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Autore: Mitsutsuki    18/08/2010    2 recensioni
Bisogna seguire i gusti della massa, signor Attaway.
La massa ci governa, ci sovrasta, ci domina dai suoi palchi lassù. Vede?
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Serie: Original
Capitolo: 1/1
Note: Vi è mai capitato di mettervi davanti alla pagina bianca e di lasciare battere le dita senza avere praticamente nulla di prefissato in mente? Ecco che ne è venuto fuori.
Disclaimers: Eli Attaway e Eric Cooney sono © mio-mio-mio-e-solo-mio. Scopiazzate e vi strofino col WC Net.

One Shot


Bisogna seguire i gusti della massa, signor Attaway. La massa ci governa, ci sovrasta, ci domina dai suoi palchi lassù. Vede?
Con rispetto al mio editore, alzando gli occhi ho notato solo un lampadario a fiore pendere sulla mia testa, lapidale come la lama di una ghigliottina.
E per quanto riguarda la massa, ha gusti discutibili, che vanno quindi discussi. Comprendo che un racconto in prima persona coinvolga il lettore e gli faccia vestire i panni dell’eroe a tal punto che potrebbe avvicinarsi al libro munito di mantellina e occhiali da visione notturna, ma c’è chi può e chi invece fallisce.
E mano a mano che procedo con queste poche righe, mi rendo amaramente conto di appartenere alla seconda categoria. Ridatemi i romanzi in terza persona.

Provi a raccontare di un fatto personale, giusto per esercitarsi. Signor Attaway,” e qui l’editore mi ha stretto le mani tra le sue e ha contratto la bocca come ho immaginato fare a certi miei personaggi in una posa esageratamente melodrammatica, “so che può farlo.
Non credo di non saperlo fare. Non è questo il punto. Se m’ispirasse potrei persino raccontare di quel netturbino che si vede ogni tanto in zona e si rivolge ai sacchi della spazzatura con titoli onorifici quali My Lord e My Lady a seconda del peso di questi.
Il mio problema temo sia essere il fatto personale.

Volendo scrivere di se stessi, bisogna che ogni singolo soggetto con cui si è in rapporto sia d’accordo alla stesura, per lo meno per quanto concerne la loro comparsa in scena.
Successivamente, discutere del lato economico, delle percentuali, in un susseguirsi di: “Ma se diventa best-seller e ci fanno un film, potrò avere la mia parte?” e passare il quarto d’ora seguente a domandarsi se per ‘parte’ s’intenda dal punto di vista esclusivamente remunerativo o di vera e propria ‘parte cinematografica’.
Per amor di cronaca, non hanno mai tratto niente dai miei libri.
L’unica persona che so per certo non mi darebbe problemi, perché attualmente troppo impegnato ad annegare i propri dispiaceri in una bottiglia di birra analcolica, è il mio coinquilino.
E’ un pittore. E come tutti i pittori si ritiene incompreso persino da se stesso.
I fatti personali sono molteplici, condividendo entrambi un lavoro che non richiede alcuno spostamento oltre al coprire la distanza che va dal letto alla sala da pranzo. Per nostro sommo cordoglio non disponiamo di uno studio personale nemmeno per uno solo di noi e la tastiera del mio portatile porta ancora i segni di questa mancanza: due chiazze bluastre nei pressi del tasto d’invio. Piuttosto artistiche, devo ammettere.

Tergiversando, ho deciso di quale episodio raccontare.
Il calendario in cucina segnava pigramente il 13 Agosto. A fianco della data, un trentotto accompagnato da un cuore spezzato stilizzato. 

Trentotto giorni da che Emily Lyton, squisita ventinovenne dall’accento nordico, aveva fatto sapere ad Eric che il loro fidanzamento era giunto al termine. La causa sembrava essere una divergenza di opinioni di cui, ancora oggi - sessantaquattresimo cuore spezzato -, Eric non è in grado di capacitarsi. Succede che rantoli di una carta da parati a fiori, che lei voleva a quadri, ma preferisco non scendere nei particolari.
— Credi che dovrei darmi una mossa, vero? — Mi disse, leggendo la mia espressione sconcertata davanti alla dedizione con cui teneva conto dei giorni dall’addio di Emily — Forse dovrei tornare a dipingere. —
Quella era un’ottima notizia, un toccasana alla mia ispirazione.
Per quanto oggettivamente non siano nulla di eccezionale, i quadri di Eric sanno sempre come riconciliarmi al mio elaboratore di testi.
Non scrivevo da parecchio, se non qualche trama abbozzata su dei post-it, abbandonati a trovare da soli la via per il cestino della carta.
— Sì, dovresti. — Assentì, probabilmente troppo fiducioso in una così rapida ripresa da parte del mio coinquilino.
Sembrò voler cercare un’ulteriore conferma nella sua tazza di caffè. Non mescolò lo zucchero al solo scopo di vederne la disposizione sul fondo, in una sorta di pratica divinatoria di sua invenzione.
— Un cerchio. — Osservò, tastando lo zucchero con un cucchiaino — Morbido. Scurito dal caffè. — Alzò lo sguardo verso di me — Credo sia un buon segno. —
Annuì con esagerata convinzione, dato che esperimenti successivi mi hanno dimostrato che difficilmente lo zucchero non mescolato si presenta in altro modo.
Si mise in piedi come rigenerato da una nuova forza invisibile che lo eccitava. Sorrideva, finalmente.
Inspirò a fondo, inebriandosi dell’aria mattutina, e si diresse a spogliarsi della camicia a quadri che portava addosso da più di un mese.
Mentre scorreva l’acqua della doccia, mi figuravo il mio ricongiungimento con Word sullo sfondo di un poetico tramonto estivo, entrambi impazienti di rifugiarsi tra le braccia dell’altro. E il mio editore avrebbe potuto mettersi l’animo in pace e smettere d’inviarmi e-mail con le quali, in parole più o meno ricercate, m’invitava ad incatenarmi al tavolo finché non avessi tirato fuori qualcosa di vendibile.
Anche a me il fondo della tazza sorrideva e trasmetteva ottimismo.

Ma Eric non tornò a dipingere. I suoi pennelli furono relegati in un angolo a prendere polvere per altre due settimane e quattordici cuori spezzati.
Stavo mentalmente maturando l’idea che il caffè amaro nuocesse gravemente alla sua salute, mentre, in uno stato di evidente agitazione, m’informava di volersi fare missionario.
Feci aderire la schiena alla sedia, portai indietro le spalle e congiunsi le mani sulle ginocchia. Sul viso, mi dipinsi l’espressione del buon padre di famiglia: quello che dà dell’idiota in silenzio.
— Il missionario, Eric? — Domandai, sperando di aver frainteso. O che fosse sul punto di scoppiare a ridermi in faccia per averlo preso sul serio.
Un vigoroso cenno del capo fece crollare ogni mia speranza.
— E perché? —
— L’umanità. — Mi rispose con occhi trasognati in una visione di pace globale e arcobaleni riflessi nelle acque cristalline di un lago in montagna.
Per dare maggiore credito alla sua redenzione, aveva indossato una polo marrone, in tinta con un paio di pantaloni, che nemmeno ricordavo avesse mai avuto, e dei mocassini. Non dubitavo che, se l’avessi lasciato uscire, si sarebbe precipitato a comprare dei sandali alla S. Francesco d’Assisi.
Inspirai, come ponderando la cosa.
— E’ una scelta importante, Eric. Certo, potresti sempre decidere di mettere all’asta i tuoi quadri e dare il ricavato in beneficenza. Anche questo aiuta l’umanità. — “E me”, pensai, “se torni a dipingere.
Osservai la fronte di lui ospitare una ruga di disappunto.
— Voglio agire in prima persona! Devo sentire l’umanità inebriarmi, immergermi in essa e lei in me. —
Tuttora fatico a comprendere il significato di queste parole.
In ogni caso, dovetti richiamare a me tutto l’auto-controllo di cui disponevo, per mantenere vivo il mio proposito di non farlo rinsavire sfruttando un’arma impropria quale un soprammobile.
— Intendi — Azzardai dopo un istante— Partire per l’Africa? —
— Esattamente! —
Non credo desiderassi davvero una risposta.
Nel giro di un’ora, Eric era davanti alla porta con uno zaino verde in spalla e un cappello da baseball calato sugli occhi.
Era deciso, era convinto, sembrava crederci davvero.

Rimasto solo nell’appartamento, mi tenni ragionevolmente lontano da qualsiasi mezzo di comunicazione che mi permettesse di rendere noto all’editore il mio fallimento come scrittore e coinquilino.
E’ impossibile”, mi ripetevo, “Che trovi un volo. Non ha soldi” e, voltandomi verso il portafogli abbandonato in nome della povertà, “Non ha nemmeno un documento.
Senza contare con quale espressione se ne stava andando in giro! Come se fosse stato circondato da luci psichedeliche, mentre cori di voci angeliche inneggiavano alla pace del mondo e all’amore fraterno, indicando la via più breve alla resurrezione.
Fiducioso in un prossimo ritorno di Eric, non mi preoccupai d’altro se non di svuotare le bottiglie di birra alcolica e travasarvi all’interno di analcoliche. Ho impiegato quasi un mese per scovare una marca sufficientemente buona da ingannarlo ed un aggeggio che mi permettesse di richiudere le bottiglie come mai aperte.
Compatitemi: se da lucido decide di fare il missionario, non voglio immaginare da ubriaco! Oltre ad appellarmi ‘Natasha’ e credersi il presidente degli Stati Uniti, s’intende.

Come avevo previsto, Eric rincasò qualche ora dopo. Scaricò zaino e cappello sulla soglia, tornò ad indossare la camicia a quadri, e si gettò sul divano come trafitto dall’ombrellino da cocktail che stringeva nella mano destra, all’altezza del cuore.
Congiunsi le mani dietro la schiena, avvicinandomi circospetto.
Attesi paziente la confessione del fallimento di un’intera esistenza.
— Perché — mormorò poco dopo, l’avambraccio sinistro a coprire la fronte — perché dovrei salvare un’umanità di cui fa parte anche quel... quel... quel colore sbiadito? —
Inarcai le sopracciglia.
Proseguì — Quel tale non la merita! Lui non capisce quanto io, io solo, l’amassi! —
Procedendo per associazioni, colore sbiadito era il nuovo compagno della signorina Lyton. E come il Detective Christopher dei miei romanzi avrebbe modo di farmi notare, l’ombrellino di carta suggerisce che li abbia scoperti a bere insieme e che ogni suo fraterno proposito di fare del bene al mondo sia annegato nei loro cocktail e nel loro tenersi amorevolmente per mano.
Presi una bottiglia di birra dalla cucina e gliela porsi. Cominciò a scolarsela senza batter ciglio.
— L’umanità non merita di essere salvata. —
— Per uno solo? — Non resistetti a domandargli.
Annuì, squadrando l’ombrellino ancora in mano come per incenerirlo.
— Per uno solo. —

Eric non è cattivo. Non è nemmeno pazzo, come si potrebbe evincere da questo racconto.
E’ solo un pittore che non vende e un innamorato non ricambiato. Cerca di distrarsi come meglio può. Fosse facendo il missionario o addestrando cani.
Forse un giorno potrò scrivere di un tale, terrorizzato dalle grosse taglie, che insegnò a cantare “Buon Compleanno” ad un chihuahua.
Riflettendoci, sarebbe meglio di no. Decisamente.

Gentile Editore,
le invio questo racconto per dimostrarle l’impegno con cui mi sono avvicinato alla scrittura in prima persona.
Nella speranza che comprenda le mie ragioni, la informo che ho deciso d’ignorare quella massa che governa, sovrasta e domina noi scrittori e di procedere alla stesura di un nuovo romanzo in terza persona.
Il personaggio del missionario volubile non è così male, non trova?

Cordiali Saluti,
Eli Attaway

  
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