“Forza
pivello, entri
per primo.” Ridacchiò il Capitano, sistemandosi
con cura la fascia
verde brillante sul braccio destro.
Il “pivello”, com'era
stato definito, abbozzò un sorriso, allacciandosi l'ultimo
bottone
della casacca. Il suo numero, uno, luccicava argentato sotto il suo
cognome, ricamato sulle sue ampie spalle.
Il ragazzo inspirò il
profumo di bucato che emanava quella divisa, color quadrifoglio,
così
tanto desiderata, osservandosi nello specchio dei bagni, nello
spogliatoio. Guardò il Capitano, sentendosi onorato di
giocare al
fianco di un così grande campione.
Sorrise, pensando a
quando, anni prima, aveva trovato la sua figurina all'interno di una
confezione di Cioccorane, sdraiato sul letto, nel suo dormitorio, ad
Hogwarts.
Era talmente contento che
si era persino lasciato sfuggire la ranocchia, ma al momento non gli
era importato molto: i suoi occhi di undicenne erano persi ad
osservare il mantello verde di quel giocatore. Una dicitura
riportava, in basso, la scritta “Irlanda”.
Si incamminò a passi
incerti, emozionato, verso la rastrelliera all'imbocco del corridoio,
che li avrebbe portati verso il campo da Quidditch.
Il Capitano e il resto
della squadra lo imitarono, afferrando ognuno la propria scopa. Il
giovane fece scorrere le dita sul legno liscio del manico, restando
meravigliato, come fosse la prima volta, della perfezione, della
levigatezza con cui era stato intagliato. Osservò la scritta
incisa, fatta a mano, senza magia, e lesse piano:
“Thunderbolt”. Quello
era il manico di scopa della nazionale, come anche quello degli
Shamrocks Eire, squadra di prima divisione del campionato britannico
in cui militava.
Mentre s'incamminava nel
lungo corridoio, una vecchia Comet 260, cavalcata da un se stesso
molto più giovane, nei cortili di Hogwarts, fece capolino
nella sua
testa, e il ragazzo sorrise, con dolcezza, ma anche con un po' di
nostalgia.
Erano passati pochi anni,
eppure sembrava un secolo. Tanti volti di amici gli apparvero davanti
agli occhi, tanti compagni di squadra di una partita ben più
importante di un match di Quidditch, oggi non erano più con
lui. Il
sorriso si trasfigurò in una lieve smorfia di tristezza.
I suoi ricordi tornarono
alla sua adolescenza, alle partite combattute fino allo stremo, alle
rivalità scolastiche, ai duri allenamenti sotto la pioggia,
fino a
mezzanotte, a quando spesso sacrificava un po' di divertimento e un
po' di studio, per la sua grande passione, il Quidditch.
Si incominciava ad
intravedere, intanto, la fine del corridoio, e il rumore della
folla, man mano che la squadra si avvicinava al campo, si faceva
sempre più assordante. Il giovane si sentì
tremare, immaginando le
migliaia di persone assiepate nelle tribune dello stadio, sventolanti
bandiere, esultanti e pronti a festeggiare l'ingresso in campo dei
giocatori.
Non era certo la prima
volta che prendeva parte ad una partita importante, ma mai aveva
avuto l'onore di militare nella sua nazionale. Quello era sempre
stato un sogno, un desiderio così ardente da spronarlo
sempre a fare
il massimo.
Si sistemò un'ultima
volta i guanti e le polsiere di cuoio, con cura, con un gesto
meccanico, un po' scaramantico, che ormai era diventato quasi un
vizio, prima di qualunque partita.
Il Capitano lo affiancò
mentre salivano su quello che sembrava un enorme montacarichi, che li
avrebbe portati dal piano seminterrato al campo da gioco.
“Emozionato?” Chiese
al ragazzo, cortesemente.
“Un po'”. Ammise
quest'ultimo con un sorriso.
“Anche io lo ero al mio
esordio, e pensa che non ho nemmeno giocato tutta la partita! Un
bolide mi colpì dopo tre minuti.... E mi risvegliai in un
lettino
con un'infermiera assillante che inveiva contro il
Quidditch!”
Ridacchiò l'uomo, sornione. Al ragazzo quest'ultima frase
ricordò
una scena giù vista, come fosse un deja-vù di una
conversazione
avvenuta molti anni prima.
“Sai Capitano, questa
divisa, è l'unica di colore verde che abbia mai desiderato
indossare.”
“Uhm... Un orgoglioso
Grifondoro!” Esclamò il Capitano, sornione,
alzando un
sopracciglio.
“Ancora oggi e per
sempre”. Disse con aria di sfida il ragazzo fissando la fine
del
tunnel sopra di loro. La folla era sempre più rumorosa,
poteva
percepire distintamente il rumore di centinaia di trombette, lo
scalpiccio di migliaia paia di scarpe sopra la sua testa. L'odore
fresco di erba appena tagliata si impossessò delle sue
narici,
mentre lo aspirava avido. Aveva sempre amato quel profumo, che sapeva
di agonismo, di terra umida, di diluvi così scroscianti da
appesantirti al punto da rendere difficile il volo, di nebbie
così
spesse da non riuscire a distinguere un bolide da una pluffa. Se il
Quidditch fosse stato un profumo, probabilmente sarebbe stato quello.
“E ora signori e
signore, qui è il vostro Lee Jordan, che vi da il benvenuto
alla
quattrocentoventitreesima finale della Coppa del Mondo di
Quidditch!”
La folla ruggì, mentre
il ragazzo si ritrovò nuovamente catapultato nei suoi
ricordi di
studente, a quella voce così familiare che l'aveva
accompagnato in
decine di partite. Era ancora squillante, come un tempo, ma il
giovane sapeva che Lee, come lui, non era più lo stesso.
Dopo quella
notte di combattimenti nelle mura del Castello che una volta aveva
ritenuto il luogo più sicuro al mondo, niente era
più stato come
prima. Erano cresciuti, diventati forzatamente adulti in poche ore.
Non era stato più tempo per il Quiddtch. Non era stato
più il tempo
per la gioia, ma per il dolore, per la tristezza. E ora.... Ora era
giunto il momento della rinascita, il momento di guardare avanti.
Hogwarts era stato il suo
passato, in qualche modo era ancora il suo presente, ma ora, si disse
il ragazzo, fissando il campo davanti a sé, le tribune
gremite, gli
striscioni, i moltissimi volti, che lo fissavano lì, sulla
porta di
accesso al campo, come in un eterno attimo, ora esisteva solo il
futuro, il Suo futuro.
Trattenne il respiro,
sentendo ancora una volta Lee Jordan prendere la parola.
“E ora voglio che
facciate un grande applauso ad un giovane campione d'altri tempi, in
cui il Quidditch era meno Thunderbolt e molto più sudore, un
uomo
d'altri tempi, per un gioco d'altri tempi! Portiere dei vincitori
della Europe League, gli Shamrocks Eire, al suo esordio in nazionale,
un bell'applauso a.... OLIVER BASTON!” Tuonò,
mentre la folla
esplodeva urlando, battendo le mani.
Oliver mormorò,
schiudendo appena le labbra, un silenzioso “su”,
per poi
lanciarsi fuori, in mezzo allo stadio, in volo, come un fulmine
verde, con un sorriso. Oggi non esistevano più né
Serpeverde, né
Grifondoro, oggi era davvero tutto solo suo. Si librò
nell'aria,
pronto ad affrontare, indipendentemente dall'esito dell'incontro, una
nuova fantastica avventura.