lidi sin dal momento in cui lui stesso, allungando il suo dannato braccio di gomma, aveva deciso di propria iniziativa di scendere dalla nave nonostante il brutto presentimento di metà della ciurma (tolto Usopp e il suo malore del non-posso-andare-su-quell’isola, che ormai era una costante).

« Ti attacco al pennone con la sparachiodi, poi vediamo se ti diverti ancora! Deficiente! Chi me l’ha fatto far- » cominciò a brontolare, ma fu interrotta da un “richiamo” fin troppo famigliare... e di sicuro non più rassicurante.

« Nami-swaaaa~n!♥ » sentì da destra, e non ci volle molto perché Sanji si affiancasse a loro. « Ho sentito il tuo inconfondibile e soave tono di voce dalla foresta! Stai bene? » domandò, quasi saltellando al suo fianco al posto di correre.

« Dì, ti sembra che vada tutto bene!? » sbottò lei in risposta, troppo impegnata a salvare la pelle per prenderlo per il colletto della camicia e piantarlo di testa nel tronco di un albero random. « Siamo inseguiti da dei vampiri e mi chiedi se va tutto bene!? » domandò di nuovo retoricamente, sull’orlo della più completa disperazione.

Cappello di Paglia, a quella sua reazione, ridacchiò di nuovo. « Ci penso io! » se ne uscì poi, fermandosi di botto.

A loro volta, anche il cuoco e Nami frenarono la corsa. « Si può sapere cosa cavolo fai?! » gridarono entrambi all’unisono, adocchiando all’istante svariate ombre nere avvicinarsi al loro capitano.

« Stai attento, cretino! » « Se ti mordono è la fine! » urlarono Nami e Sanji nello stesso istante, l’ultimo già pronto a scattare con uno dei suoi calci.

Ma non fu necessario.

Mentre Rufy caricava il braccio, sparandolo e aggrappandosi solo lui sapeva dove, altre due ombre presero forma, distaccandosi dalla boscaglia. Un luccichio, sibili di lame.

« Hanauta sanchou... » si sentì la voce di Brook pronunciare: « ...yahazu giri! ».[1]

« Santoryu... » soffiò il tono profondo di Zoro: « ...oni giri! ».[1]

Nello stesso momento, quasi tutti i vampiri che li seguivano finirono irrimediabilmente colpiti dalle tre spade dello spadaccino e dal fioretto del musicista. Caddero a terra con un rantolio... ma non fu sufficiente.

« Non ha funzionato, non ha funzionato, non ha funzionato! » si agitò Nami, pallida.

Zoro, contrariato, sbuffò. « Mi sa che non si possono tagliare i vampiri... » considerò, come se il fatto non fosse nemmeno suo.

Sanji si sentì in dovere di attaccare briga. « E allora pensaci prima, stupido marimo! ».

« Ripeti un po’, sopracciglio a spirale? » ovviamente ringhiò Zoro.

« TACETE! » si impose poi Nami, stampando le nocche della sua mano destra direttamente sulle teste dei due litiganti.

« Yohohohoho! » cantilenò Brook, ma la macabra battuta che sicuramente stava per pronunciare fu interrotta da Rufy, che aveva al contempo teso entrambe le sue braccia fino al limite.

E Nami conosceva benissimo quella posizione, purtroppo.

« Aggrappatevi! Gomu gomu no... ».

« A-Aspetta Rufy! Non... » cercò inutilmente di dire, ma fu afferrata da Sanji e trascinata via da quel pazzo sconsiderato che tutti loro chiamavano “capitano”.

« ...Rocket! »[1] gridò e, lasciandosi andare, presero il volo.

 

J:Com ADSL rilevati problemi di connessione.

Errore numero 637 il portale non risponde.

Disconnessione avvenuta.

 

Osservò la finestra di dialogo comparsa sullo schermo del computer come se fosse il preludio di un disastro atomico su scala nazionale, oppure un avviso di allarme tsunami appena rilasciato dalle autorità portuali del Chugoku.

« No. No, no, no, no, no, no! » implorò sorpreso, provando subito a riconnettere il notebook alla linea.

Niente da fare. Linea morta. La lucina del modem che Ace gli aveva insegnato a guardare nel caso ci fossero stati problemi di linea, e che in teoria doveva rimanere fissa, lampeggiava ad intermittenza e pareva non avere la minima intenzione di fermarsi.

Maledizione, perché proprio in quel momento? Non potevano prendere la linea, che ne sapeva, mentre era a scuola e magari non irritare la gente impegnata in partite importantissime su altrettanto fondamentali GDR on-line?

Beh, stare lì a domandarselo non era salutare per il suo sistema nervoso. Inoltre, nonostante non avesse sonno per niente al mondo, riconosceva che le due di notte erano decisamente troppo per lui, dato che nemmeno cinque ore più tardi si sarebbe dovuto svegliare per andare a scuola.

Borbottò qualcosa di indistinto, spegnendo il computer con un broncio infantile. Alzandosi dalla sedia con le ossa scricchiolanti, poi, andò a buttarsi sul letto poco distante senza la minima grazia. Probabilmente Makino-san non era nemmeno più giù in locanda, dunque non avrebbe disturbato nessuno con il suo volo ad angelo sul materasso e con il conseguente cigolio della rete.

Non ci volle molto perché il cellulare vibrasse sul comodino, producendo un sordo suono legnoso. Rufy allungò svogliatamente la mano – già consapevole di chi potesse essere – e facendo tintinnare il cellstrap a forma di teschio con un cappello di paglia lo aprì, leggendo il mittente.

Zoro. Come si era aspettato.

Con un tono fra il comprensivo e lo scherzoso, chiedeva se la linea si era finalmente decisa a piantare capra e cavoli e a lasciarlo a piedi.

« Divertente... » ironizzò Rufy, rispondendogli velocemente un “sì” contrariato e chiedendo di porgere le sue scuse anche agli altri.

Già se lo sentiva Usopp la mattina dopo: “sei il capitano per la miseria, non puoi sempre scomparire a metà partita!”.

Niente di più vero, ma come doveva fare? Non è che la connessione Internet crescesse sugli alberi, e lui non abitava in centro ad una metropoli!

Da quando ne aveva memoria, quel villaggio fra le colline fuori Sakaiminato era sempre stato tutto ciò che aveva visto. Almeno fino alla scuola superiore, che lì non c’era; dunque era stato costretto ad andare nella scuola della vicina cittadina.

Non odiava quel posto... o almeno, non lo detestava completamente. Era pur sempre il paese dov’era nato e cresciuto, dove aveva tutti i ricordi dell’infanzia – un po’ traumatici ma pur sempre ricordi – e dove aveva trascorso la maggior parte della sua vita... ma sapeva di desiderare più di così.

Oramai, tutti coloro che arrivavano integri al diploma prendevano il primo treno disponibile e si trasferivano in città, oppure direttamente nella capitale. Lo aveva fatto anche suo fratello Ace, tre anni prima, e dato che suo nonno non si fidava a lasciarlo in casa da solo – prima condivideva una casetta proprio con il fratello – aveva chiesto a Makino, la proprietaria dell’unica locanda del villaggio, se lo poteva ospitare.

Ma sarebbe stato solo fino al diploma. Voleva andarsene, magari... perché no? Girare il mondo.

Come palliativo per quel sogno momentaneamente rimandato, aveva trovato su internet un GDR on-line basato sui pirati a cui si era subito appassionato: One Piece.

Narrava la storia di Gold Roger, il Re dei Pirati, che prima di essere giustiziato avrebbe rivelato alla folla sotto al patibolo di un tesoro immenso, chiamato appunto “One Piece”, lasciato alla fine della Grand Line, una linea marittima pericolosa solcata solo dai navigatori più abili. Era cominciata così la grande era della pirateria.

Non sapeva spiegare che cosa lo avesse attratto di quel gioco on-line, proprio lui che non aveva mai dato troppa importanza a quel genere di divertimenti – era più uno del tipo “vita all’aria aperta”. Forse l’idea di essere, anche se per finta, un pirata, ovvero una delle figure storiche rappresentanti la libertà.

Può darsi. Fatto stava che era bravo a giocarci; aveva una ciurma, una nave ed era diventato anche famoso. Lo chiamavano “Cappello di Paglia” e sulla testa aveva già una signora taglia.

Il ciondolo che aveva attaccato al cellulare era il simbolo della sua Jolly Roger[2]. Ogni membro della sua ciurma ne aveva uno; ops, beh, ogni player della sua ciurma.
Disteso sul letto, nel buio della stanza, gli venne da ridere. Solamente i grilli all’esterno della finestra accompagnarono la sua risata con il loro stridore assordante, puntualmente ignorato fino a quel momento ma ora più fastidioso che mai.

Chiudendo gli occhi in un sospiro si abbandonò ai tipici rumori notturni della campagna, in testa solo un pensiero, un’idea strana che si era sviluppata fra una sinapsi e l’altra sottoforma di domanda.

Perché non si erano mai incontrati dal vivo, loro...?

 

La campanella della locanda suonò rumorosamente quando si aprì la porta a vetri, avvisando la proprietaria dell’entrata di un nuovo potenziale cliente.

Anche se proprio di un cliente non si trattava.

« Buongiorno Usopp, sempre puntuale ».

« Buongiorno Makino-san » salutò cortesemente il ragazzo, puntando poi gli occhi – e il lungo naso a seguire – verso il soffitto. « Dorme ancora? » domandò, a giudicare dal tono solo come pura formalità.

La risposta a quella domanda la conoscevano entrambi anche senza bisogno di formularla.

« Sicuramente » sospirò infatti la donna, portandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie mentre lucidava il bancone di legno: « Sali pure, vedi di farlo arrivare prima della campanella una volta ogni tanto » aggiunse sorridendo, risparmiandosi di indicare al ragazzo la strada da percorrere per arrivare al secondo piano.

Da parte sua, Usopp annuì affranto. « Ne dubito, ma almeno ci provo » rispose, togliendosi le scarpe ed infilandosi velocemente su per le scale.

Non conosceva Monkey D. Rufy da molto, ma se glielo avessero chiesto avrebbe affermato con sicurezza che il moro fosse il miglior amico che avesse mai avuto.

Certo, era difficile stargli dietro a volte, soprattutto quando se ne usciva con delle idee da carcere a vita... ma, con un (bel) po’ di pazienza e sopportazione, e soprattutto con una spiccata capacità di adattamento, andare d’accordo con lui non era affatto complicato.

Si erano conosciuti in un modo strano, loro due. Erano diventati amici senza sapere nulla l’uno dell’altro, tutto grazie ad un gioco on-line chiamato One Piece, a cui Usopp aveva cominciato a giocare solo per curiosità.

Poco distante da Fuusha, il villaggio in cui abitava Rufy, vi era un secondo agglomerato urbano che contava la bellezza di cinquemila abitanti scarsi: Shirop. Usopp era nato e viveva lì, e come Rufy aveva avuto problemi organizzativi quando si era ritrovato a dover frequentare le scuole superiori.

Motivo per cui si era munito, a sua volta, di abbonamento per i mezzi pubblici e si era iscritto alla scuola superiore di Sakaiminato. Al contempo, appena prima di formalizzare l’iscrizione a scuola, si era registrato su One Piece ed era entrato a far parte della ciurma di Cappello di Paglia.

Dovettero passare tre anni, prima che si accorgessero l’uno dell’altro. Soprattutto, che si rendessero effettivamente conto del fatto che frequentavano la stessa scuola.

Da lì era stata tutta discesa. Avevano caratteri che si amalgamavano bene l’uno con l’altro; se uno cominciava qualsiasi cosa l’altro gli dava corda, se uno saltava le lezioni l’altro faceva tutto il possibile per farlo a sua volta (erano in classi diverse), se uno prendeva un brutto voto la stessa cosa succedeva all’altro.

Molto presto si era istaurata un’amicizia molto forte, che si era interrotta solo una volta per una discussione di poco conto. Si era risolto tutto entro una settimana, ma quel periodo sarebbe stato ricordato nell’infamia per quanto si erano vicendevolmente ignorati.

A dirla tutta, dopo due giorni Usopp era già pronto a fare pace; ma l’orgoglio a dimensione 747 che si portava dietro dalla nascita non glielo aveva permesso così facilmente.

Fortunatamente però, anche grazie agli altri membri della ciurma, si era risolto tutto nel migliore dei modi. Motivo per cui Usopp andava sempre a svegliare Rufy, invece di arrivare puntuale e fare bella figura con gli insegnanti.

« Ohi, Rufy! » chiamò aprendo la porta – bussare era una particolare irrilevante quando si parlava del moro. Non c’era pericolo che stesse facendo cose sconce, non aveva semplicemente il neurone adibito a quel tipo di interessi.

Come sempre, la risposta al suo richiamo fu un russare sommesso.

Usopp sospirò sconcertato. Si chiese, come al solito, se la banda della scuola al completo posizionata in camera sarebbe stata capace, oltre che demolire i muri e frantumare i vetri delle finestre dell’intero stabile, di svegliarlo.

A mali estremi...

« Rufy, Makino-san sta preparando le frittelle » disse solamente, nemmeno impegnandosi, ma la parola “frittelle” – che la mente di Monkey D. tradusse in modo grezzo con un semplice “cibo” – fu sufficiente a dare la scintilla di vita alle sinapsi dell’addormentato, catapultandolo nella realtà. « Con il miele o al cioccolato? » fu la prima cosa che disse, osservando il nasone in un palese dormiveglia in cui l’espressione più efficace che era capacitato a produrre era quella di una lumaca. Ammesso e non concesso che la lumaca possieda effettivamente espressioni facciali di sorta.

« Buongiorno anche a te, sì » ribatté di fatti Usopp, ormai stufo di dover ripetere la stessa cosa ogni mattina. « Ti consiglio di darti una mossa a vestirti, altrimenti arriviamo in ritardo anche oggi » aggiunse, prendendo posto nella sedia girevole della scrivania.

« ...ma le frittelle? » domandò Rufy, mettendosi seduto.

« Non ci sono! » ribatté seduta stante Usopp, sventolandosi la mano davanti al volto come per dire “dimenticatele”.

Rufy, a quanto pare finalmente parte integrante della realtà cosciente, esibì un broncio in piena regola. « Bugiardo... » bofonchiò, alzandosi e dirigendosi a passo strisciato verso l’armadio.

« A che ora sei andato a letto ieri sera? » chiese Usopp seduto alla scrivania, appoggiando il gomito al ginocchio e la testa sulla relativa mano.

« Mah, non appena è caduta la linea. Piuttosto, avete finito lo stage? » domandò l’altro, dirigendosi verso il bagno.

Usopp, anche se Rufy non poteva vederlo, negò con il capo. « No » disse poi a voce, « lo sai che senza il capitano non possiamo muoverci troppo, no? Abbiamo deciso di aspettarti ».

Lo sentì ridacchiare dal bagno. « Bene, così non mi perdo nessuna avventura! » esclamò contento.

Per quanto potesse ragionarci sopra, Usopp non riusciva a capire da quale pianeta fosse sceso l’essere dal nome Mokey D. Rufy, che si professava umano ma di cui lui non era molto convinto. Insomma, aveva conosciuto anche suo fratello maggiore Ace prima che si trasferisse a Tokyo, e nonostante qualche particolare trascurabile sembrava una persona con la testa sulle spalle. Tutto il contrario del fratello minore.

Bah, non era il caso di farsi dei problemi... forse.

Una volta che Cappello di Paglia fu finalmente pronto per uscire, salutarono Makino e montarono sullo scooter che Usopp aveva riparato l’anno prima.

Il cecchino mise in moto con la pedalina laterale e, una volta a bordo, infilò gli occhiali da pilota e diede a Rufy l’unico casco che possedevano. Quando furono pronti entrambi, diede gas e partirono alla volta delle sei ore di noia scolastica che dal lunedì al venerdì dovevano sorbirsi.

« Ohi, Usopp » lo chiamò ad un certo punto Rufy, aggrappato debolmente ai suoi fianchi. Non aspettò che rispondesse: « come mai non ci siamo mai incontrati di persona in tutti questi anni? » domandò, suonando inquietantemente serio.

Perché sì, ormai Usopp aveva capito che il Capitano aveva due modi di porre domande: il primo era quello stupido, adatto agli scherzi e ai giochi innocenti per bambini deficienti, che utilizzava per il 98% della sua esistenza. L’altro, purtroppo, era il 2% serio e composto, che veniva usato quando Cappello di Paglia era in balia di particolari turbe mentali o pensieri profondi.

E non era mai una buona cosa. Uno come lui doveva riflettere solo d’istinto e lasciare il cervello sotto formalina.

Ci mise un poco, il cecchino, per allacciarsi al discorso che Rufy aveva voluto esprimere con quell’uscita; ma quando ci arrivò, sentì il proprio stomaco chiudersi in uno di quei presentimenti che annunciano guai. O se non guai, comunque qualcosa di dispendioso e particolarmente impossibile da farsi, che inevitabilmente il Capitano avrebbe cercato con tutte le sue forze di rendere fattibile; anche a costo di fargli venire un’ulcera.

Decise in ogni caso di sincerarsi di aver azzeccato di cosa parlasse, sperando al contempo di non avere ragione: « Con chi? » domandò dunque, sudando freddo nonostante gli arrivasse abbondante aria sul volto a causa della velocità.

« Noi di One Piece » precisò dunque l’altro, osservando senza realmente vederle le risaie scivolare via.

Che Dio ce ne scampi.

« Il fatto che abitiamo tutti in parti diverse del Paese non ti dice niente? » domandò sarcastico il Re dei Cecchini, ridacchiando nervosamente e aumentando un po’ l’andatura.

« Ci sono sempre i treni » rispose Rufy.

« Alcuni lavorano e noi abbiamo scuola » riprovò lui.

« Non di domenica » ribatté l’altro.

Era fatta. Poteva dire di tutto, anche recitare un sutra, ma Rufy non avrebbe più dato ascolto ad una sola delle sue parole.

Sospirò affranto, sentendo il proprio stomaco gorgogliare. « Penso di avere la malattia del “non-dare-ascolto-alle-sue-scemenze”... » borbottò contrariato, ma Rufy interruppe ogni sua protesta con una risata convinta e felice. « Suvvia, sarà divertente! » gli disse, aggrappandosi alle sue spalle come per convincerlo. E non che ne avesse realmente bisogno, dato che alla fine si faceva comunque coma pareva a lui.

« Prometti » se ne uscì il moro improvvisamente.

Usopp, un occhio su di lui e uno sulla strada, alzò un sopracciglio. « Che? » chiese poi, rudemente.

Rufy, con l’aria infantile di un bambino di sei anni, gli allungò davanti al naso il mignolo della mano destra. Il riccio lo fissò con una consapevolezza, che temeva essere più reale di quello che in realtà immaginava.

Fra i due ci fu un istante di silenzio.

« Beh? » esclamò poi il capitano, muovendo il suddetto dito. « Prometti » incalzò.

« Non intendi lo “yubikiri genman”, vero? » domandò. Non era davvero al livello di un moccioso delle elementari... vero?!

Rufy, notando la sfumatura incredula e compatente della voce, arricciò il naso. « Ho tutto il giorno, Usopp » insistette, come per dirgli “guarda che non ho fretta”.

Usopp, sopraffatto come al solito dal volere dell’altro, staccò la mano sinistra dal manubrio – la destra teneva il gas, staccarla non era il caso – e intrecciò il mignolo con quello del compagno dietro di lui.

Fu mentre l’altro canticchiava la canzoncina, che il Re dei Cecchini cadde in uno di quei momenti in cui si chiedeva come fosse finito ad essere il migliore amico di un pazzo.

 

Yubi ~ kiri ~ gen ~ man ♪

Questa è la promessa del mignolino.

 

Mail from: Rufy

To: Usopp

Object: Fatto!

Ho mandato il messaggio a Nami! Tutto fatto!

Ti incollo il testo.

[DATI INCOLLATI]

P.s. scusa se ti disturbo a lezione (^___^)

 

« Cuoco, spiegami cosa ci faccio io qui. E sii sintetico ».

Il biondo, controllando attentamente la scadenza della panna da cucina, non si voltò nemmeno a guardarlo. « Sei qui perché romperti le palle è il momento migliore della mia giornata, spadaccino » rispose, effettivamente conciso.

Zoro, facendo volutamente respiri profondi, evitò per poco di tornare in macchina a prendere la Wado Ichimonji. Più che altro perché il titolare del supermercato gli avrebbe fatto pagare i danni, e non è che se lo potesse permettere.

Sospirò, cercando di incanalare il chakra positivo dell’universo. « Te lo chiederò una seconda volta per puro spirito altruistico, sopracciglio a spirale... » sputò quasi ringhiando: « per quale motivo il tuo cervello ha pensato che io e te a far spesa potesse essere al pari di una gitarella amichevole? » domandò, squadrando il maledetto cuoco come se dovesse incendiarsi per autocombustione spontanea lì dove si ergeva.

Sanji, che già non fremeva di gioia a trovarsi in compagnia dello spadaccino, purtroppo aveva il sistema nervoso pesantemente compromesso da una giornata essenzialmente infernale.

A cominciare dal litigio avuto con un cliente del ristorante in cui lavorava, passando dal padrone di casa mezzo siberiano – Emporio Ivankov, “Iva” per gli amici – che ancora cercava di spacciarsi per una donna, fino ad arrivare all’obbligo dello Chef di andare a fare spesa dopo che un suo calcio aveva mandato in frantumi la porta della dispensa... scaffalature annesse.

Perciò, considerando che il marimo non veniva gonfiato di botte a causa dell’ultima stilla di ragione che ancora gli manteneva lucido il cervello – chi se li poteva permettere anche i danni del supermercato? -, il biondo decise di stare al gioco... e di smettere di stritolare la confezione della panna, che raggiunse il carrello.

« Sturati le orecchie perché lo ammetterò solo una volta, testa d’alga. Devo far spesa per un intero ristorante, che si trova a due quartieri da qui, e io non ho la macchina. Inoltre non riesco a portare tutta questa roba – e indicò il carrello ricolmo di generi alimentari assortiti – cosa che tu, fissato dei pesi, riesci a fare benissimo. Perciò ora fa un favore all’umanità e cuciti quella bocca! » blaterò tutto d’un fiato, tornando poi a ponderare sulla mozzarella.

Zoro era sull’orlo di un tracollo nervoso. Solo l’idea dei soldi che avrebbe dovuto pagare nel caso fosse scoppiato lo trattennero (di nuovo) dal far danni, magari stampando la faccia del cuoco nel pavimento.

Decise per una via d’uscita rapida ed indolore: stare zitto ed ignorarlo. La ristrutturazione della pavimentazione poteva essere rimandata a giorni migliori in cui non fosse economicamente con l’acqua alla gola. L’affitto lo imponeva.

Bel modo di passare un giorno libero, comunque.

Zoro e Sanji non si conoscevano da molto, ma entrambi avrebbero affermato senza nemmeno pensarci due volte che avevano passato insieme abbastanza tempo per starsi sullo stomaco reciprocamente.

Roronoa Zoro, nato nel villaggio di Shimoshiki nella regione del Kanto, si era allenato sin da piccolo nell’arte della spada, diventando in poco tempo uno degli atleti più famosi del Giappone. Mirava alla fama di livello mondiale motivo per cui, una volta terminate le scuole, si era trasferito a Tokyo per dedicarsi pienamente al kendo in uno dei dojo più famosi: il Kyumeikan[3].

Tuttavia non poteva vivere di sola aria, così per pagarsi il piccolo appartamento che possedeva – due stanze, il bagno e la cucina – lavorava part-time nel laboratorio di un mastro di spada. Il suo compito era tenere curate le katane in esposizione e aiutare il maestro nelle rifiniture, possibilmente senza spaventare gli eventuali clienti.

Non era il lavoro dei suoi sogni, ma in preparazione per i campionati mondiali se la cavava bene anche così.

La malasorte aveva voluto che nello stesso stabile – anzi peggio: alla porta accanto – abitasse anche un certo cuoco di comune conoscenza.

Sanji lavorava da una mezza vita al ristorante “Baratie”, proprietà dello Chef Zef, chiamato “Gamba Rossa” quando ancora era il capo di una banda di strada.

Il ristorante, pur avendo sede in una delle zone più malfamate della baia di Tokyo, attirava parecchi clienti per merito sia della buona cucina, che delle frequenti liti fra i cuochi, tutti di origine umile e non propriamente amici della legge.

Entrambi avevano cominciato a giocare a One Piece quasi per caso, e nonostante all’epoca si conoscessero solo di vista – a volte si erano incontrati per le scale, o in corridoio – non appena ebbero occasione di essere “compagni di ciurma” cominciarono a dar vita a battibecchi infiniti, che continuavano puntualmente anche fuori dal gioco.

Non si poteva dire che fossero amici, ma almeno l’essere conoscenti potevano concederselo. E poi non era infrequente che Sanji, mosso a compassione dalla nutrizione totalmente inadeguata di Zoro (« ancora sushi confezionato del conbini?! Impara a vivere, testa quadra! » « si può sapere chi ti ha messo in quella zucca verde che si può vivere di solo sakè?! »), portasse al suddetto qualche rimanenza del ristorante.

Eh già, Sanji aveva un debole per dare da mangiare agli affamati. Perché lo era stato anche lui, dunque non si sentiva in grado di privare di un pasto chi ne aveva bisogno. Non era strano vederlo fare volontariato, nei giorni di festa.

Ma questo non cambiava il fatto che si detestavano cordialmente a vicenda, e allo stesso tempo che si fidassero quasi totalmente l’uno dell’altro.

Quello che tutti avrebbero definito un rapporto basato sui controsensi, in poche parole.

Mentre attendeva (poco) pazientemente che il biondo decidesse quale fra le due confezioni di tofu perfettamente identiche prendere, Zoro si guardò intorno.

C’era un motivo se preferiva i combini: il cibo era precotto e in confezioni salva freschezza, poteva acquistare da bere giorno per giorno senza avere inutili scorte di bottiglie ad occupargli il poco spazio in casa, c’erano delle riviste da comprare con il cibo e avevano la benedetta caratteristica di essere semi vuoti, a tarda notte. Cosa che lo spadaccino aveva sempre apprezzato.

Non che detestasse la gente, ma meno ne vedeva e meglio stava.

A quell’ora i supermercati erano terra delle massaie e delle casalinghe, che ciabattavano lentamente fra uno scaffale e l’altro ponderando e soppesando per ore qualsiasi articolo capitasse fra le loro mani.

Se non lo avesse conosciuto abbastanza bene per poterlo negare, purtroppo, avrebbe affermato che fra il cuoco e la signora intenta a guardare due pacchetti identici di farina di riso potesse esserci qualche affinità.

« Cuoco del cavolo, hai finito di farti venire le fisime esistenziali sul tofu? » domandò sgarbato Zoro, ritornando sul biondo.

Sanji, arricciando il naso con aria stizzita, borbottò un glaciale « annegati, testa d’alga » che fece ridacchiare Roronoa di gusto.

Probabilmente l’altro stava per stampargli la suola delle scarpe in mezzo agli occhi, ma il suono di un cellulare interruppe l’idilliaca scena proprio sul nascere. Zoro, raggiungendo l’aggeggio, osservò il nome che compariva di fianco alla lettera che segnalava una mail ricevuta.

« Come diavolo fa il tuo cellulare a prendere qui dentro? » chiese stranito il biondo, attendendo stranamente paziente che Zoro visualizzasse il testo. « È di Nami » disse leggendo.

L’espressione che Sanji riuscì a tirare fuori fu un perfetto esempio di miscela; partì da una base di sincera sorpresa, passando per un’eccitazione al pensiero della persona associata al nome sentito, arrivando infine alla rabbia e alla depressione derivate dal pensiero “perché Nami-swan manda una mail all’idiota con i capelli verdi e non all’illustre sottoscritto?” che le sue sinapsi formularono.

Finì molto presto a coltivare funghi immaginari appoggiato con la fronte al banco frigo.

Roronoa al contempo si preoccupava seriamente dell’oggetto della mail, condito con epiteti poco gentili della stessa rivolti alla persona contro cui inveiva. Che altri non poteva essere se non Rufy, ovviamente.

Una volta terminata la rilettura, sogghignò compiaciuto. « Quell’idiota... » borbottò piacevolmente colpito, mostrando con un sorrisetto il telefonino al neo-depresso di turno.

Sanji, a sua volta, spalancò la bocca dall’incredulità. « Si può sapere cosa si è messo in testa di fare? » esclamò basito, prendendo il cellulare per leggere tutto il messaggio dall’inizio.

Zoro, allargando di poco il ghigno, ridacchiò. « Una promessa ».

 

Yubi ~ kiri ~ gen ~ man ♪

Questa è la promessa del mignolino.

 

Mail from: Nami

To: Zoro

Object: Capitano babbeo!

Ti incollo di seguito l’ultima trovata

del nostro caro capitano. Quell’idiota!

Dillo anche a Sanji, poi avvertite Chopper.

[DATI INCOLLATI]

 

Il Night Bar “Rumba” – sede, si diceva, della migliore musica di tutta Yokohama – era uno di quei posti che, a dispetto del nome e della parvenza, andava visitato almeno una volta nella vita.

Spaziava dalla musica jazz, direttamente da oltre oceano, a più pacchiane serate di canzoni corsare e cantate popolari, a quanto pare molto apprezzate da chi voleva togliersi di dosso la quotidianità stressante della stacanovista società giapponese facendo un po’ di sana baldoria.

Il proprietario, chiamato da tutti Brook, era conosciuto da molti e stimato da tutti. Aveva uno strano carattere di stampo gentlemen londinese, e nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome; tuttavia, se lo si sentiva pronunciare, non erano mai cattiverie quelle che venivano ad esso associate.

Si diceva che di anni ne avesse più di ottanta, ma la maggior parte delle persone che visitavano il Rumba stentava a crederci. Era alto quasi sicuramente più di due metri, però, e andava in giro vestito per lo più con abiti eleganti e giacche a doppio petto. Il tutto, ovviamente, completato dall’immancabile bastone da passeggio.

L’unica cosa che stonava, in quella sua faccia oblunga con un ombra di barba, erano i capelli: una massa riccia di capelli afro, neri come carbone e all’apparenza impenetrabili da qualsiasi pettine.

Ma non ci si badava poi più di tanto, alla fin fine. Non una volta che si conosceva il tipo di persona, dato che aveva molte altre cose a dir poco peculiari che facevano passare come la cosa più normale i suoi strani capelli.

Nonostante quella del bar fosse una vita più che altro notturna, si poteva vedere Brook all’opera già la mattina. Essendo il bar poco distante dal porto, non era insolito per i pescatori di passaggio sentirlo cantare “Il sakè di Binks”, la sua canzone favorita, accompagnato dal violino o dal pianoforte.

La mattina in cui Franky andò a fargli visita, stava proprio fischiettando quella canzone nel tentativo di riverniciare l’insegna del bar.

« Ohi, Brook » si sentì apostrofare dal basso della scala su cui era appollaiato; magro com’era, le sue gambe sottili riuscivano quasi ad annodarsi, dal quanto erano incrociate.

Smise di canticchiare, alzandosi con le dita sporche di vernice bianca gli occhiali da sole. « Oh, Franky. Buongiorno » salutò cortesemente, mimando un inchino con il capo (che rischiò di far cadere il barattolo del colore).

Cutty Flam detto “Franky” era un carpentiere, proprietario della società di smantellamento navi “Franky Family” con sede – la Franky House – non distante dal Rumba.

Era un uomo strano, degno compare dell’ancora più strambo proprietario del night bar: portava i capelli tinti di azzurro e tirati sulla testa in un ciuffo “alla Elvis”, di primo acchito talmente carico di gel da sembrare di una durezza simile al cemento armato. Aveva tatuata una stella blu su entrambe le braccia, muscolose e possenti, più la sigla “BF36” sulle spalle. Andava matto per la Cola e girava perennemente in costumino inguinale e camicia hawaiana.

« Seh, seh, ‘giorno » borbottò a mezza voce, portando al contempo la mano al taschino della camicia a fiori.

Brook, distraendosi del tutto dall’insegna, lo guardò con un sopracciglio alzato. « Come mai così scarico oggi? Non è una giornata “super”? » chiese, seriamente incuriosito dal fatto che non lo aveva ancora sentito urlare la sua tipica parola... così come non era accompagnato da Mozu e Kiwi.

Doveva essere successo qualcosa di grave. Forse ancora dei battibecchi con la Galley-La Company?

Tuttavia, quando lo vide smanettare con il cellulare e passarglielo, cambiò idea sulla possibile causa del suo malumore. « Yohoho. Cos’è? » domandò, afferrando il telefonino e alzando nuovamente gli occhiali da sole per vedere meglio lo schermo.

« Un messaggio dal caro capitano. Me lo ha girato Nico Robin » pronunciò, attendendo che l’altro leggesse prima di aggiungere qualsiasi cosa.

Brook e Franky avevano cominciato a giocare a One Piece quando una sera, mentre bevevano qualcosa insieme al Rumba, un paio di ragazzi avevano cominciato un discorso sull’argomento. Essendo di fianco a loro al bancone, nonostante origliare non fosse il massimo della correttezza – anche se Brook non sembrava dare troppo peso alla regola d’educazione – erano riusciti a carpire la parola “pirati”, e da lì era fatta. Brook si sarebbe definito un super appassionato entro massimo ventiquattro ore, data la fissa sui pirati che sembrava possedere.

Cominciarono più o meno lo stesso periodo, ma intrapresero due carriere di gioco separate. Motivo per cui Franky era entrato prima di Brook nella ciurma di Cappello di Paglia; ci volle parecchio tempo prima che le pagliette giungessero al Triangolo Florian, luogo in cui era bloccato Brook con il suo personaggio, che al contempo si era trasformato in uno scheletro parlante dopo aver mangiato un frutto del diavolo.

Anche se Franky si era fatto un personaggio cyborg, perciò non aveva proprio niente da commentare in proposito.

Da lì, la loro amicizia con gli altri membri della ciurma si era fatta più forte di stage in stage. Più sfide affrontavano insieme, più rimanevano connessi ore al computer per parlare sia del gioco, che di ogni altro discorso potesse venire loro in mente. C’erano giornate tranquille dopotutto, anche se non troppe, persino per i pirati.

Brook, ancora abbarbicato sulla scala, lesse il messaggio con curiosità. Una volta terminato, sorrise.

« My, my... che idea meravigliosa! » esclamò, facendo sospirare Franky. « Sapevo che lo avresti detto... » sbuffò infatti il carpentiere, riprendendo il cellulare e rileggendo a sua volta il testo. « Ma che pensa di fare, si può sapere? Crede che tutti siano a sua disposizione quando vuole? » si lamentò appena, esibendosi in una sorta di broncio nel non riuscire a staccare gli occhi dal testo della mail ricevuta poco prima.

Brook, dall’alto della sua posizione, ridacchiò. « Franky, perché non ammetti semplicemente che ti piac... » si interruppe, distratto.

Poco sotto di loro, infatti, un paio di ragazze si dirigevano in direzione del porto, valigie a seguito. Pronte a partire per un viaggio, quasi sicuramente.

« Signorine, scusate... » le apostrofò Brook, quelle si fermarono.

Franky se ne accorse troppo tardi e no, non riuscì ad impedirlo.

« ...potrei vedere le vostre mutandine? » terminò l’afro, mimando ancora una volta un inchino galante.

Abbandonando Brook al pestaggio delle due turiste, che si era ampiamente cercato, Franky si incamminò a ritroso verso la Franky House. Da sotto i baffi, poi, sogghignò.

« Se proprio devo la manterrò, questa promessa... capitano ».

 

Uso ~ tsui ~ tara ♪

Se dici una bugia...

 

Mail from: Nico Robin

To: Franky

Object: direttive

Seguendo il desiderio del capitano,

ti mando le nuove direttive.

Avverti anche Brook.

[DATI INCOLLATI]

 

« Sono tornato! » esclamò non appena rientrato, richiudendosi la porta alle sue spalle. Sospirò al sentire il calore proveniente dalla magione, riscattandosi del vento – freddo nonostante la stagione estiva – che si era appena dovuto sorbire camminando dalla fermata dell’autobus fino a casa.

E per fortuna che i corsi scolastici non comprendevano il pomeriggio, d’estate.

Essendo abituato a non ricevere alcuna risposta – Doctorine non era molto favorevole allo stile di vita “famigliare”, o almeno non lo dimostrava apertamente – Chopper semplicemente appese il cappotto all’attaccapanni e si incamminò per i lunghi corridoi in direzione della sua stanza.

Tony Tony Chopper, quindici anni, frequentava con un discreto successo la terza media ad Hokuto, in Hokkaido.

In realtà però viveva nel villaggio di Sakura, un piccolo centro urbano parecchio distante dalla cittadina, che si poteva raggiungere praticamente solo in auto o in autobus (neve permettendo).

Capelli corti castano chiaro, occhi neri, fisico snello ma veloce e sportivo, voglia d’imparare e curiosità ottime in confronto all’ingenuità spiccata. Era orfano, abbandonato in realtà, e aveva passato praticamente tutta la sua vita in affidamento a medici. Certo, alcuni seri e altri un po’ meno, ma pur sempre dottori.

Motivo per cui, nel tempo libero o subito di ritorno dalle lezioni, studiava medicina sia sui libri che tramite i metodi spartani della sua attuale tutrice, la dottoressa Kureha.

Quella che, per l’appunto, stava scendendo le scale con fare quasi patronale. E... era il decotto che aveva preparato ieri come esercitazione, quella provetta verdognola che aveva in mano?

« Alla buon’ora! Dov’eri finito, in pasto ai lupi? » borbottò la donna contrariata, scuotendo la piccola provetta in vetro: « cosa ti sembra questo, moccioso? Un decotto? A me pare uno schifo. Non si diventa medici con delle schifezze, idiota! E adesso vallo a rifare! Questo deve diventare verde smeraldo, non verde vomito! » urlò, oltrepassandolo con ampie falcate.

« S-Sì! » rispose lui, cominciando a correre in direzione del laboratorio.

Ok, doveva ammettere che la dottoressa Kureha non era come Hiruluk, il suo precedente tutore, purtroppo venuto a mancare per via di una malattia. Andavano sicuramente meno d’accordo, e lei non faceva altro che sgridarlo e riprenderlo, ma per quanto riguardava le abilità mediche non c’era paragone. La dottoressa era il miglior medico del paese, e non capitava raramente che anche gente di Hokuto venisse a richiedere i suoi servizi.

Certo, era brusca e aveva un caratteraccio, per non parlare del fatto che si facesse pagare ben bene per le cure che elargiva... ma non aveva importanza, quando si trattava di medicina.

E Chopper voleva diventare medico ad ogni costo. Un dottore come colui che lo aveva trovato, cresciuto e gli aveva donato il nome. Così che nessuno, nessun altro sarebbe venuto a mancare a causa di una malattia.

Lui le avrebbe guarite tutte.

Era con questa convinzione che ogni volta che veniva ripreso, o sgridato, o gli veniva dato dell’incapace dalla dottoressa, lui non ci rimaneva male; anzi, ci riprovava.

Ci avrebbe tentato di nuovo anche quella volta.

Arrivò dunque in camera, appoggiando la cartella di fianco alla scrivania piena di erbe mezze pestate e alambicchi di ogni tipo. Una fila di provette piene di intrugli erano poste di fronte alla lampada e alla sua destra, aperto, un libro di piante officinali mostrava la pagina con le caratteristiche curative della malva.

A volte si chiedeva perché, nonostante tutti i medicinali in commercio e il lavoro delle aziende farmaceutiche, Doctorine gli facesse studiare le proprietà delle piante e gli facesse fare e rifare svariati decotti. Una volta aveva anche provato a chiederglielo, ma era uscito dal suo studio con un bernoccolo pulsante sulla testa e una frase tipo “capiscilo da solo se ci tieni tanto a saperlo” che non aveva aiutato molto, nel fare chiarezza.

Però, si diceva, anche se non capiva perfettamente andava bene comunque. Finché aveva la possibilità di vivere sulla stessa strada affrontata anche da Hiruluk, il suo salvatore e primo amico, sarebbe stato felice.

O almeno... questo lo pensava all’inizio.

Certe volte di notte, quando Doctorine non lo teneva d’occhio, Chopper ci pensava al perché i suoi genitori avessero deciso di abbandonarlo. Lui si sforzava di non arrivare subito a conclusioni amareggianti, ma ogni suo tentativo non andava mai a finire troppo bene; arrivava sempre al punto in cui, stanco di farsi del male, si rimetteva a studiare anche se la sua mente chiedeva la grazia delle otto ore minime di sonno.

Era arrivato a decidere, tempo prima, che stare soli era meglio. Aveva provato a farsi degli amici prima di incontrare Hiruluk e Doctorine, ma le cose non erano andate bene; chissà perché, quando lo vedevano lo chiamavano “mostro” e si tenevano alla larga da lui.

Eppure non gli sembrava di aver fatto nulla di male.

Doctorine aveva detto che era perché discendeva dagli Ainu, che veniva trattato così. Lui non sapeva nemmeno cosa fossero, ma non è che la cosa gli importasse poi così tanto.

Le ragioni potevano essere tante, ma il rimedio solo uno: sarebbe rimasto con Doctorine in quell’enorme castello fuori paese, imparando a diventare medico, e un giorno sarebbe diventato un dottore così bravo che la gente avrebbe smesso di prenderlo in giro ed evitarlo.

Dunque, escluso per la scuola – in cui era comunque messo in disparte – non usciva mai da quella casa.

Fu per solitudine, più che altro, che cominciò a connettersi a quel gioco on-line che tanto spopolava, quasi due anni prima. One Piece lo aveva attratto solo per una parola: “pirati”.

Anche Hiruluk amava i pirati. Diceva che erano la reincarnazione della libertà, e che un pirata era un esempio della fedeltà agli ideali, anche se non alla legalità; metteva il cuore nella libertà che l’oceano gli regalava e legava la sua vita al simbolo della propria bandiera. Poteva essere malvagio o relativamente buono, ma non esisteva pirata che non rispettasse la propria bandiera.

Questo, Hiruluk lo diceva con gli occhi colmi di ammirazione, e aveva catturato anche il cuore anche di Chopper. I pirati erano “compagni”, “nakama” era la parola, e vagavano per il mondo alla continua ricerca di avventure.

Per quello aveva amato ogni singolo angolo di quel gioco on-line, anche se con tutto il lavoro che Doctorine gli affibbiava non riusciva a giocarci attivamente. Motivo per cui, volendo ad ogni costo parteciparvi comunque, aveva scelto di dar vita ad un personaggio di secondo piano; una renna dal naso blu.

Poi, il gioco lo aveva portato alla creazione del “Tenero Peluche”, nomignolo con cui tutti gli utenti di One Piece – ed erano veramente tanti – avevano rinominato il suo omonimo personaggio. Aveva ingerito il frutto del diavolo Hito-Hito, che aveva dato alla sua renna la capacità di parlare e camminare eretto come un uomo.

Beh, di certo era un “character” fuori dal comune. E forse fu proprio questo che attirò l’attenzione di un personaggio ancora più strambo su di sé. Un personaggio che si mise in testa di farlo divenire parte della sua ciurma ad ogni costo; anche a quello di ridurre le ore di gioco effettive sue e dei membri della sua ciurma, adattandole alle proprie.

Monkey D. Rufy. Detto “Cappello di Paglia” per il cappello in paglia che portava sempre in testa – e lo portava anche il teschio della sua Jolly Roger!

In quel momento, schiacciando per bene alcune bacche di ginepro, non poté fare a meno di farsi sfuggire una risatina. Non aveva mai visto il player, anche se parlavano tanto per sms quando non erano connessi, ma era sicurissimo che non si allontanasse per nulla dal carattere che aveva il suo personaggio su One Piece. Spensierato, sincero, allegro e forte. Molto forte.

Come... un eroe.

« Non ci avevo mai pensato. In effetti potrebbe... » sussurrò rivolto a se stesso, perso nei suoi pensieri persino nel leggere di nuovo la preparazione del famigerato decotto verde-smeraldo-non-verde-vomito.

Probabilmente, Rufy e la sua ciurma erano stati i suoi primi veri amici. Il che era strano; non li aveva mai incontrati, né aveva mai parlato con loro di persona, faccia a faccia. Tuttavia teneva a loro come se fossero sempre presenti in tutte le sue giornate; come se fossero stati presenti quando si sentiva triste e deluso da se stesso, come se avesse potuto salutarli la mattina mentre prendeva l’autobus per Hokuto, come se potesse realmente vedere Rufy e Usopp sorridergli furbescamente proponendogli un nuovo gioco da fare, o uno scherzo per rubare a Sanji i biscotti appena sfornati.

Anche loro facevano ormai parte della sua piccola, minuscola fetta di felicità, che conservava al sicuro così che nessuno potesse rubargliela.

Non sapeva come, né perché o per come... ma viveva le avventura della ciurma di Cappello di Paglia come se fosse realmente lì, salendo dal mare al cielo a bordo di una nave volante o sopravvivendo agli attacchi della marina militare.

Se solo One Piece fosse stato la realtà, sarebbe uscito fuori di corsa solo per saltare sulla Thousand Sunny e vivere tutte quelle avventure con i suoi amici.

Già, se solo fosse stato... vero.

Il suono del suo cellulare lo distrasse dalla spirale di negatività che lo stava per avvolgere, e che non lo disturbava da ormai parecchio tempo. Conoscere Rufy e gli altri gli aveva fatto proprio bene, alla fin fine.

Si inclinò pericolosamente sulla sedia, aprendo in quell’equilibrio stentato la tasca anteriore della borsa ed estraendone il cellulare.

Era un sms di Sanji. Si lamentava, nella prima parte, per poi informarlo che stava facendo girare una mail da, testualmente: “Nami-swa~n!♥”, inviatale inizialmente da Rufy.

La lesse. Ebbe il batticuore.

Non rispose nemmeno, anche se il messaggio di Sanji lo specificava, e corse subito per il corridoio rischiando di inciampare e cadere su ogni minimo ostacolo. « Doctorine, Doctorine! » urlò durante la corsa, aprendo porte a caso nel tentativo di trovare la sua insegnante il prima possibile. « Doctorine! » ripeté, raggiungendola finalmente in salotto, seduta sul divano e con i piedi sul tavolino.

« Cos’è tutto questo fracasso, Chopper? » chiese la dottoressa staccandosi, visibilmente interrotta durante la degustazione di un calice di vino rosso.

Chopper, bloccandosi a pochi passi oltre la soglia, deglutì. Come poteva chiederglielo senza la possibilità di sentirsi rispondere un “no” secco e senza possibilità di appello? Avrebbe dovuto usare la calma, la pazienza...

« Domenica posso andare ad incontrare i miei amici di Internet?! » sputò tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi e stringendo la mano sul telefonino ancora aperto sulla mail rivelatrice.

E attese l’ardua sentenza.

Dal canto suo, Kureha non sapeva se definirsi sorpresa o semplicemente insofferente. Optò per fare entrambe le cose, cosa che come le riuscisse non è dato saperlo. « Fai quel cavolo che ti pare » rispose, tornando al suo vino e alla replica alla televisione di un programma qualsiasi che tanto non seguiva nemmeno con attenzione.

Chopper, decisamente spiazzato, lanciò un urlo di festa che fece sbuffare la donna. Era contenta che fosse felice, ma lo sarebbe stata di più se avesse sprizzato gioia da una qualche altra parte della casa.

« Chopper, cosa c’è da essere così felici? » domandò dunque, più per curiosità – e per farlo smettere di saltellare in quel modo ridicolo – che per altro.

Chopper, fermandosi e guardandola con un gran sorriso, disse la cosa che più lontanamente lei avrebbe ritenuto attinente al (breve) discorso appena avuto.

« Perché devo mantenere una promessa! È una missione da pirati! ».

 

Hari ~ sen ~ bon ~ nomasu

...berrai mille chiodi.

 

Mail from: Sanji

To: Chopper

Object: “Ordinidal capitano

Il cervello del capitano ha dato forfeit.

Possibile che non riesca a pensare alle

conseguenze di quello che chiede? Mah.

Comunque, ti passo il testo che mellorin

Nami-swa~n!♥ sta facendo girare a tutti.

Rispondi direttamente all’idiota.

[DATI INCOLLATI]

 

Quando la ragazza aveva ricevuto l’sms del suo “capitano”, qualche ora prima, era nel pieno della sua lezione mattutina di cartografia. Il solo vibracall del cellulare aveva fatto sì che le coste della Groenlandia fossero decisamente più frastagliate del normale, ma ciò che vi era scritto aveva mandato definitivamente per altri lidi la sua concentrazione (e la pazienza del professore, a quanto era parso dall’espressione omicida dipintasi sul suo volto).

Quel ragazzino era pazzo. Sinceramente fuori di testa.

Borbottò qualcosa lungo la strada affollata, costeggiando da lontano il meraviglioso castello Nijo-jo, privato però della maggior parte della sua bellezza dalla stagione estiva. Kyoto, lei lo avrebbe sempre sostenuto, dava il suo meglio durante l’autunno, cioè quando gli alberi caducifoglia riempivano di toni rossi e arancio l’intera città.

Nami era nata in un piccolo paese ai confini orientali del Kanto, Kokoyashi, e lì aveva passato la sua infanzia come figlia adottiva di Bellmere, una marinaia straniera trasferitasi in Giappone. Sua sorella maggiore Nojiko (non di sangue, ma migliore di una vera) abitava ancora lì e coltivava i mandarini che ogni tanto le spediva.

C’erano due cose che Nami adorava: i soldi e i mandarini. Solo dopo un’adolescenza non esattamente tranquilla aveva deciso di trasferirsi a Kyoto per frequentare l’università e diventare cartografa.

A dirla tutta, anche se si lamentava sempre di lui, era stato proprio Rufy a farle decidere la svolta della sua vita. Aveva cominciato a giocare a One Piece da parecchio, quando incontrò la “ciurma” – due uomini su una scialuppa non si possono definire proprio come tale; però... – di Cappello di Paglia.

Lei, all’epoca, faceva la ladra; e nella vita reale coltivava mandarini insieme a Nojiko, sopprimendo il sogno di disegnare di propria mano la mappa del mondo.

Dopo aver incrociato Rufy, seppur non lo conoscesse nemmeno in volto o non avesse mai veramente sentito la sua voce, divenne la navigatrice della ciurma di quello spostato e decise in una notte di realizzare il suo desiderio.

Tutt’ora rincorreva il suo sogno. E non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza, ma lui rimaneva comunque un maledetto malato di mente.

Infilandosi in un vicolo poco distante dal centro città, e tuffandosi nei colori sgargianti di una delle tante vie commerciali, la ragazza si defilò subito in un negozio dall’insegna bordeaux tinteggiata d’oro.

Una libreria d’antiquariato: l’All Sunday.

Aveva conosciuto la giovane proprietaria di quella libreria su One Piece, scoprendo con stupore che era un personaggio inizialmente nemica, poiché arruolata nella Baroque Works, una ciurma sfidante. Un paio di situazioni favorevoli – e l’intervento di Rufy, ancora una volta – avevano portato quella che si faceva chiamare “miss All Sunday” (una coincidenza?), alias Nico Robin, ad entrare a far parte delle “pagliette”.

Da quel momento, Nami non aveva mai smesso di frequentare abitualmente la libreria di Robin.

« Onee-san! » esclamò infatti la navigatrice, entrando dalla piccola porta a vetri e facendo suonare la campanella sopra di essa.

Dalla scrivania a sinistra, immersa nell’aria immobile piena dell’odore tipico dei libri datati, la ventottenne alzò gli occhi da un volume di taglia ammirevole che teneva appoggiato sulle gambe accavallate. Sorrise pacatamente, facendole segno con la mano di avvicinarsi.

Cosa che Nami stava comunque già facendo, e non a passo leggero.

« Quell’idiota del nostro capitano è un’idiota! » disse, sbattendo rumorosamente i fascicoli che portava in mano sulla scrivania in legno di mogano.

« Hai ripetuto l’ovvio » fece notare Robin con una nota di divertimento, osservando l’altra estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloncini a livello glutei.

Nico Robin era nata in un villaggio, Ohara, sperduto in mezzo alle montagne del Kansai. Rimasta orfana per un tragico incendio che bruciò il suo intero paese, aveva viaggiato in lungo e in largo per il mondo, accumulando una notevole conoscenza su cose più varie. Era inoltre archeologa, e solo da poco aveva deciso di rimanere stabilmente a Kyoto, a suo parere la città più bella del Giappone.

Il merito, forse, era da ricondursi a colui che Nami chiamava “capitano idiota”. Poteva sembrare un motivo futile, ma da quando il suo personaggio su One Piece faceva parte della ciurma di Cappello di Paglia, non le andava più di viaggiare da una città all’altra e connettersi quando e se trovava tempo.

Per la prima volta, aveva voluto per la sua vita qualcosa di più stabile.

Per quello aveva aperto la libreria. Aveva unito la sua passione per i libri a quella per le cose antiche, e nonostante il negozio fosse meta di una clientela di nicchia, partecipando ancora a spedizioni archeologiche e facendo da consulente per svariati musei aveva abbastanza entrate da permettersi anche un’affluenza moderata.

« Beh, cos’ha fatto il signor capitano questa volta? » chiese dunque la mora, rimettendo con cura il segnalibro alla pagina a cui era giunta e chiudendo il pesante tomo.

« Ha avuto una delle sue idee che non si possono mettere in discussione. Solo che questa volta non riguarda il gioco! » borbottò contrariata, passandole il cellulare con la mail inviatale da Rufy.

Leggendo, Robin allargò il sorriso che le assottigliava le labbra. « È proprio una cosa da lui » commentò leggermente, ridacchiando appena prima di restituire il cellulare a Nami. « Perché no? » le disse poi.

La navigatrice, completamente stranita, la guardò a bocca aperta. « Non dirmi che vuoi dar retta ai vaneggiamenti di quel pazzo... » ma lasciò cadere non appena vide il suo volto; non c’era nemmeno da domandarselo, dato che Robin sembrava attratta da qualsiasi idea provenisse dalla mente del primate che avevano come capo.

« Non è un’idea così malvagia, alla fin fine. A me non dispiacerebbe conoscere di persona anche gli altri membri della ciurma da 600 milioni di Beri » aggiunse divertita, osservandola.

Erano quei momenti che davano la certezza a Nami di poter dire “questo è un gruppo di svitati che deve far pace col mondo il prima possibile”.

La ladra osservò l’archeologa per un lungo secondo, sospirando poi sopraffatta. Trovava perfettamente inutile discuterne già da prima di entrare all’ “All Sunday”.

« Uffa, vediamo di cercare un mezzo di trasporto decente » si lasciò convincere, togliendosi la borsa dalla spalla e sedendosi in uno dei tavoli di lettura liberi.

Robin continuò a sorridere serafica. « Vado a cercare la cartina della linea ferroviaria » si offrì, dirigendosi verso uno dei tanti scaffali a più piani che riempivano il piccolo negozio.

Dopotutto era una promessa, no?

 

Yubi ~ kitta! ♪

E il tuo dito verrà tagliato.

 

[DATI INCOLLATI:

Mail from: Rufy

To: Nami

Object: giuramento

Ho deciso!

Questa domenica

ci vediamo tutti quanti a Kumamoto[4],

davanti al castello alle 12.

Ordine del capitano!

Avvisa tutti, Nami!

Yubikiri genman~!]

 

Erano passati dieci anni.

Ma nonostante si dica che il tempo, pian piano, cancelli tutto, lui non aveva assolutamente dimenticato quel periodo.

Dieci anni prima, aveva fatto la sua prima promessa a qualcuno.

Sentiva ancora risuonare le loro voci nella mente, se ci pensava; la sua, infantile e ribelle, e quella dell’altro, incrinata da una serietà scherzosa.

Lo chiamavano “il Rosso”, Shanks, ed era una delle persone più ricercate del Giappone. Non sapeva perché, con tutta sincerità, ma quando si era fermato per quasi un anno al villaggio, Rufy aveva trovato in lui un inoppugnabile mentore.

Girovagava, Shanks, da una parte all’altra del Paese. Per questo sapeva molte cose, e gli aveva raccontato ogni sorta di avventura che lui e la compagnia con cui viaggiava aveva affrontato. Voleva lasciare l’isola, prima o poi, e girare il mondo con la sola forza di volontà a fargli da motore.

Lo stimava dal primo momento in cui si erano salutati, Rufy. E lo ammirava così intensamente, che da quel rispetto così profondo ne era nato un sogno.

Il suo sogno. Quello che avrebbe lottato per portare a compimento.

Su One Piece, quel sogno si chiamava “Re dei Pirati”. Nella realtà, in verità, non cambiava poi così tanto.

Avrebbe girato il mondo ancora più a fondo di quanto avrebbe fatto Shanks. Anzi, di quanto aveva e avrebbe fatto chiunque altro.

Perché lo aveva pensato, la prima volta; alzando gli occhi neri su quelli di Shanks, aveva visto in lui la forza di chi non si arrende mai. E nella sua ingenuità di bambino aveva sussurrato a fior di labbra le parole “come un pirata”.

Poi, un giorno, Shanks se ne era andato. Ma aveva lasciato dietro di sé il suo cappello di paglia – un normalissimo cappello di paglia intrecciata con una banda di tessuto rosso – e gli aveva fatto promettere di restituirglielo non appena si sarebbero rivisti.

« Me lo ridarai quando sarai diventato anche tu un pirata ».

Ma Shanks non scherzava, né tanto meno parlava di un gioco al computer. Il Rosso parlava seriamente, Rufy lo aveva capito anche se era piccolo e stupido. Lo stava invitando a raggiungerlo e superarlo... no, gli stava facendo promettere che lo avrebbe fatto, un giorno.

E lo fece intrecciando il mignolo al suo, canticchiando una canzoncina che Cappello di Paglia, nella sua vita di dieci anni più tardi, non aveva ancora smesso di sussurrare, sorridendo.

« Yubikiri genman. Uso tsuitara... ».

« Ancora? » domandò Usopp con tono scocciato, seduto al suo fianco sull’erba. Sbuffava ogni due minuti e, se Rufy non fosse stato più che convinto che la causa di quel nervosismo era il caldo, probabilmente avrebbe risposto a tono e si sarebbero messi a bisticciare come sempre.

« “Ancora” cosa? » domandò allora, sorridendo calmo sotto la tesa del cappello di paglia. L’erba a contatto con le braccia nude pizzicava appena, ma l’ombra di quel verde ciliegio era proprio ciò che ci voleva per combattere almeno un po’ la calura di mezzogiorno.

« Quella canzoncina. Lo so che te l’hanno promesso, ok? Ma io non vedo ancora nessuno! » si lamentò il cecchino, slacciandosi la salopette per farsi aria con la maglietta. Rufy ridacchiò.

« Cosa c’è di così tanto divertente? » brontolò allora l’altro, ancora accaldato.

« Usopp, sembri seduto su degli spini. Verranno, ne sono sicuro » pronunciò il capitano, portandosi le mani dietro la nuca e chiudendo gli occhi.

Sentì però il riccio esprimersi in un ringhio sbuffato. « E come cavolo fai a dirlo? Prendi Chopper: viene dall’Hokkaido, hai presente? Sai che sta dall’altra parte del Giappone rispetto a qui? » si lamentò: « ah... ho mal di stomaco. Penso che mi stia tornando la malattia del non-posso-rimanere-qui-un-minuto-di-più... » aggiunse.

Rufy rise di nuovo, trovando decisamente ridicola la preoccupazione perenne del compagno. Era da quando avevano preso il traghetto a Sakaiminato che non rimaneva fermo o zitto per più di un minuto. All’inizio aveva pensato che avesse mal di mare, ma ora era palese che fosse un fascio di nervi a causa dell’incontro con gli altri.

« ...comunque è mezzogiorno e un quarto » disse di nuovo, dopo qualche minuto di silenzio.

« Usopp, se continui così verrà l’ulcera anche a me ».

« A dire il vero non capisco come fai a stare così tranquillo. Anzi, come fai a fidarti! Dopotutto non li abbiamo mai visti. E se sono tutti lottatori di sumo? O di wrestling? O della yakuza? ».

« Certo, perché non anche astronauti già che ci siamo? ».

« Ehi, non sfottermi, ok? Non farlo ».

« Ma dai! Sei ridicolo! ».

« E non ridere! ».

Mentre Rufy se la rideva della grossa, Usopp finalmente trovò l’occasione di zittirsi per più di sessanta secondi. Fu però Rufy ad interrompere quella pausa, questa volta.

« Tempo fa, un amico mi ha detto che lo Yubikiri è un giuramento che non si può rompere. C’è un filo rosso al mignolo delle persone che giurano, così che siano legate fra loro finché la promessa non è mantenuta, o infranta » disse, sorridendo ma con tono più serio del solito.

Il cecchino lo guardò con la coda dell’occhio. « E con questo? » insistette, non contento.

« Prendi, guarda i messaggi ricevuti » se ne uscì poi il capitano, passandogli con un gesto veloce il proprio cellulare. Usopp, più per fare qualcosa che per vera curiosità, seguì il consiglio del moro.

Il primo messaggio registrato, l’ultimo inviato in ordine cronologico, era di Nami. Un inquietante “ti prometto che domenica quando ti vedo ti prendo a calci!”, ma nonostante la minaccia ne confermava la presenza.

Il secondo era di Robin, inviato poco prima di quello della navigatrice. Si limitava ad un “ci sarò”, ma dava comunque l’idea di qualcosa di rassicurante.

Poi, Chopper. Aveva scritto un sms pieno di punti esclamativi, ma in pratica diceva di avere avuto il permesso da Doctorine – e chi cavolo era Doctorine?! – e che avrebbe preso la nave la notte prima. Usopp pensò semplicemente che il ragazzino fosse pazzo, ma non commentò.

Seguivano Franky, che rispondeva con un criptico “ci sono SUPER sicuramente!”, e Brook, che nel digitare “Yohohohoho~, agli ordini!” aveva preso quasi due righe di testo solo con la risata.

In ultimo Sanji, con un falsissimo “ci vengo solo perché ci sono anche Nami-swan e Robin-chwan” e Zoro, il più veloce di tutti a rispondere e quello che aveva lasciato, forse, l’sms più significativo.

Yubi kitta”.

Non seppe dire cosa lo calmò, nel leggere quelle risposte. Forse il fatto che ognuno avesse risposto all’iniziativa del loro strambo capitano, oppure che avessero promesso tutti quanti di essere presenti a quell’incontro organizzato in fretta e furia.

Per un minuto, rifletté su cosa avesse Rufy di speciale per riuscire in una cosa simile. Per far sì che tutte le persone che incontrava si fidassero di lui, e fossero immancabilmente dalla sua parte.

Per dare il significato di un giuramento di sangue ad una canzoncina per bambini.

« Usopp » si sentì chiamare, e per reazione si girò verso l’altro. « Se tu non abitassi nel villaggio poco distante dal mio, e non mi conoscessi di persona come tutti gli altri, saresti venuto? » gli domandò, probabilmente cogliendolo di sorpresa.

Non riusciva a vedere i suoi occhi, nascosti dal cappello, ma aveva intuito che questa era ancora una domanda che rientrava in quel raro 2%. Sospirò, però, perché la risposta era una sola e già la sapeva senza bisogno di pensarci.

« Sì » disse infatti.

Rufy sorrise. « Allora verranno anche loro » affermò con sicurezza.

 

Yubikiri genman.

Uso tsuitara,

hari sen bon nomasu.

Yubi kitta.

 

A distanza di anni, il ricordo di quella giornata è custodito gelosamente da una fotografia di gruppo, scattata ai piedi del castello di Kumamoto.

E tante, tante altre. Di anno in anno, di album in album, sempre più fotografie testimoniano il loro forte legame; nato in condizioni non proprio convenzionali, ma speciale come e forse più di altri.

Il filo rosso del giuramento, che univa le loro dita... non è mai stato spezzato.

 

Yubikiri genman.

Giura insieme a me.

 

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1. Ho lasciato i nomi della tecniche d’attacco in giapponese, perché io mi ritengo una maledetta purista XD la traduzione, anche se intuibile, è la seguente:

Hanauta sanchou: yahazu giri (Tre passi in leggerezza: colpo cocca di freccia)

Santoryu: Oni Giri (Tecnica Tre Spade: Taglio dell’Orco)

Gomu gomu no rocket (Razzo Gum Gum)

 

2. La "Jolly Roger" è la bandiera nera con il teschio, classica dei pirati.

 

3. Il dojo di kendo "Kyumeikan" esiste veramente.

 

4. Kumamoto (Kyushu) è il luogo di nascita di Eiichiro Oda. Una sorta di tributo, chiamatelo così.

   
 
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