HOGWARTS, A
HISTORY - 1
Godric
e Salazar avevano deciso di mettere in atto il loro piano quella notte stessa,
dopo giorni e giorni di appostamenti e di intense
ricerche per imparare a memoria gli orari dei guardiani che sostavano a turno
davanti alla prigione di Solitude Hollow. Erano rimasti nascosti in un capanno
abbandonato proprio di fronte all’edificio in questione, uscendo solo di notte
– e mai tutti e due insieme, nel caso qualcosa fosse
andato storto – per procurarsi da mangiare.
Nei
momenti in cui era rimasto solo, Godric aveva pensato
spesso che quella in cui si erano imbarcati fosse un’impresa impossibile, ma
non gli importava: sentiva che era indispensabile cercare di fare qualcosa per
quella povera gente imprigionata ingiustamente con l’accusa di stregoneria.
Magari molti di loro erano davvero maghi e streghe – come se questo potesse
giustificare un processo e la morte sul rogo, comunque
– ma di certo la maggior parte erano Babbani qualunque, arrestati per qualche
equivoco. Si chiedeva come potesse la gente essere così fredda e intollerante:
la caccia alle streghe stava diventando un fenomeno di isterismo
di massa. Ormai non era più prerogativa degli ecclesiastici Cristiani:
qualsiasi uomo timorato di Dio veniva invitato a denunciare
alle autorità quanti più sospetti possibile, e le persone potevano venire
imprigionate anche solo in base all’aspetto, o perché magari tenevano la scopa
fuori dalla porta anziché dietro, o perché avevano un neo sulla pelle che
veniva interpretato come il marchio della strega, il simbolo del patto che la
persona che lo possedeva aveva stretto con il Demonio.
Se pensava alle proporzioni che quel complotto contro la religione
doveva aver assunto, nelle menti dei cacciatori di streghe, Godric si sentiva quasi
male. Come avrebbero fatto a fronteggiare una cosa del
genere? Che ne sarebbe stato del mondo, se andava
avanti in quella direzione?
Ci
stava pensando anche quella notte mentre, appostato nel buio dietro a una delle finestre del capanno, spiava l’entrata della
prigione. La sentinella, un uomo grasso e calvo di nome Rupert, fra poco si
sarebbe alzato e sarebbe andato a liberarsi la vescica nella siepe dall’altra
parte della strada sterrata. A quel punto, Salazar – che si trovava già al suo
posto dietro al muro della prigione – sarebbe sgusciato fuori e l’avrebbe
colpito, tramortendolo. La seconda sentinella sarebbe arrivata sul posto
soltanto dieci minuti dopo e, se tutto andava come
doveva, a quel punto loro e le due persone rinchiuse nella prigione sarebbero
già stati lontani.
Rupert
si alzò, pesantemente, e Godric aguzzò lo sguardo, raddrizzandosi un poco. Vide
l’uomo attraversare la strada e sparire dietro la siepe. Trattenne il fiato per
qualche attimo, finché non scorse la mano di Salazar agitarsi in aria, al
disopra della vegetazione: stringeva un panno bianco, il segnale che la via era
libera.
Godric
si alzò e, armato soltanto della sua bacchetta magica, uscì di corsa dal
capanno, tuffandosi nell’aria dolce della notte d’estate. In poche falcate raggiunse
l’entrata della prigione, chiusa con un’infinità di lucchetti: puntò la
bacchetta e mormorò una serie di “Alohomora!”, facendoli saltare uno
dopo l’altro. Salazar arrivò trafelato dalla strada, con la bacchetta alzata, e
mormorò:
“Dobbiamo
sbrigarci…”
Aprirono
la porta e la prima cosa che li colpì fu il fetore: dovettero tapparsi il naso
e trattenere il fiato, per evitare di svenire. All’interno della piccola stanza
il buio era pressoché completo: le finestre erano state sigillate e oscurate,
per evitare che i prigionieri potessero avere un qualsiasi contatto con
l’esterno.
“Lumos!”
mormorarono all’unisono, e le punte delle loro bacchette si accesero,
illuminando l’ambiente.
C’erano
due persone, come già sapevano: una era una donna anziana, l’altra un ragazzino
che avrà avuto al massimo quindici anni. La vecchia
era accasciata su un fianco, in un angolo della baracca, con la bocca
spalancata e gli occhi rivolti al soffitto, come a
implorare pietà da quel Dio nel nome del quale l’avevano imprigionata. A Godric
bastò un’occhiata per capire che era morta. Il ragazzino era rannicchiato
nell’angolo opposto, e sembrava addormentato: era immobile, ma il suo piccolo
petto si alzava e si abbassava ritmicamente. Godric entrò e avanzò nella
stanza, mentre Salazar restava sulla porta a controllare che non arrivasse
nessuno. Abbassò la bacchetta e illuminò il ragazzino più da vicino, mentre si
accucciava accanto a lui. Era vestito di
stracci: l’unica cosa che aveva addosso erano i resti di una vecchia camicia, sporca
di sangue e di qualche cosa che sembrava vomito, da cui sporgevano le braccia
magrissime e piene di lividi, e un paio di calzoni troppo corti, altrettanto
sudici e malridotti. Aveva dei buffi
capelli neri, corti e spettinati e incrostati di sporcizia; era pallidissimo e
aveva due cerchi neri intorno agli occhi. Chissà da quanto tempo non mangiava,
pensò Godric, con un moto di pena. La sua mano gli accarezzò gentilmente una
guancia, e lui sembrò svegliarsi lentamente: sbatté le palpebre, nel tentativo
di mettere a fuoco il viso che gli stava davanti, e per un attimo Godric
temette che avrebbe urlato.
Invece non successe: si limitò a guardarlo, con un’espressione
stupita sul volto. Aveva gli occhi azzurri, di un azzurro scuro, profondo.
“Non
avere paura di me” sussurrò lui, senza smettere di accarezzargli la testa.
“Sono venuto per portarti via di qui.”
Lui
annuì, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Riesci
a camminare?” gli chiese, sottovoce.
Scosse
la testa, senza smettere di fissarlo negli occhi. Quello sguardo lo metteva
profondamente a disagio: non sapeva perché, ma era come se quel ragazzino lo
conoscesse, come se riuscisse a leggergli i pensieri.
“Non
importa” gli sorrise gentilmente. “Lascia fare a me…”
Lo
prese fra le braccia, e lo sollevò senza sforzo: era magro come un uccellino.
Lui gli si rannicchiò contro il petto, e chiuse gli occhi, con un piccolo
sospiro.
“Muoviti,
Godric” disse Salazar dalla soglia, nervoso. “Sta arrivando qualcuno,
accidenti…”
Godric
strinse il ragazzino fra le braccia, e uscì dalla baracca.
Si
guardò intorno: dalla strada che saliva dal paese venivano verso di loro due
sentinelle, con gli archi in spalla e l’aria piuttosto annoiata. Si facevano
luce con due torce, e procedevano lentamente.
“Merda!”
sibilò Salazar, e insieme a Godric mormorò:
“Nox”
Le
loro bacchette si spensero, ma ormai era troppo tardi: una delle sentinelle li
aveva visti, e stava puntando il dito per avvisare l’altra.
“Fermi!”
gridarono i due uomini, mettendosi a correre nella loro direzione. Mollarono le
torce sulla breccia della strada, e puntarono gli archi, con le frecce già
incoccate.
“Via,
via!” esclamò Godric, e si tuffò nella vegetazione che cresceva rigogliosa
vicino alle mura della prigione. Salazar lo seguì.
Al
dilà della siepe c’era un campo coltivato, che digradava bruscamente verso il
fondo della valle. Corsero più veloci che potevano, cercando di mantenere
l’equilibrio sul terreno sconnesso, mentre le guardie urlavano loro di fermarsi
dalla cima della collina. Quando furono a circa metà
del percorso, sentirono le frecce fischiare intorno a loro, ma non pensarono
neanche per un attimo di fermarsi. Godric strinse di più il ragazzo e si curvò
su di lui, per evitare che lo colpissero.
“E’
meglio dividerci!” urlò Salazar, e la sua voce suonò abbastanza disperata.
“D’accordo!”
gridò Godric, e quasi all’istante puntarono in due direzioni diverse: Salazar
verso sinistra, e Godric verso destra.
Le
frecce continuarono a bersagliarlo finché non riuscì a gettarsi fra gli alberi,
fuori dalla portata delle armi. Imboccò un sentiero
tortuoso e, mentre correva, abbassò gli occhi sul ragazzo.
“Tutto
bene?” chiese, con il respiro corto.
“Sì…”
disse lui piano. Aveva una voce strana, roca e gutturale. Stringeva la sua
camicia fra i pugni chiusi, e aveva gli occhi serrati.
“Ci
siamo quasi… andrà tutto bene…” ansimò Godric, nel tentativo di
tranquillizzarlo, e lui annuì, gli appoggiò la testa contro il petto.
Avvistò
la casa che lui e Salazar avevano costruito, un paio
di anni prima, circondandola con un incantesimo respingi-Babbani: accelerò
l’andatura, e quando entrò nel cerchio magico che delimitava il territorio
protetto dall’incantesimo non poté evitare di tirare un sospiro di sollievo. Ancora con il ragazzino fra le braccia, si accasciò a terra, con la
schiena contro il tronco di uno degli alberi che circondavano la piccola radura.
Gettò la testa indietro, cercando di riprendere fiato, e sussurrò:
“Ce l’abbiamo fatta…”
Il
ragazzino tremava come una foglia, ed era talmente magro che neanche sentiva il
suo peso sulle gambe. Stava per aggiungere qualcos’altro per tranquillizzarlo,
quando sentì delle urla provenire dal folto del bosco. Pochi istanti dopo, li
vide arrivare: i Cacciatori di Streghe. Erano almeno in trenta, armati di asce, spade, bastoni e qualsiasi altro arnese che potesse
fungere da corpo contundente, e nelle mani libere dalle armi tenevano le torce,
la cui luce ondeggiava sinistra fra i rami e il fogliame degli alberi.
Passarono di corsa, ignorando completamente la piccola casa racchiusa nel
cerchio magico, e veloci come erano arrivati
scomparvero, diretti lungo il fianco della montagna. Godric pregò che Salazar
si fosse nascosto bene, perché se lo avessero trovato per lui sarebbero stati guai seri.
Abbassò
lo sguardo sul ragazzino, e si accorse che aveva chiuso gli occhi e non si
muoveva più. Spaventato, si affrettò a sentire se il cuore batteva ancora, e
rifiatò sollevato quando riuscì a sentire la vena che gli pulsava regolare sul
collo. Era ridotto male, ma sarebbe sopravvissuto.
“Coraggio,
piccolo…” mormorò, mentre si rialzava in piedi. “Ce la farai.”
*
Lo trasportò
in braccio fino al capanno che sorgeva dall’altra parte del cortile. Era un
ambiente piuttosto spazioso, e il fatto che fosse semivuoto contribuiva a dare questa impressione: c’era un banco da lavoro addossato a una
parete, un pagliericcio sulla destra, alcuni secchi, delle scope, e un soppalco
per il fieno. Era privo di finestre: l’unica fonte di luce era una piccola
apertura circolare, sulla parete di fronte alla porta, molto vicina al
soffitto.
Godric si
guardò intorno e avanzò sicuro nella semioscurità, adagiando il ragazzino sul
pagliericcio coperto da una stoffa ruvida e polverosa. Estrasse la bacchetta, e
mormorò un incantesimo: l’oscurità fu illuminata da decine di candele che
fluttuavano nell’aria. Si avvicinò al pagliericcio, e si chinò sul ragazzino.
Il suo viso
era pallido e sofferente. Adesso che aveva il tempo di guardarlo con calma,
notò dei particolari che prima, nella fretta, gli erano sfuggiti: i graffi
sulle guance, il labbro superiore spaccato e incrostato di sangue rappreso. I
segni rossi intorno al collo. Dovevano averlo torturato prima di sbatterlo in
prigione e di condannarlo al rogo: le torture servivano per convincere gli
imputati a confessare, ed erano talmente persuasive che la maggior parte delle
persone confessava di tutto, alla fine, anche delitti mai commessi. Gli venne
una rabbia terribile: era sempre disgustato da quel modo di agire, ma il
sentimento era addirittura centuplicato quando gli capitava di tirar fuori dalla prigione donne e ragazzini.
Accarezzò
dolcemente la testa del ragazzino. I capelli, neri come la pece, erano
incrostati di sporcizia, e tagliati in modo
irregolare: in alcuni punti erano lunghi due o tre centimetri, ma c’erano delle
zone rasate, e altre in cui si vedeva che dei ciuffi erano stati strappati via
con forza. Osservò le ciglia lunghe, scure, che gettavano ombre sulle guance
pallide e scavate. Che cosa poteva aver fatto quella
povera creatura per meritare un destino tanto crudele?
Proprio in
quel momento, sulla soglia apparve una figura bassa e tozza: Godric la vide con
la coda dell’occhio, e si voltò.
“Marge…”
mormorò, raddrizzandosi.
“Santo Cielo,
Godric…” Marge, un’anziana signora dall’aria dolce e dai capelli grigi, si
portò una mano alla bocca nel vedere la figuretta adagiata sulla paglia,
immobile. “Chi è? E’ morto? L’hanno ucciso i Cacciatori che sono appena
passati…?”
“No” disse
lui, abbozzando un sorriso. “Non è morto… è conciato piuttosto male, ma ce la
farà.”
Marge si
avvicinò, stringendosi il lungo scialle nero intorno al corpo. Si chinò sul ragazzino, lo scrutò con attenzione. I suoi occhi
si riempirono di pena.
“Povera
creatura…” mormorò, scuotendo la testa e allungando una mano per accarezzargli
la testa. “Dove l’avete trovato?”
“Nella
prigione di Solitude Hollow” spiegò Godric, allontanandosi dal giaciglio per
prendere due secchi.
“E dov’è
finito Salazar?” si allarmò la donna, guardandosi
intorno.
“Ci hanno inseguiti” disse Godric. “Abbiamo dovuto dividerci.” Prese
la bacchetta e mormorò un incantesimo: i due secchi si riempirono d’acqua.
“Tornerà domattina, non preoccuparti” concluse, per
tranquillizzarla.
Marge stava
guardando la bacchetta fra le sue mani, con gli occhi leggermente sgranati. A
Godric venne un po’ da ridere: Marge era una babbana, ma mesi prima era stata
incarcerata con l’accusa di stregoneria. Era una delle tante persone che lui e
Salazar avevano salvato dal rogo, e una delle poche a non essersene andata
subito per la sua strada. Aspettava che nel paese dove viveva la famiglia di
sua figlia, nel sud dell’Inghilterra, finisse
l’epidemia di peste, per poterla raggiungere. Avrebbe dovuto
essere abituata, ormai, a vedere incantesimi e bacchette magiche, ma ogni volta
la sua espressione era esilarante.
“Avanti,
Marge” Godric le batté una mano sulla schiena, divertito. “Non avrai ancora
paura dei sortilegi, eh? Dovresti sapere che la magia non è sempre nera, dopo tutto.”
La vecchia
inarcò un sopracciglio: “Fino a qualche mese fa pensavo che fossero tutte
fandonie…” ammise, accigliata.
“Già, e non
sai quanto pagherei perché tutti i babbani la pensassero come te” osservò
Godric, truce. “Certi orrori verrebbero risparmiati
alla povera gente.”
“E’ un mago?”
domandò Marge, accennando al ragazzino. Sembrava che avesse ripreso i sensi:
adesso gemeva sommessamente.
Godric scosse
la testa. “Non ne ho idea. Non ha detto una sola parola, non so nemmeno come si
chiama… vieni, aiutami a lavarlo. Con tutto quel sudiciume, sarà un miracolo se
le ferite non saranno già infette.”
Marge si
avvicinò di più al pagliericcio, mentre Godric si procurava uno strofinaccio e
un pezzo di sapone scuro dal ripiano accanto alla porta. Si mise dall’altro
lato del giaciglio, e mentre Marge cominciava a slacciare la camicia sudicia
del ragazzino, sporca e decisamente troppo grande per
lui, gli accarezzò la testa e sussurrò:
“Piccolo, mi
senti…? Qual è il tuo nome?”
A tutta prima
non venne nessuna risposta, e Godric pensò che fosse svenuto di nuovo, o che si
fosse addormentato. Poi lo vide muoversi lentamente. Gli sfuggì un altro piccolo gemito.
“Riesci a
sentirci, tesoro?” ripeté Marge, con dolcezza, mentre cercava di districare i
legacci che chiudevano la camicia. Erano legati strettissimi.
“Rowena…”
mormorò il ragazzino, con un filo di voce, e sembrò che parlare gli costasse
uno sforzo enorme.
Godric alzò
gli occhi e incrociò lo sguardo di Marge. Erano tutti e due
perplessi.
“Rowena?”
disse Godric, piano, senza smettere di accarezzare i capelli ispidi del
ragazzino. “Chi è? La tua mamma? Tua sorella? Dove…”
“Oh, Cielo!”
esclamò Marge, interrompendolo e facendolo trasalire.
“Che
succede?” si allarmò lui, guardandola stupito. La
donna aveva appena slacciato i legacci, e fissava il petto del ragazzino con
un’espressione a metà fra l’orripilato e lo sbalordito.
Godric a
tutta prima non capì. Poi seguì la direzione dello sguardo di Marge, e tutto fu
chiaro: dalla camicia spuntavano, sudici e coperti di graffi e bruciature, due
piccoli seni appuntiti.
“Oh, per
Merlino…” sussurrò Godric, allibito, mentre i suoi occhi andavano dal viso del
ragazzino al suo petto e viceversa. Sembrava impossibile.
“E’ una
ragazza!” disse Marge, stupita quanto lui.
Godric sentì
che lo stupore si mescolava alla collera. Come poteva la Chiesa permettere che
le donne venissero trattate in quel modo? Dov’erano la giustizia, la pace e la tolleranza? Dov’era l’amore?
“Rowena…”
sussurrò, accarezzandole la guancia coperta di graffi e chiamandola con quello
che – adesso era chiaro – doveva essere il suo nome. “Mi senti? Dobbiamo
lavarti, altrimenti le ferite si infetteranno…”
Lei annuì impercettibilmente, e socchiuse le palpebre, lo guardò
attraverso quelle ciglia nere e lunghissime. Cercò di sorridergli.
“Grazie”
sussurrò.
Poi svenne.
*
“Godric, tu
non dovresti stare qui” protestò Marge poco dopo, quando lo vedi
chinarsi a bagnare lo straccio in uno dei due secchi.
“Cosa?” la guardò, perplesso. “Ma
che dici?”
“E’ una
ragazzina” spiegò Marge, leggermente a disagio. “Non so se è il caso che tu…
che tu la veda in queste condizioni.”
“Oh, ti
prego!” Godric scoppiò a ridere, divertito. “E’ una bambina, avrà almeno dieci
anni meno di me… non essere sciocca.”
“Non mi piace
lo stesso” sentenziò la vecchia, aggrottando le sopracciglia, mentre insaponava
delicatamente il petto di Rowena. Le aveva tirato giù la camicia fino alla
vita, e aveva concluso di non poter usare lo
strofinaccio per lavarla: le avrebbe portato via le croste e riaperto le
ferite.
“Non è la
prima volta che vedo una donna in queste condizioni, comunque…”
aggiunse Godric, per prenderla in giro.
“Piantala, ragazzaccio” lo zittì lei, ma sorrideva. Voleva un
gran bene a Godric, e non era un segreto per nessuno. “Il punto non è questo.
E’ che lei potrebbe sentirsi in imbarazzo se dovesse svegliarsi e ti vedesse…”
“Credo che
abbia cose più importanti a cui pensare” osservò Godric, grattandosi il mento.
“Comunque, poi dovrò aiutarti a tenerla sollevata, per
lavarle la schiena.”
“E’ vero”
ammise Marge, e lo guardò con aria furba. “Ma puoi tornare dopo.”
Godric rise.
“Senti, non ho nessun interesse a spiare le nudità di una ragazzina, te lo
assicuro. Voglio solo rendermi utile…” disse. Strizzò
lo straccio. “Le laverò il viso, e non guarderò quello che stai facendo tu. Va
bene?”
“Va bene” si
arrese Marge, scuotendo la testa. “Tanto, quando ti metti in testa
una cosa è impossibile farti cambiare idea.”
Godric
ridacchiò, e non trovò niente da ribattere: era la pura verità.
Sedette sul
bordo del pagliericcio, e infilò una mano sotto la nuca di Rowena, fra i
capelli corti e ispidi. Le sostenne la testa, e con delicatezza cominciò a
toglierle la polvere e il sangue rappreso dalle guance.
“Forse
sarebbe il caso di farle un vero bagno, appena è possibile” considerò,
sottovoce, mentre la fissava con intensità.
“Già…
dovremmo portarla al ruscello” disse Marge, piano. “Ma
non adesso” aggiunse, toccandole la fronte con la punta delle dita. “Scotta da
morire… deve avere la febbre alta, povera creatura.”
Godric non
rispose, e continuò a lavarle il viso, in silenzio. Rowena teneva gli occhi
chiusi, e ogni tanto si mordeva le labbra, trattenendo a stento piccoli gemiti
di dolore: per quanto Marge stesse cercando di essere
delicata, la sua pelle era ridotta davvero male. Godric aveva il cuore
gonfio di pena e di rabbia: ne aveva visti di
prigionieri ridotti male, ma mai così tanto. Forse a fargli impressione era
anche il fatto che si trattasse di una ragazzina così giovane. Quale uomo
poteva avere il coraggio di torcere un capello a una
bambolina così piccola e indifesa? Si aspettavano davvero il Paradiso e la
gratitudine di Dio, per questo?
“Dai, Godric”
la voce pratica di Marge lo riscosse dai suoi
pensieri. “Aiutami a tenerla seduta, bisogna lavarle la schiena.”
Si affrettò
ad obbedire. Sedette davanti a lei, sul pagliericcio, e la tirò su, più
dolcemente che poté, appoggiandosela contro il petto. Marge sedette dietro a
Rowena e cominciò a strofinarle piano la schiena, che non era
certo in condizioni migliori del resto del corpo: sul pallore della
pelle spiccavano i segni scuri delle frustate. Godric rabbrividì
istintivamente.
“Povera
piccola…” sussurrò Marge, trattenendo a stento le lacrime, la voce traboccante
di pena. “Dove
andremo a finire, di questo passo?”
Rowena
trasalì improvvisamente, e gemette.
“Mi dispiace”
mormorò Marge. “Ma devo pulire le ferite, piccola,
altrimenti non guariranno…”
“Va tutto
bene” sussurrò Godric, accarezzando piano i capelli ispidi di Rowena. Le fece
appoggiare la testa contro la sua spalla, e la strinse con dolcezza, le baciò
piano la fronte. Scottava davvero tanto. “Va tutto bene, Rowena… tra poco
avremo finito e potrai risposare.”
Era così
magra che sarebbe stato facile contarle le vertebre e le costole, una ad una…
chissà da quanto tempo non mangiava. Chissà quanto era
rimasta chiusa in quella prigione puzzolente. Si sentì rivoltare lo
stomaco per il disgusto che provava verso il genere umano.
“Finito”
annunciò Marge, sottovoce. Si alzò in piedi, e lasciò cadere lo straccio nel
secchio. “Vado a prenderle qualcosa da mettersi addosso.”
“Prendi una
mia camicia” le suggerì lui. “Dovrebbe andarle bene come vestito, no?”
aggiunse, abbozzando un sorriso. Godric era alto almeno un metro e novanta, e
Rowena era uno scricciolo minuscolo: di certo non superava il
metro e sessanta.
“Sì, immagino
di sì” Marge restituì il sorriso, dirigendosi verso la porta. “Continua a
tenerla così, Godric” aggiunse, mentre usciva. “Non farla sdraiare, alcuni
tagli si sono riaperti ed è meglio che non li sfreghi contro il tessuto… la paglia
le farebbe male.”
“Va bene”
mormorò Godric.
Si mosse un
poco, per accomodarsi Rowena fra le braccia, e pensò che doveva
avere la febbre molto alta: la sua pelle era calda e secca, e la sentiva
tremare violentemente, scossa dai brividi.
“Hai freddo, piccola?” sussurrò, al suo orecchio.
Lei annuì.
Godric cercò di stringerla il più possibile, senza farle male, ma non credeva
di riuscire a riscaldarla un granché, in quel modo. Per fortuna Marge tornò
dopo pochi istanti, con una camicia bianca in mano e un paio di pantaloni
nell’altra.
“Sono miei
quei pantaloni?” si stupì Godric, guardandola.
“Sì” ammise
la vecchia, sedendosi di nuovo sul pagliericcio. “Dobbiamo metterle qualcosa
intorno alle gambe, o i graffi si riapriranno a contatto con la stoffa della coperta.
” Gli fece un cenno. “Su, tirala un po’ su… dobbiamo infilarle la camicia.”
Godric staccò
Rowena da sé, con dolcezza, e le mise le mani sui fianchi, per tenerla dritta.
Era talmente debole che non riusciva nemmeno a stare seduta se qualcuno non la
sorreggeva.
“Avanti,
tesoro…” sussurrò Marge, cominciando a infilarle le
maniche. “Ci siamo quasi, poi potrai riposare.”
Rowena non
aprì gli occhi, accennò solo a una piccola smorfia di
dolore.
“Bene, adesso
lasciala sdraiare” disse Marge, quando ebbe finito di infilarle la camicia.
Godric
eseguì, mettendo giù Rowena con tutta la delicatezza possibile. Marge si spostò
verso i piedi della ragazza, con i calzoni in mano.
“Allacciale
le stringhe della camicia mentre le infilo i pantaloni” disse ancora la
vecchia.
Godric
sedette di fianco a Rowena, e cominciò a legarle i piccoli lacci sul petto. La
vista delle cicatrici e delle croste delle ferite più recenti lo sconvolgeva ancora. Le guardò il viso, così pallido e
sofferente, e desiderò avere per le mani i bastardi che l’avevano ridotta in
quello stato. Come riuscivano a dormire la notte? Con
che coraggio andavano in Chiesa, la domenica?
“Una ragazza
con i pantaloni” mugugnò Marge, scuotendo la testa sconsolata. “Dove arriverà il mondo, di questo passo?”
Rowena doveva
aver sentito, perché Godric la vide sorridere leggermente. Pochi istanti dopo aprì gli occhi, e incrociò i suoi, facendolo quasi
trasalire. Quella ragazzina aveva uno sguardo strano: i suoi occhi erano
grandi, profondi, di un azzurro talmente scuro da sembrare quasi nero, e gli
diedero di nuovo la sensazione che lei lo conoscesse già da
tempo. Erano infinitamente più adulti di quanto avrebbero dovuto, e
questo pensiero rattristò enormemente Godric.
“Una ragazza
in pantaloni è molto affascinante, Marge” disse, senza smettere di guardare
Rowena.
Si
scambiarono un sorriso, e nello sguardo di lei passò
un lampo di divertimento.
“Non dire
idiozie, Godric” lo redarguì la vecchia, inorridita. “Le signorine per bene non
penserebbero mai di andare in giro conciate in modo
tanto indecente, e non lo farebbe neanche questo angelo se non si trovasse in
questa situazione…” Scosse la testa, e strinse i lacci intorno alla vita di
Rowena. “Ecco fatto.”
“Anche io ho finito” disse Godric, legando l’ultima stringa.
Rowena aveva richiuso gli occhi.
Marge la
coprì con una coperta pesante, e preparò un secchio colmo d’acqua accanto al
letto: bagnò una pezza e la mise sulla fronte di Rowena, per darle un po’ di
sollievo dalla febbre.
“E non possiamo nemmeno chiamare un dottore!” si lamentò,
torcendosi le mani.
“Marge, non
preoccuparti” la tranquillizzò Godric, con un sospiro. “Non serve il dottore. Guarirà da sola, ha soltanto bisogno di riposare. Domattina
la febbre sarà già scomparsa.”
“Lo spero.”
Marge lo guardò, con occhi stanchi. “Va’ a letto, Godric… resto io con lei.
Sarai sfinito, dopo quello che hai fatto stanotte.”
Era vero, era
distrutto… ma al pensiero di andarsene a dormire il cuore gli si strinse.
Guardò Rowena e capì che non voleva lasciarla nel capanno con Marge, voleva
prendersi cura di lei con le sue mani. Si stupì di quell’istinto quasi fraterno
che si era improvvisamente impadronito di lui, ma decise di assecondarlo.
“No, vai pure
a dormire, Marge…” disse, con dolcezza. “Sono talmente scombussolato che non
riuscirei comunque a chiudere occhio.”
“Resti tu con
la bambina…?”
“Sì…”
sorrise, lievemente divertito nel sentirle pronunciare la parola bambina.
“Ricordati di
bagnarle la fronte” lo ammonì la vecchia, mentre si avviava verso la porta.
“Va bene.”
“E dalle da bere ogni tanto, con la febbre bisogna bere”
aggiunse Marge, prima di sparire nel cortile. “Buonanotte!”
“ ’notte…” mormorò Godric, divertito, mentre la porta si
chiudeva cigolando lentamente.
*
Si guardò un
po’ intorno, indeciso su cosa fare, poi concluse che avrebbe potuto permettersi
qualche attimo di riposo: Rowena sembrava sprofondata in un sonno agitato, e
respirava pesantemente, ma più che cambiarle il panno che le inumidiva la
fronte in quel momento non avrebbe potuto fare. Spense quasi tutte le candele,
adesso non ce n’era più bisogno, e si sdraiò dall’altra parte del pagliericcio,
alla sinistra di Rowena. Infilò le mani intrecciate sotto la nuca, e si mise a
fissare le ombre che la luce dell’unica candela rimasta accesa faceva danzare
sul soffitto. Chissà che fine aveva fatto Salazar… non era la prima volta che
dovevano dividersi dopo un’evasione, ma in quegli ultimi tempi la furia dei
Cacciatori si era fatta ancora più violenta del solito. Godric si augurò di nuovo
che l’amico stesse bene.
Si voltò a
guardare Rowena, sdraiata sulla schiena: dormiva con la bocca socchiusa, le
sopracciglia leggermente aggrottate. I capelli corti e irregolari spuntavano a
ciuffi dal suo cranio, come piccoli cespugli ribelli. Guardandola di profilo,
non poté fare a meno di sorridere alla vista del suo nasino all’insù: aveva un
che di sbarazzino e di aristocratico insieme. In
effetti, nonostante gli abiti sporchi e dimessi e il suo aspetto trasandato,
Rowena aveva l’aria di una ragazza di buona famiglia. Anzi, era abbastanza
bella per essere addirittura una principessa… e in
vita sua Godric ne aveva viste molte, di principesse, ma nessuna bella come
lei.
Ma che
diavolo stai farneticando…, si disse ridendo di se stesso. E’ solo una ragazzina, non dovresti nemmeno
pensarle, certe cose…
Senza nemmeno
accorgersene, scivolò nel sonno.
*
Rowena aprì
gli occhi di scatto e si guardò intorno, con il respiro affannoso.
Per qualche
orribile istante fu convinta di trovarsi ancora in prigione. Fino a pochi secondi prima, infatti, era intrappolata in un sogno
orribile in cui Padre Cavanaugh, il prete che l’aveva torturata a Solitude
Hollow, la minacciava di staccarle le dita dei piedi a una a una se non avesse
confessato di essere una strega e di aver stretto un patto con il Demonio.
Rabbrividì, e
cercò di calmarsi, mentre il suo sguardo vagava per il soffitto di quella che –
grazie al cielo – non era la prigione puzzolente in cui aveva passato le ultime
tre settimane della sua vita. Tastò il giaciglio su cui era sdraiata: era un
pagliericcio, coperto da uno strato di tessuto morbido, che non faceva passare
neanche uno spuntone. C’era un buon odore di fieno, in quel posto, e una
candela accesa da qualche parte: vedeva forme scure muoversi ondeggiando lungo
le pareti. C’era una piccola finestra rotonda, in alto sulla parete alla sua
destra, e Rowena notò che era ancora notte. Tutto era estremamente
silenzioso.
Cercò di
riordinare le idee, e nel frattempo tentò di muoversi: quest’ultima idea le
costò cara, perché la schiena le bruciò come se l’avessero appena colpita con
un ferro rovente, strappandole un gemito di dolore. Decise che sarebbe rimasta
ferma il più possibile.
Dopo due
minuti si era già annoiata di stare immobile, e provò
cautamente a muovere il collo. Fu quasi per caso che spostò lo sguardo alla sua
sinistra, e per poco non gridò dallo spavento. Il suo cuore minacciò di
fermarsi, e l’unico motivo per cui non saltò giù dal
letto fu che era troppo debole anche solo per sperare di potersi reggere in
piedi.
C’era un uomo
disteso accanto a lei. Rimase a guardarlo spaventata, mentre il sangue le
rimbombava nelle orecchie, ma quando i
primi attimi di paura furono passati, si rese conto che – almeno per il momento
– lo sconosciuto era innocuo: sembrava profondamente addormentato.
Aveva un viso
stranamente familiare, e Rowena si sforzò di ricordare chi fosse, e che cosa
diavolo ci facesse lì. Per la verità, non ricordava con esattezza nemmeno
perché lei si trovasse in quel posto: la testa le doleva terribilmente e
si sentiva piuttosto confusa. Cercò di concentrarsi nel tentativo di mettere a
fuoco i particolari di quello che era successo poche ore
prima, ma davanti agli occhi le passavano solo immagini strane e
indistinte: la fuga dalla prigione, le frecce… l’inseguimento nel bosco… non
era nemmeno sicura di quanto tempo fosse effettivamente passato. Di una sola
cosa era certa: a salvarla era stato l’uomo che dormiva lì accanto. L’immagine
del suo volto illuminato dalla bacchetta, nell’oscurità della prigione, era
vivida nella sua memoria: le bastò chiudere gli occhi per rivederla
nitidamente.
Appoggiò la
guancia sul cuscino e rimase a guardarlo a lungo, immobile alla luce della
candela, lottando con il sonno e la stanchezza che minacciavano di sopraffarla
di nuovo. Si sentiva molto debole, sfinita, ma era divertente osservare quel
ragazzo e cercare di immaginare come potesse essere nella vita di tutti i
giorni. Lo sguardo di Rowena percorse i lineamenti del
viso di lui: erano regolari, quasi aggraziati, ma allo stesso tempo molto
maschili. Aveva le sopracciglia folte, il naso deciso, le labbra piene e
seminascoste dai baffi e dalla barba di qualche giorno. I capelli erano ricci e
scomposti, piuttosto corti per la moda del tempo e di
un colore particolare, a metà fra il castano e il ramato: ricordavano la
criniera di un leone.
L’accostamento
mentale con quel tipo di animale la divertì e la fece
sorridere, ma pensandoci bene non era poi così assurdo: anche vedendolo
addormentato, il ragazzo dava l’idea di essere molto forte. Rowena ricordava perfettamente la facilità
con cui l’aveva sollevata e trasportata, mentre fuggivano di corsa dalla
prigione. Ricordava anche il suo odore, quando l’aveva stretta a sé: un misto
di sapone, sudore e fieno. A poco a poco, le tornarono in mente anche altri particolari:
la sua voce profonda, gli occhi verdi e dolci, il tocco gentile delle sue
grandi mani. Il fatto che l’avesse chiamata “piccolo”,
scambiandola all’inizio per un ragazzino. Ricordò che l’aveva spogliata e lavata e,
nonostante i giorni di prigionia e le torture l’avessero vista nuda di fronte a
schiere di persone, arrossì: questo era completamente diverso. Quel ragazzo
l’aveva toccata con gentilezza, ed era qualcosa a cui non era più abituata da
moltissimo tempo.
E’ bello, pensò, con un piccolo sorriso segreto, senza
smettere di accarezzarlo con lo sguardo. Vorrei che mi stringesse ancora fra
le braccia.
Ci mise
diversi minuti per prendere una decisione. Poi si mosse piano, scivolando più
vicino a lui, e gli appoggiò la testa sul petto, con cautela. Non voleva
svegliarlo: se fosse successa una cosa del genere, sarebbe morta di vergogna.
Chiuse gli occhi e sentì il cuore di lui battere sotto al suo orecchio. Per qualche
strana ragione, quel suono forte e regolare ebbe il potere di farla sentire al
sicuro.
Non aveva
intenzione di restare in quella posizione a lungo: non voleva rischiare che
lui, svegliandosi, la trovasse così. Stava per scivolare di nuovo al suo posto,
quando si sentì passare un braccio intorno alle spalle, e trasalì. Arrossì fino
alla radice dei capelli, e serrò le palpebre, come se il fatto di non vedere
quello che le stava intorno potesse cancellare quella realtà terribilmente
imbarazzante. Rimase in silenzio per diversi minuti, il cuore che le batteva
furiosamente nel petto, finché le sembrò che ci fosse qualcosa di strano in
tutta quella faccenda. Facendosi coraggio, alzò la testa e controllò. Tirò un sospiro di sollievo quando vide che il ragazzo era ancora
profondamente addormentato. Doveva averla abbracciata nel sonno, senza rendersene
conto.
Rowena pensò
che avrebbe dovuto staccarsi da lui al più presto, ma una parte
di lei non voleva assolutamente. Aveva un grande
bisogno di sentirlo così vicino. Era così bello sentirsi stringere con
gentilezza. Non ricordava neanche più quanto tempo era passato dall’ultima
volta che qualcuno l’aveva abbracciata, e chissà quanto altro
ne sarebbe passato dopo questa. Non aveva nessuno al mondo. Nessuno
che le volesse bene, o che si prendesse cura di lei.
Serrò le
palpebre, mentre l’immagine del viso di suo padre si ricomponeva nella sua
mente. Lo ricordava sempre com’era l’ultima volta che l’aveva visto, la sera
prima che i Cacciatori lo catturassero e lo impiccassero senza processo. Era
successo tanto, tanto tempo prima… sembrava trascorsa
una vita intera da quel giorno, eppure suo padre le mancava sempre con la
stessa, dolorosa intensità.
Si strinse
contro il petto del ragazzo disteso accanto a lei, e sentì il calore della sua
pelle contro la guancia, attraverso la stoffa sottile della camicia. Dopo tanti
anni di solitudine e di infelicità, quel contatto la
faceva sentire diversa. Di nuovo viva. Pensò che le sarebbe piaciuto
rimanere accanto a lui per tutta la vita, se solo fosse stato possibile, e per
un attimo desiderò intensamente che tutto il mondo fosse racchiuso in quel
capanno.
Godric…, ricordò, mentre il sonno aveva la
meglio sul suo cervello e sulle sue membra stanche. Si chiama Godric… e io
gli devo la vita.