Il
sole galleggiava immobile quando giunse la
nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si
aspettò di vedere che
passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di
gente, stracci
marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte
nel tetro
ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva
già da
sola una fortuna.
L'aria era immobile, la pioggia lontana come
sono lontani i pianeti nei loro inutili riti siderei. Ma la nave di
quel giorno
rimase più a lungo immobile sul ciglio del mare. Fu chiaro
che attendeva
qualcosa.
Dalla cima della scogliera la scorse il vecchio
Cèsar, e capì che aspettavano lui,
così discese alla spiaggia di sassi, e
arrancando andò a staccare la barca.
Come un osso lavato dalla terra, che qualche
cane ha nascosto chissà quando e poi dimenticato,
così a Cèsar una peste
antichissima aveva tolto il bene di morire. Gli aveva tolto la moglie e
le
figlie, e lui stesso si era ammalato, ma una mattina la febbre era
scesa, e i
bubboni si erano fatti crosta. Lui diceva che la peste lo uccideva come
il mare
uccide le meduse, per sfinimento. Erano
passati lunghi anni da quando le aveva sepolte al melagrano. Tutto il
resto
ormai era solo polvere, si era abituato a sbirciare la morte con
l'impotenza di
un adolescente che osserva la donna che ama ridere a un altro.
Ma poi, ogni volta che ricominciavano a morire
gli uomini al porto e le donne nelle case, sperava sempre che la morte
avesse
perso il conto. Che finalmente si distraesse un poco, e falciasse anche
lui via
insieme agli altri. Era rimasto così per molti anni, custode
del vecchio
lebbrosario che serviva per i malati di peste, quando la peste si
degnava di
mostrarsi.
Al vecchio non piaceva quando
il sole scottava come metallo sull'acqua.
Gli dava la
sensazione di scivolare sopra la porta di qualcos'altro. Non acqua,
l'inquieta
porta di qualcos'altro, pece.
Quando il tonfo del remo intaccò l'acqua, Cèsar
chiuse gli occhi in un cenno di strana gratitudine. Aveva pensato che
potesse
essere solida. La luce offuscava ogni cosa.
Sulla nave erano tutti morti,
o almeno gli parve dapprima. Si
arrampicò sulla scala di corda, e protese il collo oltre il
primo confine della
murata. Sperò che fossero morti. Il suo compito finiva in
quello, ma per chi
agonizzava c'era sempre qualche parola da dire, e il vecchio odiava i
posti che
fumigavano di lercio e di morte per essere stato costretto a passarci
l’esistenza.
Sul ponte c'era un cadavere già gonfio. Arrampicato
a una maniglia del timone, la camicia ondeggiava al vento sotto un
nugolo di
tafani. Un altro morto, un ragazzino, giaceva a pancia in su vicino
all'albero.
Intorno al capo aveva un'aureola di vecchi stracci insanguinati e un
bubbone
proprio sotto l'orecchio. Anche quello era ormai solo interesse dei
tafani. Passò
oltre.
C'erano segni della morte dovunque, la morte
che arrivava dall'Oriente e come un vecchio che ricarica la pipa
accendeva i
suoi bagliori di brace con l'intervallo regolare di un respiro. C'erano
galee
che arrivavano stracolme di morti verdi, altre che affidavano tutto il
lavoro
ad un topo, ignaro, solo, nella stiva a rosicchiare frumento. Le pulci
a volte
mordevano gli uomini, altre volte prima i cani e gli uccelli. C'erano
tanti
modi di arrivare alla sola conclusione possibile. Come una festa di
villaggio,
poi, dopo lo scoppio era la stessa cosa. Sempre le stesse grida,
stracci,
miserie. Come fuochi d'artificio sempre uguali.
In una botticella d'acqua putrida nuotava il
volto gonfio di una scimmia, aveva gli occhi aperti e un cappello con
gli
alamari. Il capitano fino all'ultimo l'aveva protetta nella sua cabina,
la sua
scimmia, ma adesso i tafani roteavano sopra di lei come sopra tutto il
resto.
Cèsar toccò le sue dita di bambino, si
alzò un
nugolo di bestie nere e opache. Nel sole un paio andarono a posarglisi
sul
naso, non le scacciò. Subito quelle, deluse, se ne andarono.
Non c'era niente
da succhiare sul suo teschio ancora vivo.
Poco distante era la scala di sotto coperta.
Cèsar seguì i tafani fino là. Il buio
che saliva dalla botola era marcio come
certe melanzane dimenticate al sole. Sui primi gradini, lo sapeva,
c'erano
viscere e escrementi scivolosi. Più sotto, tutto quello che
era morto prima del
tempo. Forse avevano tentato di inchiodarli, di isolare i malati, come
sempre. Assi
inutili erano ancora attaccati ai cardini, ma ora il catenaccio pendeva
molle
nel vento.
Cèsar scrollò la testa, un tafano gli era
volato vicino, senza toccarlo. Poi guardò intorno, scese uno
scalino, mise il
piede su qualcosa di umido e decise che non sarebbe sceso. Non quel
giorno, era
inutile. Era stanco. Vide la barca che oscillava lassotto, qualche
metro oltre
la murata. Il vento lieve la faceva oscillare e sbattere contro la
chiglia
della nave. Decine di piccoli molluschi cominciavano ad arrampicarsi
sulle
corde. Chissà cosa si muoveva lassotto. Decise che non
sarebbe sceso. Si voltò
per tornare alla barca.
Fu allora che la sentì, chiaramente. Più che
una voce, un sussulto tiepido, il gemito di qualcosa che giaceva molto
più
sotto. Un suono che aveva l'odore di sangue e latte e caramello come la
nuca di
certi neonati. Capelli morbidi, manine fragili, escrementi teneri come
gusci
d'uova. Cose tremendamente inquiete, e adorabili.
Pensò a sua figlia, che era morta. Al vomito di
sangue marcio che colava dalla bocca al posto delle ultime parole. Si
ricordava
una preghiera, e la disse.
Il gemito si ripeté. Era vicino. Cèsar rivide
tutto il sangue che rischiava di uccidere sua moglie. Le lenzuola
appiccicose
del parto. Era stato con la loro prima figlia. Rischiavano di morire
tutte e
due. Ma poi d'un soffio, come un uccello impazzito, avevano
ricominciato a
respirare, madre e figlia, come un tutto unico. Cèsar
ricordava una preghiera,
un'altra ancora, diversa, le la disse tenendo gli occhi chiusi. Il
gemito gli
si infilò sotto le palpebre, veniva da sotto coperta.
Pensò alla casa, alla stanza buia, al sudore e
al silenzio. Perché prima di nascere sua figlia l'avevano
fatta. Era una sera
di festa e le candele bruciavano per strada e sui banconi. E sua moglie
aveva
gli occhi cerchiati da un respiro diverso, e le guance piene di vino e
di attesa.
Così era stato che le sue prime lenzuola si erano tinte
anche loro di sangue.
Tutto quel sangue. Pensò. E quel gemito non
poté più ignorarlo.
Nel buio, a tentoni, cercò il punto per
scendere. Dove la scala curvava verso il basso. Lo cercò
come il battito di un
cuore, come l'ultimo respiro su una crosta persa sempre. Poi le sue
mani
scivolarono su qualcosa ancora tiepido, viscido, sicuro.
Sotto un cumulo di bestie morte e umani,
proprio ai piedi della scala, sentì che qualcosa, una cosa
rannicchiata come un
feto. Sognava. Ma quando lui la toccò aprì gli
occhi, che erano verdi come due
comete. Non era una donna, non ancora.
- Portami a casa - mormorò, poi svenne.
Era una pallida bambina adolescente, stinta dal
morbo, sfinita dal digiuno. Cèsar la prese tra le braccia
magre. Forse sapeva
che sarebbe successo, ma nel posto che lui chiamava casa c'era spazio a
sufficienza anche per lei.
Era notte, e i passi
non facevano rumore. Tutto
intorno l’intrico di rovi lambiva loro le vesti: il vecchio
Cèsar, allungando
le mani, li usava per trovare la strada. Una lepre
attraversò il sentiero, poi
scomparve tra le ginestre che invadevano il piano. Sembravano uccelli
spaventati. Arrivarono in cima alla scogliera, dov’era il
lebbrosario, perduto
nel fragore delle onde che andavano a sbattere sugli scogli, molto
più in
basso. Le finestre erano prive di vetri e il vento quasi spazzava la
distesa.
Nel cortile pieno di
spifferi la sabbia
ingombrava ogni cosa, i muri grigiastri, i vasconi che un tempo erano
serviti a
lavare i lebbrosi.
Gli ricordavano delle
lunghe notti passate in
silenzio con cenci e corpi che nulla avevano più di umano.
Un fischio distante
accarezzava le cime degli alberi radi.
Da una porta mezzo
distrutta passarono in una
stanza di cui non si vedeva la fine. Al centro una candela illuminava
il tavolo
e un uomo seduto di schiena, che non si mosse.
Cèsar
portò da un angolo un fascio di paglia
secca, lo sistemò accanto al fuoco e posò accanto
una ciotola d'acqua, cipolle
tiepide e formaggio. Ci accomodò la ragazza. L'altro
continuava a fissare il
fuoco come non li vedesse.
- Mangia -
sussurrò Cèsar - e chiudi gli occhi
per un poco. Quando il prete avrà finito di pregare, allora
ti poterà nella tua
stanza. Nel frattempo mangia e riposa.
La ragazza
allungò una mano, cercò a tastoni
del cibo, e poi anche Cèsar si mise ad aiutarla.
Mangiò come in bambini, che
metà del cibo non riescono neanche ad inghiottirlo. Poi le
palpebre le si
fecero pesanti, e chinò il capo contro il muro. Il vecchio
la distese
delicatamente sulla paglia.
- L'ho trovata alla
nave - disse avviandosi a una
soglia di pietra che biancheggiava al limite del buio - Fai tu quello
che devi,
io sono stanco.
Il prete non si mosse.
La ragazza si rigirò nel
sonno. Le parve di sognare qualcosa che la portava via dal mare,
lontano.
Si arrestò
davanti ad un varco come un altro.
C’era una vasca sul pavimento di pietra, in quello che
sembrava il centro della stanza. Dentro la vasca
attendeva dell’acqua senza riflesso. Il prete dovette
afferrare sotto le
ascelle la ragazza un paio di volte, perché stava svenendo
per il freddo, o per
il sonno. Con un gesto secco le aprì la
veste sul petto. La pelle di sotto era un’unica crosta di
sangue rappreso e
lerciume. Senza aspettare una reazione la immerse nell’acqua
gelata.
- I capelli - estrasse
un coltello dalla tasca
e cominciò a tagliare la massa aggrovigliata che le copriva
la testa. Lei
guardò mentre ad una ad una le ciocche cadevano. Poi senti
il freddo della
notte sul collo, mani di automa stringere gli ultimi nodi, una
secchiata
d'acqua gelida.
- Le unghie.
Lei aspettò
pazientemente che avesse finito con
una mano. E poi lo fece con l'altra, con i piedi e le ascelle.
Tagliò tutto,
tutto ripulì come volesse arrivare alle ossa. Le macchie
sparivano contro lo
straccio ruvido, la pelle arrossata a sangue cominciava a respirare di
nuovo.
Giunse al pube e anche
lì cacciò lo straccio
strofinando come se non lo vedesse. Puliva, chiudeva, strofinava. Lei
avvicinò
lievemente le ginocchia l'una con l'altra, ma era troppo stanca per
aver paura,
o per sentire il dolore, o la vergogna.
Non successe quel che
si era aspettata. Non
successe niente. Solo, fu pulita.
Quando fu in piedi,
l'avvolse in un lenzuolo
che bucava di mille aghi e le disse di strofinarsi finché
non si asciugava. Lei
sentiva l'aria dove prima c'erano i capelli, e sangue che pulsava di
nuovo sotto la pelle.
- Grazie - sorrise,
soffocando uno sbadiglio.
Adesso si sentiva stanca, e meglio. Vide il prete che andava in un
angolo e
bruciava i suoi vestiti uno per uno.
- Nessuno dovrebbe
ringraziare finché non sa
che cosa l'aspetta.
Poi se ne
andò. Quando il fuoco si fu spento
lei si accorse che lui aveva dimenticato la candela. Forse per pena o
per
dimenticanza, le aveva lasciato qualcosa con cui scacciare via le
tenebre.