ESCAPE, via di fuga.
Suo padre
urlava, urlava come un pazzo già da dieci minuti. Urlava tanto da
far venire mal di testa.
Sirius lo
guardava senza dire niente, ancora seduto davanti al suo piatto.
La cosa
buffa era che già non ricordava più cosa avesse fatto -o meglio,
cosa non avesse fatto per
rendere il suo caro papà così... viola.
Prese
in mano la forchetta d'argento con inciso lo stemma dei Black.
Diamine, non aveva ancora finito di mangiare. Infilzò una foglia di
insalata verde e se la portò alla bocca. Sotto i denti rivelava
quella sua natura croccante che a Sirius faceva proprio schifo.
«Che
stai facendo?» sillabò suo padre, puntandogli gli occhi arrabbiati
addosso.
Sirius
alzò le spalle. «Ho fame».
«Ma
allora non mi ascolti proprio, eh?!». Il viso del signor Black
divenne, se possibile, ancora più viola. Una vena iniziò a
pulsargli sul collo. «Parlo per caso a vanvera, disgraziato?».
Oh.
Ecco perché avevano iniziato a discutere. Per il modo in cui
lui metteva in bocca l'insalata, facendo un sacco di smorfie.
Sirius
si rigirò la forchetta fra le mani. Ogni sera era la stessa storia,
per un motivo e per l'altro qualcuno finiva per urlargli addosso.
Ormai era una cosa trita e ritrita, oltre che fastidiosa.
Lasciò
cadere la forchetta nel piatto e si spinse indietro con la sedia.
Credeva che smettendo di mangiare la discussione si sarebbe chiusa
lì.
Evidentemente,
quella sera non era delle più fortunate, per Sirius.
«Stai
attento con quelle forchette, ragazzo, sono antiche! Portano lo
stemma dei Black!».
Incapace
di trattenersi, Sirius sbottò: «Allora?».
Guardò
il vecchio dritto negli occhi, con insolita insolenza anche per lui.
Per un attimo, riuscì a zittire anche Orion Black. Fu solo per un
attimo. L'uomo si sporse minaccioso verso il figlio, il busto mezzo
appoggiato al tavolo ancora apparecchiato di tutto punto.
«Che
cosa hai detto?» sibilò minaccioso. «Ripeti».
Sirius
si alzò in piedi. Era quasi alto come lui, ormai. Qualcosa in questo
lo faceva sentire potente, padrone della situazione per la prima
volta dopo sedici anni di soprusi. Era come se una nuova e potente
energia affluisse e defluisse continuamente dal suo corpo. Sapeva
bene cosa fosse l'adrenalina, la sperimentava una volta al mese,
durante l'anno scolastico ad Hogwarts, ma quello era molto, molto
di più.
«Ho
detto» esordì a voce chiara, «che non mi interessa, se queste
forchette sono antiche o se portano lo stemma dei Black. Abbiamo
tanti soldi, potremmo comprarne di nuove, invece che usare quelle di
due secoli fa, non ti pare? È anche questione di igiene».
Sorrise
fra sé. Il discorso dei soldi e dell'igiene non era per niente
necessario, era ovvio anche per lui, ma non era riuscito a frenare la
lingua. Aveva detto ciò che pensava, comunque; e in ogni modo, visto
che aveva iniziato, tanto valeva, per una volta, calcare bene la
mano.
A
quel punto intervenne anche sua madre, profondamente urtata da quella
frecciatina palesemente diretta a lei: «Sirius, taci, non ti
permetto di parlare così a tuo padre».
«Chiudi
la bocca, donna, nessuno ti ha interpellato» sputò con cattiveria
il signor Black. «E tu... tu, piccolo ingrato... vuoi dire che il
tuo cognome non ti interessa?».
Sirius
sorrise, sardonico. «Finalmente ci sei arrivato» rispose con
sarcasmo. «E
la vuoi sapere un'altra cosa? Sono definitivamente convinto, così
come lo ero a dieci anni, che il tuo sangue sia esattamente uguale a
quello di un mezzosangue, sotto ogni punto di vista».
Aveva
esagerato davvero, lo sapeva così come sapeva cosa aspettarsi come
punizione. Capitava che suo padre diventasse un tipo violento, ed era
successo per molto meno.
Eppure
se ne fregava altamente. Quella sensazione di onnipotenza lo
pervadeva ancora. Si sentiva invincibile, voleva godersela fino in
fondo.
Fu
un attimo. Orion fece il giro del tavolo a grandi passi. Sembrava un
toro infuriato. Sirius aveva voglia di ridere, così da buttargli in
faccia il suo disprezzo, così da ripagarlo con la stessa moneta.
Non
ne ebbe il tempo. Si ritrovò scaraventato sul pavimento, la mascella
dolente. Un attimo dopo, invece, eccolo con i piedi sollevati da
terra, il colletto della camicia che gli sfregava il collo.
La
faccia iniziava a fargli male veramente. Gli sarebbe uscito un
livido. Ci sarebbero state domande... Avrebbe sempre potuto mentire,
vantandosi di essere stato coinvolto in una rissa.
«Sei
ancora convinto che i Black contino come un sangue sporco qualunque?»
gli alitò in viso.
Per
una volta ancora, il giovane lo guardò con la sfida e il fuoco negli
occhi.
«Sì,
papà».
Evitò
di sbattere il sedere a terra e di fare un male assurdo atterrando in
piedi, come un gatto.
Rise.
«Ah, papà, papà. È questo che ti hanno insegnato, in anni e anni
di nobiltà? Ad essere un violento, pronto ad uccidere tuo figlio per
i tuoi stupidi ideali?».
Orion
sfoderò la bacchetta di legno scuro. La puntò contro il
primogenito. Sirius alzò le mani.
«Fai
quello che devi fare e facciamola finita».
Aveva
paura, con sé stesso non poteva negarlo. Non aveva propriamente
paura di morire -era sin troppo caparbio e sfacciato per averne. Più
precisamente, aveva paura che ad ucciderlo potesse essere davvero suo
padre. Temeva che davvero ritenesse più importanti le tradizioni che
suo figlio.
Una
parte di lui desiderava che sua madre si mettesse in mezzo, che
cercasse di salvarlo.
Beh,
quella era pura utopia.
Sirius
chiuse gli occhi. A scuola gli era stato insegnato che la più
terribile fra le maledizioni senza perdono scatenasse una forte luce
verde. Se proprio doveva morire, desiderava farlo senza prima
accecarsi.
Mentre
aspettava apparentemente placido il compiersi del proprio destino, le
ossa iniziarono a bruciare. Dopo le ossa vennero i muscoli, e dopo i
muscoli il cervello.
Mille
e più lame lo trafiggevano ogni singolo centimetro del suo corpo.
Erano violente, erano gelide. Erano schegge di ghiaccio pronte a
conservarsi per sempre in lui.
A
quel punto sarebbe voluto andare dal suo insegnante di Difesa Contro
le Arti Oscure e urlargli addosso. L'Avada Kedavra non era la
peggiore delle Maledizioni Senza Perdono.
La
morte non era nulla, a confronto.
Pensò
che quel dolore se lo sarebbe ricordato per tutta la vita. La morte
avrebbe cancellato ogni ricordo, invece. Con la morte si sarebbe
dimenticato del disprezzo e della follia impresse nel volto di suo
padre; sarebbe stato dimentico anche del volto impassibile di sua
madre.
Il
dolore se ne andò così com'era venuto.
Era
accucciato a terra, interamente tremante. Cerco di alzarsi, ma le
gambe cedettero. Picchiò il labbro contro il pavimento. Il sapore
intenso e dolciastro del sangue gli invase la bocca.
Sputò
a terra, ma il sangue continuò a defluire.
«Sparisci».
Chiuse
la porta dietro di sé senza farla sbattere. Si asciugò con il dorso
della mano il sangue che ancora gli colava dal labbro. Appoggiò la
schiena alla porta. Era sfinito.
Il
letto lo guardava, invitandolo a stendersi.
Con
una spinta delle braccia riuscì a staccarsi dalla porta.
Barcollando, riuscì ad arrivare al letto. Ci si buttò a peso morto.
Chiuse gli occhi. Il buio era accogliente e fresco.
Ma
ovviamente c'era chi doveva interrompere anche quel momento.
«Fuori»
ruggì. Sapeva benissimo di chi si trattasse. Regulus era l'unico, in
quella casa, a prendersi la briga di entrare in camera sua, per di
più senza bussare. Puntualmente, però, Sirius lo rispediva fuori.
Quella volta però la cosa era un po' più complicata, da fare.
Era
complicato anche aprire gli occhi, talmente se li sentiva pesti.
Sirius
sentì la voce altezzosa di Regulus dire, con assoluta noncuranza:
«Ho sentito un fracasso enorme, cosa hai combinato, questa volta?».
Qualcosa
scattò dentro di lui. Rabbia. Indiscutibilmente, quella era rabbia.
Tutti,
nella sua famiglia, davano per scontato che fosse sempre lui, Sirius,
a comportarsi male, suo fratello compreso. Poi ci si chiedeva perché
lui e suo fratello non avessero un rapporto.
«Mettevo
in bocca le foglie d'insalata in modo sbagliato per nostro padre».
Il
tono tagliente, l'espressione stranamente feroce e i diversi lividi
fecero arretrare Regulus di qualche passo. Si era alzato da tavola
ancor prima che il litigio scoppiasse.
Senza
sapere bene perché, iniziò a ridere.
«Dai,
Sirius, non ci credo. Che hai fatto? Questa volta ti ha conciato
proprio male».
Sirius
sgranò gli occhi. Ciò che aveva appena sentito... no, non poteva
essere reale. Suo fratello aveva appena riso. Riso del fatto che
fosse stato picchiato e cruciato dall'uomo che aveva dato loro la
vita.
«Io
non ci trovo niente da ridere, idiota» ribatté, sempre più
furioso. «Sono appena stato cruciato dall'uomo che tu ammiri e
stimi, fratellino. Se la cosa ti fa ridere complimenti, sei
riuscito nell'impresa».
«Quale
impresa?» chiese di rimando Regulus. A volte Sirius faceva discorsi
strani ai quali faticava a star dietro.
«Quella
di diventare un vero e proprio Black, Regulus».
Il
tono non lasciava spazio a dubbi: lo biasimava.
Regulus
non ne fu affatto sorpreso. Sin da quando erano piccoli il ribelle
Sirius aveva cercato di convincerlo del fatto che i loro genitori si
sbagliavano, che la purezza del sangue fosse solo una fantasia da
maniaci. Non che avesse avuto successo, comunque.
Regulus
alzò gli occhi al cielo. «Sirius, smettila di fare la vittima».
«Io
non faccio la vittima! IO SONO LA VITTIMA!» urlò. Per un
attimo temette di svenire. Cercò di calmarsi. «Non sei tu ad essere
trattato così, Regulus, non sei tu».
Anche
Regulus alzò la voce. Se c'era una cosa che non sopportava, era che
Sirius gli parlasse in quel modo. «Hai ragione Sirius, non sono io a
essere trattato così da papà e lo sai il perché? Perché io non
faccio discorsi che mi portano a... a questo!».
Con
un gesto della mano, Regulus indicò il viso segnato del fratello
maggiore.
Sirius
raccolse le forze e si alzò dal letto.
«Li
faccio per te, questi discorsi. Li faccio perché tu non sia un
burattino alla ricerca di potere. Li faccio perché tu non ti faccia
coinvolgere in qualcosa di troppo grosso. Li faccio perché il mondo
non cada in disgrazia. Sei tu a non voler capire che siete tutti nel
torto».
Si
guardarono in cagnesco per un attimo, occhi negli occhi, entrambi
troppo ostinati per abbassare lo sguardo per primi.
Alla
fine Regulus depose l'ascia di guerra. «Lascia che ti medichi,
fratello».
Protese
una mano per stringere quella di Sirius. Avevano litigato tante
volte, ma dopo avevano sempre fatto pace. Non si odiavano e non si
amavano, né erano pronti a prender parte alle battaglie dell'altro:
erano semplicemente due persone che abitavano assieme e che cercavano
di sopravvivere.
Ma
Sirius non allungò la mano in segno di resa.
Fra
le tante cose, era anche stufo di quell'assurda condizione con suo
fratello. Odiava tutto, tutto di quella casa.
«Non
chiamarmi fratello» gli disse in un sussurro. «Un fratello... un
fratello non si comporterebbe mai così».
Su
quelle note, Regulus capì di dover uscire di scena.
Sirius
si rigirava nel letto. Si era guardato le ferite allo specchio, poco
prima. Era stato sollevato nel constatare che, a parte l'ematoma
violaceo in viso e il taglio sul labbro, tutti i lividi che pensava
di avere erano immaginari.
Girandosi
da un lato, si trovò faccia a faccia con la foto scattata l'anno
prima insieme ai Malandrini. Tutti e quattro sorridevano
all'obiettivo. Gli mancavano. Non li vedeva da un mese e i contatti
erano stati, come sempre del resto, sporadici e segreti.
In
quel momento, la vescica iniziò a lamentarsi. Da quante ore non
andava a fare la pipì?
Sbuffando,
Sirius si alzò. Posò i piedi nudi sul pavimento della camera.
L'unica cosa buona dell'estate era che il pavimento non si
trasformava in una lastra di ghiaccio.
Camminò
a passo leggero e con il timore di svegliare i suoi fino al bagno.
Una volta arrivato, vi ci si chiuse dentro, prestando sempre
attenzione a non far troppo rumore con la chiave.
Una
volta soddisfatta la natura, Sirius si lavò le mani, dopodiché si
sciacquò il viso.
L'acqua
gelida e rinfrescante parve rinvigorirlo almeno in parte. Il terrore
che aveva provato in maniera costante iniziò a scivolargli addosso.
La morsa allo stomaco si allentò.
Era
una bella sensazione.
Il
suo riflesso lo guardò con determinazione. Gli stava dicendo “fai
una scelta”.
Sirius
si riavviò i capelli con una mano. Sapeva benissimo quello che
doveva fare. Era da tempo uno dei suoi sogni... Ogni tanto Remus
aveva ragione, in fondo. Pensare con concretezza a volte poteva
aiutare.
Adrenalina.
Che strana cosa, che era. Era per merito suo, se a cena era stato
così sfacciato. E sempre per mano sua, ora si sentiva come nuovo,
pronto a fare il passo più lungo della gamba.
Rischiare
gli era sempre piaciuto, e adesso la cosa era diventata inevitabile.
Anche
se sarebbe andato storto qualcosa, non poteva andar certo peggio di
così. Avrebbe piovuto sul bagnato, niente di più.
Spalancò
il baule di Hogwarts in mezzo al pavimento. Nello stesso momento,
provò ad immaginarsi la reazione che avrebbe avuto Lupin a quella
notizia.
Sirius,
sei un totale incosciente! Dovevi prima avvertirci, avremmo chiamato
qualcuno di competente, ti saremmo venuti in aiuto senza rischiare...
L'immagine
era così nitida e reale che per poco non scoppiò a ridere. Si
trattenne appena in tempo. Rischiare andava bene, farsi beccare un
po' meno.
Spalancò
le ante dell'armadio e buttò a casaccio qualche vestito nel baule.
Lasciò lì i libri di scuola -tanto li avrebbero cambiati tutti,
l'anno successivo. Si recò alla scrivania. Aprì il primo cassetto a
destra, dove rovistò senza troppe cerimonie finché trovò, in mezzo
al caos più totale, un sacchettino nero contenente i suoi risparmi.
Un
rumore.
Sirius
drizzò le orecchie. Incrociò le dita. Ora, l'unico rumore era
quello del suo respiro irregolare.
Fece
passare qualche secondo, o forse qualche minuto, difficile
stabilirlo.
Solo
quando fu totalmente sicuro che non ci fosse nessun pericolo, Sirius
balzò quasi letteralmente sul baule, chiudendolo.
Non
c'era tempo da perdere. Avrebbe lasciato lì tutto ciò che non era
strettamente indispensabile. Doveva fare presto.
Afferrò
il suo manico di scopa. Erano stati i suoi genitori, ad insistere
perché lo tenesse in camera. La scritta Grifondoro
dipinta sul manico sarebbe stata
imbarazzante, se qualcuno fosse entrato nel deposito. Chi l'avrebbe
detto che la vergogna che provavano nei suoi confronti avrebbe reso
bene?
Spalancò
le finestre. Non c'era vento, ma solo una cappa di afa.
Legò
il baule alla scopa. Un po' di magia illegale non l'avrebbe mai
notata nessuno al Ministero, se fatta in casa Black. Anzi, ora che ci
pensava, non era nemmeno sicuro che il Ministero potesse
rintracciarlo, visti i numerosi incantesimi di protezione imposti da
suo padre.
Prima
di salire sulla scopa, Sirius scribacchiò in fretta un biglietto per
Regulus, che poi lasciò sulla scrivania praticamente vuota.
Ci
vediamo ad Hogwarts.
Lo
guardò per un momento. Si chiese cosa si facesse in certe occasioni.
Probabilmente, invece che quel biglietto striminzito gli avrebbe
dovuto scrivere una vera e propria lettera, ma il tempo scarseggiava,
e lui non aveva nient'altro da dire.
Si
mise a cavalcioni della sua scopa. Con una piccola spinta dei piedi,
si librò in volo. Uscì dalla finestra, sentendosi protagonista di
una favola. Lanciò un'ultima occhiata a quella che era stata la sua
camera per sedici anni, certo che non avrebbe provato malinconia nel
lasciarla. Certo che non ci sarebbe tornato mai più.
Con
in testa questi ultimi pensieri, Sirius Black sparì nella notte,
respirando a pieni polmoni il dolce profumo della libertà.
Atterrò
con un fruscio. I lampioni erano spenti, la via era deserta. Sirius
scese dalla scopa. Aveva il fiato corto e la testa confusa, inebriata
dalla sua nuova situazione di libertà. Era come galleggiare, vivere
in un sogno con l'inquietudine di svegliarsi e di ritornare
prigioniero.
Si
morse il labbro. Sentì che era gonfio. Si era quasi dimenticato di
ciò che il padre gli aveva fatto qualche ora prima. Sirius imprecò
fra sé. Sperava che non tornasse a sanguinare.
Il
campanile della chiesa vicina ruppe il silenzio notturno con quattro
rintocchi. Sirius si ritrovò ad essere vagamente stupito. Quando era
scappato l'orario era stato l'ultimo dei suoi problemi. Sapeva che
doveva essere tardi, ma non avrebbe mai pensato che fossero le
quattro del mattino.
Forse
sarebbe dovuto tornare l'indomani mattina. Avrebbe potuto cercare un
ostello, o dormire sotto un ponte. Se si fosse trasformato in cane,
quest'ultima opzione non sarebbe stata poi un problema.
La
voce della sua coscienza e della sua ragione, che aveva il suono
della voce di Remus, però, gli disse chiaramente che era un'idiozia.
In un ostello non l'avrebbero certo accettato, e dormire sotto un
ponte in versione Felpato non era una cosa intelligente da fare, per
quanto fattibile.
Sirius
strinse la mano in un pungo. Improvvisamente la sua fuga non gli
sembrava più questa grande idea. Era vero che gli aveva promesso,
garantito che per lui ci sarebbe stato ad ogni ora del giorno e della
notte, ma...
Sirius,
deciditi, non fare il codardo.
Batté forte le nocche contro gli stipiti
della porta bianca del civico otto, sentendosi un perfetto idiota.
Vide una luce accendersi al piano
superiore. Nell'aria sembrava esserci ancora l'eco delle campane.
Un'altra luce si accese. Sul volto di Sirius spuntò un mezzo
sorriso. Era la luce della sua finestra.
Aprì bene le orecchie. I tre Potter
stavano scendendo le scale di corsa. La signora Potter diceva
qualcosa a James. Sirius si sentì morire. Ci mancava solo che
pensassero che fosse un'imboscata.
«Mamma, vado io! Smettila di protestare»
disse James, la voce ancora impastata dal sonno.
La
porta si spalancò.
«Posso
entrare?» gli chiese Sirius in un sussurro appena udibile.
L'espressione prima sorpresa, poi contenta e poi preoccupata del
migliore amico lo stava facendo sentire tremendamente in imbarazzo.
Azzardò un'occhiata ai signori Potter, e non fu sorpreso nel
constatare che anche loro lo stessero guardando con occhi fuori dalle
orbite. Che stupido era stato. Certo, James non avrebbe avuto nessun
problema, ma magari i suoi genitori sì. Per quanto fossero stati
sempre gentili con lui, non era un loro parente o cosa.
Dopo
un attimo, la figura di James si fece da parte.
«Entra,
fratello».
Note:
Buongiorno! Sono tornata! Ye! Ma anche no. Comunque, eccomi qui con una
nuova one shot. preparatevi psicologicamente a uno spazio piuttosto
lungo perché ho un po' di cose da dirvi, riguardo "Escape".
Innanzi tutto, è la one shot più lunga che abbia mai scritto. ben sei
pagine di Word (in teoria di OpenOffice Wrtiter, ma sostanzialmente è
la stessa cosa). La cosa buffa è che questa FanFiction era nata come
drabble. Esatto. Avevo scritto solo la parte finale (dall'arrivo di
Sirius davanti a casa Potter) in modo che contasse solo 100 parole.
Credo sia stata la peggiore drabble mai scritta, e grazie al cielo a
farmelo capire è stata la mia mitica beta/migliore amica/Ugo Marti94. In
pratica non si capiva che il fatto si svolgesse la notte in cui Sirius
scappò di casa. Sapere quanto ci è voluto per capire quale fosse il
problema? Una settimana intera. Quindi, se vi è piaciuta, ringraziate
questa santa ragazza xD
Che altro? Ah, sì. La cosa più inerente alla trama. Me ne dimentico
sempre *fisk*. Dunque. Ho cercato di far rimanere il carattere di
Sirius IC, ma come al solito non sono sicura di esserci riuscita,
ditemi voi. Inoltre, questa FanFiction vuole mostrare il rapporto a dir
poco burrascoso tra Sirius e la sua famiglia, l'aria di perenne
tensione che respira. In particolare, volevo che fosse ben chiaro il
concetto che ha lui di "fratello". Regulus non lo è, James invece sì.
A tal proposito, spero di aver reso bene il suo legame con Regulus. Ci
tenevo molto che quella parte fosse bella.
In sostanza, devo ammettere che sono
abbastanza soddisfatta di ciò che ho scritto, ma le vostre opinioni
contano mille volte più delle mie, quindi aspetto con ansia le vostre
recensioni, che spero siano numerose!
Un bacio, Minnie
Ps. Un ringraziamento va anche a Tallulah,
che è stata la mia "prova del nove" (L)