Disclaimer: i personaggi sono copyright di
Odagiri Hotaru.
La maggior parte delle frasi in
corsivo sulla destra (ad eccezione delle ultime due) sono fedelmente riportate
dall’anime.
A Litachan che sa il
perché o forse lo immagina (no, non è solo vendetta per l’amv), perché
sicuramente – spero – mi riesce meglio scrivere che non tutto il resto. <3
Shuusei lo
sapeva bene; che era lui a vivere sulle spalle di Hotsuma e non il contrario.
Shuusei, lo sanno.
Sanno che ho dato
fuoco a quelle persone.
Nessuno ha più il
coraggio di guardarmi in faccia.
La
famiglia Usui non si è mai sbilanciata.
Riguardo
la condizione del figlio e il potere che sembrava derivarne.
Shuusei va
ad una scuola pubblica come tante altre, la stessa dove andava prima di
scoprire quel presunto dono.
Non ha
cambiato né istituto, né classe; continua a fare ogni giorno la stessa strada
per andare e per tornare e la mattina, quando è di turno, si muove in anticipo
per occuparsi dell’aula esattamente come prima. Quando torna a casa, i genitori
a volte non ci sono, a volte sì.
Ma la loro
presenza non è diminuita né aumentata da quando ha scoperto di vedere anche
cose che gli altri bambini non vedono, o di riuscire a scorgerle in oggetti in
cui non dovresti intravedere nulla se non l’oggetto stesso.
Shuusei è
un bambino tranquillo: di indole pacata e gentile, spesso gli insegnanti dicono
di lui la classica frase “è più maturo dei ragazzi della sua età”. Lui non ha
mai alzato la voce, e con i compagni sembra avere sempre un buon rapporto.
Quando sono in disaccordo, lui sembra riuscire a calmare le persone attorno a
lui per quel suo modo di fare che a volte sembra quasi distante.
Però
Shuusei sorride spesso in classe. Non è quel tipo di sorriso ampio e
sinceramente entusiasta dei ragazzini della sua età, ma più uno di quelli
accondiscendenti e dalla sfumatura dolce che sembra perdonarti tutto.
Le
compagne di classe lo apprezzano molto per questo, e anche le più timide
riescono a comunicare con lui normalmente, a proprio agio; Shuusei non le
respinge mai, anche quando a volte potrebbe non avere voglia di parlare con
loro o con chiunque altro.
Capita
spesso che alcuni ragazzi della sua classe lo circondino per chiedergli di
giocare insieme, mentre le ragazze tendono a rivolgersi a lui quando c’è – ad
esempio – un particolare problema del maestro che non riescono a risolvere.
Shuusei
sorride con gentilezza e spiega gli esercizi, oppure con lo stesso incurvarsi
delle labbra declina l’invito. Non è che non gli piaccia giocare, solo che
preferisce i libri.
Ogni tanto
partecipa, ma sono più le volte che rinuncia.
Nell’intervallo
prende molto spesso il proprio pranzo e va in cortile, come tutti, e si sistema
sul prato – distante dalle ragazze, perché si sentirebbe fuori posto in mezzo a
sole femmine, nonostante in sé non ci sia nulla di male.
Rivolge lo
sguardo al piccolo campo in cortile dove alcuni ragazzi giocano spesso a calcio
durante la pausa, sotto la supervisione del loro insegnante di turno.
Quel
giorno, Shuusei ha visto un ragazzino che ha attirato la sua attenzione più di
altri: l’ha visto giocare con alcuni della sua classe contro altri studenti più
grandi – dello stesso anno di Usui – fino a poco prima.
Mentre avanzava
con la palla al piede, uno degli avversari gli ha fatto un brutto scherzo,
rischiando di far male sul serio al più giovane, che è caduto senza poterlo
evitare; Shuusei è stato sorpreso dal fatto che prima di preoccuparsi del piede
o di attaccare briga, quel ragazzino abbia calciato il pallone con l’altro
piede ad un suo compagno, permettendogli di segnare.
E quando
il più grande lo ha guardato stupito e confuso, quel ragazzino ha sorriso con
fare furbo, l’indice a strofinare appena contro il naso in un gesto che lo ha
fatto apparire più pestifero di quanto già non sia ad una prima occhiata.
Poi,
Shuusei ha sentito quello che ha detto al quel compagno disonesto: «Sceeeeemo!»
facendogli la linguaccia e rischiando di scatenare un litigio – sebbene avesse
tutte le ragioni.
Usui è
capoclasse anche se per scelta più dei compagni che non sua: non ha mai
ostentato il suo ruolo, e a dire il vero le uniche mansioni che ha svolto
specificatamente per esso sono quelle interne alla sua classe.
Per una
volta, però, Shuusei si muove prima ancora di accorgersene; non si cura né del
pranzo lasciato sull’erba alla meno peggio, né di molte persone che lo stanno
guardando – lui che non ama stare al centro dell’attenzione anche se vi finisce
la maggior parte delle volte senza poterlo evitare.
Non si
rende nemmeno conto di essere accanto al ragazzo più giovane finché non si
ritrova a fronteggiare quello del suo stesso anno, che lo guarda abbastanza
storto a dire il vero: «Che vuoi?» gli chiede infatti sulla difensiva.
Shuusei
non ha quasi mai un’espressione seria con l’intento di rimproverare, anche
perché si tiene fuori dalle cose che non lo riguardano. Ma stavolta, gli viene
naturale guardare il compagno con severità quasi: «Ho visto quello che hai
fatto, e gli insegnanti non sarebbero contenti di saperlo. Sarebbe meglio se
questo litigio finisse qui, non credi, Aobara-kun?» gli domanda, e la cosa
strana è che non gli sta ponendo una domanda retorica.
Aobara
aggrotta le sopracciglia, come se fosse sul punto di replicare, ma lascia
stare.
Fa
schioccare le labbra infastidito, si volta e va via borbottando qualcosa.
Shuusei
non dice nulla, almeno finché non si volta per poter guardare lo studente più
giovane: si china appena in avanti e gli tende la mano.
Dell’espressione
severa di pochi istanti prima, nemmeno l’ombra; Shuusei sta sorridendo come
sempre.
«Vieni, ti
accompagno in infermeria…» lascia in sospeso, non conoscendo il suo nome.
Il castano
prende la sua mano perplesso, più meccanicamente che non volontariamente.
«…Renjou.
Renjou Hotsuma.» si presenta mentre si tira su aiutandosi con la mano offerta
dall’altro, il quale si assicura di sorreggerlo non sapendo quanto il piede
possa fargli male o quanto invece possa essere stata solo una botta.
«Bene. Ti
accompagno in infermeria, Renjou-kun.» ripete aggiungendo il cognome ora, come
se la formula dovesse essere pronunciata per intero per essere valida.
Si muovono
verso l’interno. Il pranzo è abbandonato sull’erba.
«Ahi, ahi!
Fa piano!» sbotta Hotsuma, seduto sullo sgabello dei pazienti all’indirizzo
della dottoressa dell’infermeria che gli sta fasciando la caviglia, anche se
solo per precauzione, ha detto.
Shuusei,
dal punto in cui è dietro Hotsuma e poggiato alla parete in attesa che la donna
finisca il suo lavoro, non può fare a meno di portare una mano a coprire le
labbra e ridacchiare sommessamente. Forse spera di non essere udito, ma
l’attimo dopo Hotsuma si volta con espressione offesa molto simile ad un
broncio che più che renderlo minaccioso lo fa apparire buffo: «Non c’è niente
da ridere, Usui-coso!» sbotta, probabilmente sostituendo di proposito il nome
dell’altro di cui non è a conoscenza.
«Shuusei.»
lo corregge lui bonariamente, con un sorriso divertito ad incurvargli le
labbra, vedendolo incrociare le braccia al petto e borbottare qualcosa.
Non fa in
tempo ad indagare, perché la dottoressa si rivolge a lui, raccomandandosi di
assicurarsi che Renjou-kun non sforzi quel piede né durante il resto delle
lezioni, né nel rientrare a casa. Dopodiché si congeda per andare in magazzino
a prendere qualcosa.
Shuusei
non si muove dalla sua posizione e Hotsuma sembra preso ad osservarsi il piede
fasciato di cui di certo non è entusiasta.
«Perché ti
sei messo in mezzo?» domanda con parole che potrebbero sembrare brusche, ma che
sono più curiose e un poco burbere in realtà. Ciò che probabilmente fa mutare
la sua espressione in una stupita è il notare che Shuusei ci sta pensando su
davvero prima di rispondere.
«Credo sia
per quel tuo “Sceeeeemo”» ammette infine, con il tono più naturale del mondo.
«Quel
tizio ti sta antipatico?» fraintende il più giovane, corretto dal dissentire di
Shuusei: «Lo conosco poco, è di un’altra classe.» spiega pazientemente proprio
come quando fanno gli esercizi di matematica con le compagne che gli chiedono aiuto.
«E
allora?» lo interroga di nuovo Hotsuma, con la curiosità tipica dei bambini –
quella che dovrebbe avere anche Shuusei.
Il più
grande apre la porta dell’infermeria, dichiarando di stare andando ad avvisare
il docente di Hotsuma delle sue condizioni, oltre che il proprio; Hotsuma fa
per protestare e Shuusei quando è sulla porta si volta appena, con
l’espressione di chi stava per dimenticarsi di dire qualcosa di importante ma
fortunatamente se ne è ricordato.
«Probabilmente
è perché a me fare il capoclasse non piace particolarmente, ma per aiutare
Renjou-kun mi è sembrato incredibilmente utile per la prima volta.» pronuncia
con semplicità e, persino, una nota di divertimento nel tono di voce.
Poi, esce.
Hotsuma
guarda stupito la soglia dove prima stava l’altro.
Shuusei
non saprebbe spiegare bene perché da allora hanno preso l’abitudine di
aspettarsi all’uscita da scuola, lui e Hotsuma. Considerando che non sono in
classe insieme e che lui non lo avvicina mai all’intervallo, rimanendo in
classe a leggere un libro o mangiando più o meno nel solito posto di sempre, è
strano.
Eppure un
paio di giorni dopo l’episodio dell’infermeria, ormai nei pressi del cancello
d’uscita Shuusei l’aveva trovato lì, l’aria di chi stava aspettando da un po’.
L’ha guardato perplesso, inclinando appena lateralmente il capo, non
immaginando certo che aspettasse lui: «Qualcosa non va, Renjou-kun?» aveva
domandato – dopotutto era un suo kohai.
Hotsuma
però si era semplicemente voltato, le braccia incrociate dietro la testa e la cartella
che sbatacchiava appena contro le spalle mentre camminava: «Naah, ti aspettavo
e basta. Torniamo a casa?» lo aveva incalzato come se fosse stata la cosa più
naturale del mondo, come se non avessero fatto altro in tutti quegli anni.
Shuusei
era quel tipo di persona cortese con tutti, ma che non si legava a molti. O a
nessuno, per essere precisi.
Faceva il
capoclasse, ma non amava spiccare.
Piaceva ai
suoi compagni, ma non giocava a calcio con loro nell’intervallo.
Tutti
chiedevano di lui, ma nessun amico era mai stato a casa sua.
Era stato
strano e inaspettato il tipo di rapporto che si era venuto a creare con
Hotsuma: si era gradualmente trasformato in quel tipo di amicizia di cui
Shuusei non si era mai fatto oggetto.
Non perché ricercasse particolarmente la solitudine o perché gli piacesse dare
di sé l’immagine del ragazzo bravo e gentile e irraggiungibile.
Solo…
«Ne,
Hotsuma» aveva chiesto una volta, quando si erano fermati a prendere delle
patate dolci al ritorno da scuola. Entrambi seduti sull’altalena del parco,
erano uno affianco all’altro: «come mai di tanti amici proprio con me?» aveva
concluso la domanda, rimanendo in ascolto.
Il tono
con il quale l’aveva pronunciata era stato morbido, gentile come al solito e le
labbra come sempre erano incurvate in un sorriso; non era un’accusa,
probabilmente aveva davvero chiesto
solo per curiosità, e non per mettere in difficoltà il più giovane.
Ma in ogni
caso, Hotsuma l’aveva guardato per un attimo perplesso, dopodiché aveva morso
la propria patata dolce, portando lo sguardo davanti a sé quasi ad imitazione
dell’altro. Aveva preso a dondolare appena le gambe avanti e indietro: «Perché
tu, Shuusei, non cerchi mai nessuno.» era stata la risposta.
Così
sincera e spontanea, che Shuusei si chiuse nel silenzio fino a quando non
salutò Hotsuma sulla soglia di casa.
«Shuusei,
si può sapere dove stiamo andando?» chiede Hotsuma con tono annoiato, visto che
l’altro lo sta facendo girare per chissà dove tenendo le proprie mani sui suoi
occhi per impedirgli di vedere il tragitto. Ed è strano, perché Shuusei è
sempre posato e calmo e sembra più maturo della sua età, e non fa giochi così
infantili, Hotsuma non glieli ha mai visti fare con nessuno.
Sente il
ridacchiare sommesso dell’altro alle proprie spalle, da dove lo guida.
«Shuusei!»
esclama di nuovo con tono lamentoso, e quella del più grande diventa una vera e
propria risata divertita, anche se non sguaiata.
«Cerca di
avere un po’ di pazienza per una volta.» lo redarguisce bonario, muovendosi in
modo tale che anche l’altro istintivamente vada nella stessa direzione.
Hotsuma
sbuffa, lasciando stare le lamentele – capendo che tanto non gli verrà permesso
lo stesso di guardare dove cavolo stanno andando – e tace, cogliendo più rumori
di quanto non facesse prima. Sono indubbiamente per strada, probabilmente in
una via dove c’è anche qualche casa, perché gli pare di avvertire i classici
rumori casalinghi che si trovano un po’ dappertutto.
Ad un
certo punto sente Shuusei esitare, poi bussare – forse mi ha portato in un negozio?, è l’illuminazione che ha ad un
certo punto mentre un’espressione di infantile vittoria gli si dipinge sul
volto, per ora invisibile a Shuusei.
Viene
guidato nuovamente in avanti, e ad un certo punto rischia di inciampare su uno
scalino che non poteva aspettarsi ovviamente. Poi, Shuusei si ferma.
«Hotsuma»
gli dice con ancora le mani sui suoi occhi: «prometti di tenere gli occhi
chiusi ancora un po’ se tolgo le mani. Voglio mostrarti una cosa.» pronuncia, e
anche se Hotsuma parla ormai ogni giorno con l’amico è sicuro di non aver mai
sentito quella nota di aspettativa prima d’ora.
Perciò gli
viene naturale prometterglielo; dopotutto, si tratta di Shuusei.
Si sente
prendere per mano, e tirare appena – evidentemente Shuusei lo precede – e alla
fine è sicuro che una porta si sia chiusa alle sue spalle.
«Adesso
puoi guardare.» pronuncia Shuusei lasciandogli la mano e Hotsuma, un po’
perplesso, apre gli occhi.
È una
stanza come al mondo ce ne sono tante altre probabilmente.
È ampia,
spaziosa, bene illuminata da un finestrone le cui tende al momento sono
scostate; lateralmente, c’è un divanetto e la mobilia occidentale classica di
una sala in cui si fanno accomodare gli ospiti – ma è un po’ più grande di
quella di casa sua, Hotsuma su quello non ha dubbi.
Ma non è
né il divanetto, né il tavolino, né la grande finestra ad attirare la sua
attenzione. Quello lo fa un pianoforte nero, a coda, lucido. Non ne ha mai
visto uno, ed è a bocca aperta e gli occhi si illuminano di genuino entusiasmo.
«Shuusei…»
mormora perché è troppo incantato, e troppo sincero per preoccuparsi di non
darlo a vedere: «di chi è? Dove siamo?» chiede con curiosità crescente, non
riuscendo a spostare lo sguardo sul suo amico nonostante stia parlando con lui.
Shuusei
sorride con dolcezza: «Siamo a casa mia.» replica con semplicità, ed è proprio
con quella risposta forse quasi scontata che riconquista l’attenzione
dell’amico, che scosta gli occhi chiari dallo strumento per portarli su di lui
con un’aria a dir poco sorpresa.
«Casa tua?
Quindi… quello è…?» lascia in sospeso, incredulo, suscitando di nuovo un
ridacchiare leggero in Shuusei.
Hotsuma
ogni tanto ci pensa, che sia un po’ strano.
Perché lui
non si era mai accorto che Shuusei ridesse così tanto.
«Eh?!»
esclama stupito Hotsuma mentre cenano insieme, sentendo che è il primo amico di
Shuusei ad andare a trovarlo a casa.
Gli pare
strano, quasi impossibile, perché da che lo conosce ha visto che va d’accordo
con tutti e che i suoi compagni sembrano contare su di lui.
Shuusei si
limita a sorridere, e non spiega oltre lasciando che siano i suoi genitori a
farlo per lui – Shuusei è troppo timido,
ha commentato ad un certo punto sua madre.
Praticamente
è rimasto in silenzio fino alla fine del pasto, dopo il quale si sono spostati
lì in quella stanza dove sono ora, quella col pianoforte.
Le tende
sono tirate, almeno quelle della finestra più grande e le altre comunque
accostate, cosicché la luminosità della stanza sarebbe quasi nulla se non ci
fosse la luce artificiale accesa; Hotsuma guarda Shuusei incerto, chiedendosi
se non ha per caso detto qualcosa che avrebbe dovuto evitare.
Ma l’altro
gli sorride come fa sempre e non sembra arrabbiato: «Vuoi suonare qualcosa?» è
la domanda con cui lo riporta alla realtà. Hotsuma scuote la testa con un
sorrisetto furbo, di quelli da monello forse.
«No, no,
non la so suonare quella roba, in educazione musicale faccio schifo.» ammette
con tono divertito, con quel suo modo di fare sincero dal quale Shuusei ha
capito di essere stato rapito fin dall’inizio.
«Perché non
suoni qualcosa tu?» lo sente proporre e spostando lo sguardo su di lui nota
l’espressione curiosa che il più giovane ha assunto e non riesce a fare a meno
di sorridere e acconsentire.
Si siede
sullo sgabello e osserva i tasti bianchi e neri, senza sistemare alcuno
spartito sul leggìo: le dita affusolate si alternano sullo strumento con
movimenti fluidi, sebbene si tratti di una melodia semplice, non troppo
impegnata.
Ha un
andamento moderato, ed è di quel tipo di canzone che ti rimane in mente per un
sacco di tempo anche quando hai smesso di ascoltarla.
Quello che
suona Shuusei non è nulla di particolare, eppure ad Hotsuma in quel momento
sembra la melodia più bella del mondo: riempie la stanza completamente, lo
circonda, arriva alle orecchie e lo tranquillizza, lo rilassa a tal punto che
per lui chiudere gli occhi è istintivo e non si accorge di farlo fino a che non
sente la mano di Shuusei posarsi sulla spalla senza che lui la veda.
A quel
punto apre di nuovo gli occhi e si ritrova a fissare quelli di Shuusei.
C’è una
sfumatura preoccupata, o così gli sembra e lui la riflette in una confusa, la
propria.
«Cosa
c’è?» domanda verso il più grande.
«Stai
bene… vero Hotsuma?» replica l’altro, senza mutare l’espressione.
Hotsuma
annuisce, ma nel guardare il sospiro sollevato di Shuusei si chiede perché.
Perché mai
uno come Shuusei dovrebbe temere di ferire qualcuno solo suonando il
pianoforte.
Shuusei
vive una vita normale: la sua famiglia lo tratta normalmente, i compagni lo
trattano normalmente. E poi, ora c’è Hotsuma, il suo primo, vero amico anche se
a vederli sono completamente opposti o così vengono percepiti dagli altri.
Hotsuma
che non è capace di mentire nemmeno quando vorrebbe.
Hotsuma
che sorride in quel modo così genuino da farti pensare che ci sia qualcosa di
bello da proteggere.
Hotsuma
che ride, e tu lo senti ridere, e ti dici che una piccola porzione di mondo
sicuramente gira anche grazie a quello.
Hotsuma
che si imbroncia, poi fa una faccia stupita, poi sbuffa annoiato.
Hotsuma
che ha un senso della giustizia tale che ha lo stesso coraggio di un adulto
misto alla sconsideratezza di un bambino.
Hotsuma
che forse ha qualche inimicizia, ma anche molte amicizie; lui che di Shuusei,
più di tanto, non ha bisogno.
Shuusei,
quando l’altro gli chiede ultimamente se è tutto a posto, sorride con
gentilezza e risponde di sì anche se non è la verità.
Shuusei lo
guarda dritto negli occhi meno volte di quanto sembri.
Shuusei si
vergogna terribilmente, perché lui di Hotsuma ha bisogno, ma non vuole
dirglielo e non vuole che l’altro se ne accorga.
Perché
Shuusei lo sa.
Hotsuma è
troppo buono: se lui pronunciasse le parole “ho bisogno di te”, l’altro si
legherebbe a lui senza pensarci due volte, e non vuole.
Perché
Shuusei lo sa.
Lui è
troppo egoista: poi, non lo lascerebbe più andare.
Shuusei…
Shuusei, io sono
realmente qui?
Shuusei si
rigira nel letto per la sesta volta, sebbene più silenziosamente possibile.
Da una
posizione supina passa ad una fetale, il viso rivolto alla parete.
Dà le
spalle ad Hotsuma, che è in silenzio da quando hanno spento la luce.
Shuusei
non riesce a prendere sonno. Ripensa al fatto che poche ore prima hanno suonato
alla porta di casa sua, e aprendo si è ritrovato di fronte un Hotsuma fradicio
a causa del tragitto fatto a piedi sotto la pioggia.
I capelli
erano bagnati, e così il viso, e i vestiti, eppure Shuusei guardando Hotsuma
non ha pensato nemmeno per un attimo che anche gli occhi fossero umidi per la
pioggia.
Senza un
perché, visto che lo sa quanto Hotsuma sia orgoglioso – sono ormai quasi due
anni che si conoscono dopotutto.
Hotsuma si
è mosso in avanti, e ha appoggiato la fronte alla sua spalla: la voce stava
tremando, il corpo stava tremando, e Shuusei lo ha abbracciato goffamente e non
ha saputo rispondere sinceramente nemmeno a quell’unica domanda – se Hotsuma
fosse “realmente lì”.
Si è
limitato ad un banale: «Sì.» mentre stringeva appena l’abbraccio per
enfatizzare delle parole deboli.
Gli ha
permesso di restare senza nemmeno bisogno di pensarci quando Hotsuma ha
lasciato intendere di non voler tornare a casa, ed ha rispettato il silenzio
che si era creato subito dopo che l’altro si era cambiato con degli abiti di
Shuusei.
Quello
stesso silenzio che hanno interrotto solo per dirsi: «Forse è il caso che
dormiamo.» e «Va bene.» e che poi è tornato a riempire la stanza insieme al
buio.
Il respiro
di Hotsuma è regolare – lo sta ascoltando da una buona mezz’ora – e se in parte
lo tranquillizza, dall’altra è un rumore che lo tiene sveglio, lo sguardo
puntato al muro verso il quale è voltato.
È
arrabbiato; perché Hotsuma aveva bisogno di lui, in quel momento, e lui invece—
«Shuusei…
sei sveglio?»
Si volta
sorpreso, e il suo sguardo mette a fuoco la sagoma di Hotsuma nonostante
l’oscurità: «Sì… qualcosa non va?» domanda, più vigile di quanto non fosse già
prima.
Hotsuma
rimane in silenzio, immobile, indugia.
Shuusei
non sa perché, ma ha capito o è convinto di averlo fatto, e allora tenta:
scosta le coperte del letto ad una piazza e mezza, e si fa appena di lato.
«Per terra
fa freddo, non mi piace l’idea che ci dorma un ospite, anche se con il futon.»
pronuncia, ma lo sanno entrambi che è una bugia, una scusa. Shuusei lo sa, che
Hotsuma non voleva chiedere, ma che non riusciva a dormire.
E
dopotutto a Shuusei non pesa mostrare di essere lui ad avere la necessità di
sentire l’altro vicino. Non gli pesa, perché non deve fingere affatto.
Anche se
questo Hotsuma non lo sa.
Lo sente
salire sul letto, sistemarsi sotto le coperte e tirarle su in modo che coprano
entrambi; il più grande stavolta dà le spalle al muro, sul fianco opposto a
quello sul quale poggiava poco prima, e il viso rivolto verso Hotsuma.
«Scusa.»
lo sente bofonchiare senza preavviso rompendo quel silenzio che, da quando si è
sistemato accanto a lui nel letto, Shuusei trova meno pesante in un certo
senso.
«Non devi
scusarti.» gli risponde semplicemente: «Va… un po’ meglio?» azzarda quindi, ma
la risposta non arriva subito e in quella pausa Shuusei si morde leggermente il
labbro inferiore.
Forse non
avrebbe dovuto chiedere.
Forse…
«Non hai
paura, Shuusei?» lo sente domandare.
«Di cosa?»
«Di me.»
Lo spiazza
completamente quella domanda – o è una risposta in realtà?
Shuusei sa
di non avere affatto paura di Hotsuma, tutt’altro.
E sa che
l’altro ha bisogno di sentirselo dire.
Solo…
Shuusei è terrorizzato. Non sa se dalla velocità con cui si è affezionato, o se
dalla facilità con la quale Hotsuma si è guadagnato la sua fiducia e lo ha
affiancato senza che lui quasi se ne accorgesse.
Probabilmente
tutte e due.
Magari
nessuna delle due.
Sicuramente,
la fragilità di quel momento lo spaventa: lui può ferire.
Sa che
può, lo sa come non ne è a conoscenza nessun altro, come nessun altro può
immaginare.
Shuusei si
vergogna, di ammettere che ha paura.
Ma non di
Hotsuma.
«No, non
di te.» mormora: «Di me.»
È poco più
di un sussurro, ma l’ha detto.
È la prima
volta che lo fa, ed è una sensazione strana: vorrebbe scappare, ma gli sembra
di stare meglio. Anche se solo un po’.
«…Hotsuma,
che fai?» mormora perplesso, sentendo il viso del più giovane affondare da
qualche parte vicino al proprio collo, i capelli che gli fanno appena il
solletico e le braccia che gli cingono infantilmente la vita.
«Io non ho
paura di te, Shuusei.» pronuncia soltanto, e Shuusei ricambia quel suo gesto, e
nessuno dei due dice più nulla. Ma, mentalmente, Shuusei se lo ripromette.
Quando
avrà un po’ più di coraggio, risponderà sinceramente quello che poche ore prima
gli ha taciuto.
Certo che sei qui. Se così non
fosse, probabilmente io non ci sarei già più.
La chiamano “Voce di
Dio”,
ma non è altro che un
mostro!
Shuusei si
ricorda ancora di quando, anni prima, ha detto per la prima volta ad Hotsuma
quella verità che non aveva mai rivelato a nessuno.
La
felicità in casa sua era fittizia.
L’armonia
in casa sua, non era vera.
Il sorriso
di sua madre, non era vero.
Lo sguardo
orgoglioso di suo padre, non era vero.
Hotsuma
aveva obiettato: si conoscevano da abbastanza, ed era stato spesso a casa sua,
e poteva assicurargli che era tutto reale.
Perché lui
sapeva com’era quando dietro un gesto d’affetto c’era solo la volontà di non
innervosire tuo figlio per paura che potesse farti del male.
Mi hai frainteso., aveva detto Shuusei, seduto
sull’altalena di fianco a lui, guardando avanti a sé come la volta delle patate
dolci.
Per loro è tutto autentico. È per
me, che è fittizio.,
aveva chiarito, ma non davvero, almeno finché non era stato sincero al punto
tale che nemmeno Hotsuma avrebbe potuto non capire.
Shuusei
non aveva mai parlato tanto, e lo stesso quella volta in cui era sembrato come se
avesse fretta di finire e poter tornare in silenzio.
«Vedo cose
che gli altri non vedono.» aveva pronunciato: «Non parlo delle cose dei film.
Dei fantasmi, o degli alieni.» aveva chiarito.
«Vedo
oggetti. Vedo persone. Ma le vedo… lontane dalla realtà.»
Hotsuma lo
trovava strano, forse all’inizio per un solo istante era stato quasi incredulo.
Ma poi si era detto che in fondo, se lui poteva maledire con la propria voce e
scatenare fiamme terribili come quelle di quella volta, perché avrebbe dovuto
reputare strano che Shuusei vedesse cose particolari?
«Vedi…
anche altro? Il futuro, per esempio.» aveva chiesto, cercando di metterlo a suo
agio forse, a modo suo.
«No.»
aveva risposto quasi frettolosamente, stringendo la presa sulle catene
dell’altalena, indurendo lo sguardo puntato per terra.
«Non
voglio guardarlo. Non voglio nemmeno vedere il passato, o le cose e le persone.
Non le voglio vedere. Se le guardo… forse potrei fare qualcosa di sbagliato.»
aveva mormorato.
Hotsuma si
era voltato ad osservarlo, interrompendo quella specie di usanza che avevano di
guardare davanti e mai l’altro quando parlavano in quel posto.
«Qualcosa
di sbagliato?» gli aveva fatto eco, confuso.
Dal suo
punto di vista, dubitava seriamente che Shuusei potesse fare qualcosa di male,
specie limitandosi ad osservare qualcosa.
«Qualcosa
di sbagliato come?»
«Non lo
so!» aveva esclamato – Shuusei, che aveva sempre il tono calmo, e conciliante,
come la più ideale delle ancore di salvezza che qualcuno potesse desiderare.
«So
soltanto che… continuano a vorticarmi in testa! Appaiono senza preavviso,
mentre guardo qualcuno, o qualcosa… non voglio spiare il passato degli altri.
Se questa cosa diventasse più forte…
lo scoprirebbero. Tutti quanti. E le cose come questa…» aveva indugiato, perché
Hotsuma capiva.
Poteva
capire fin troppo bene.
Cose come
quella non le accoglievi con un sorriso.
Cose come
quella distruggevano persino il legame di un genitore verso suo figlio, che
avrebbe dovuto essere il più forte e profondo tra le persone.
Shuusei
era cosciente non solo di quello, ma anche del fatto che guardare il futuro –
sempre ammesso che fosse una delle cose per lui possibili – avrebbe significato
molte più cose di quanto potesse sembrare.
La
tentazione di mettere le cose a posto prima che accadessero.
La
possibilità di peggiorarle per cercare di cambiarle.
La
probabilità di vedere qualcosa di spaventoso.
Di essere spaventoso.
Di vedere
sua madre che si disfaceva di suo figlio come accadeva a quelli come lui.
Di vedere
Hotsuma andare via.
Di vedere
Hotsuma… morire.
E non
poterlo impedire.
Corre.
Non è da
lui, ma corre.
Lo sapeva
che non avrebbe dovuto allontanarsi.
Che non
doveva lasciarlo solo – lo sapeva.
Avverte il
panico: è spiazzante, perché non l’ha mai provato, mai a quel modo, mai tanto
da bastare a paralizzarlo sul posto. Ma deve correre.
Hotsuma
era lì, su quella panchina, pallido e con l’espressione terribilmente simile a
quando da bambini si era presentato fuori da casa sua sotto la pioggia.
Gli aveva
detto di aspettare, che sarebbe tornato subito.
Poi era
tornato, ed Hotsuma non c’era – seduto alla panchina, in piedi lì nei pressi,
né in un punto visibile del parco da lì.
Shuusei ha
conosciuto il terrore.
Il terrore
che quel futuro senza Hotsuma che aveva temuto sempre in un angolo della propria
mente si stesse avverando.
Una paura
che si confermò quando cercò non come essere umano, ma come Guardiano.
Nello
specchio d’acqua di una fontana… l’offuscata ed imprecisa visione delle fiamme.
Corre.
Deve
arrivarci. Deve. Deve. Deve.
Ci arriva,
e lo vede.
Shuusei
non ha mai temuto le fiamme di Hotsuma, ma in quel momento sì.
Le odia.
Sono
entrambi a terra, il fiatone l’uno, un labbro stretto tra i denti l’altro.
Shuusei
stringe gli occhi, un po’ per le fiamme che si sono spente, un po’ – tanto – per
il dolore che non vuole mostrare ad Hotsuma.
Lo sta già
guardando terrorizzato, lo ha intravisto, dopo essersi reso conto di averlo
quasi ucciso.
Di aver
quasi ucciso entrambi.
«Shuusei…»
mormora, portando appena una mano in avanti per sfiorare i punti che sono
palesemente feriti.
Lo guarda,
e vede sul suo viso il terrore di un bambino che avrebbe solo voluto essere
come tutti gli altri.
Lo guarda,
e vede ciò che Hotsuma sta pensando. Lo vede, ma non perché ha il dono
dell’Occhio di Dio.
Semplicemente
perché… si tratta di Hotsuma.
«Chiamo…
chiamo…» boccheggia il biondo, ma Shuusei indurisce lo sguardo.
Shuusei,
che gli ha sempre rivolto il sorriso di cui aveva bisogno, lo guarda quasi con…
astio?
Un rumore.
Hotsuma non sa cosa sia.
Probabilmente non è nulla.
Forse è solo dolore.
Fissa un
punto imprecisato, il viso voltato lateralmente.
Lo
schiaffo di Shuusei brucia un po’.
«Ti avevo
detto di aspettarmi! Avevo detto che sarei tornato subito!» lo sente alzare la
voce, la voce che ad Hotsuma è sempre piaciuta, è sempre parsa dolce come la
ninna nanna di una mamma al bambino che ama, quella che lui di sua madre non
ricordava.
Non lo
guarda. Non ne ha il coraggio.
«Credevi
che fosse la soluzione? Pensi che morire sia la soluzione?!» sembra urlare
sempre di più, e Hotsuma si chiede se, voltandosi, non potrebbe addirittura
scoprire che quello non è Shuusei.
Non
sarebbe strano, perché una voce che trema a quel modo lui sull’amico non l’ha
mai sentita.
Shuusei è
sempre calmo, e posato, e sa cosa fare – nel suo ideale di bambino Shuusei non
ha paura, se non di se stesso, ma ormai è superata giusto?
Perché
Shuusei ora controlla il suo potere, sa che non può far male a nessuno.
Allora
perché?
«Guardami!»
lo richiama, e non c’è un modo in cui Hotsuma potrebbe mai ignorare la voce di
Shuusei.
Alza lo
sguardo su di lui e sgrana appena gli occhi.
Shuusei
afferra il bavero della camicia di Hotsuma e i loro visi sono vicini, e se il
biondo aveva un dubbio ora è completamente sparito.
Shuusei ha
l’espressione di qualcuno che non piange solo perché la rabbia e la paura
glielo impediscono.
«Se stai
cercando di allontanarti da me… dimmelo. Dimmelo, ma non cercare mai più… di
ucciderti.» era partito per sbraitare, forse, ma non è da lui.
Correre
non è da lui.
Avere
paura non è da lui.
Tenerci
così tanto, non è da lui.
Eppure non
ce la fa.
«Se è
esagerato, o assurdo, o stupido… non mi importa. Tu sei il mio partner e in
ogni caso, morire è ancora più stupido, quindi…» indugia.
Tace.
Guarda a terra.
Respira –
gemito di dolore, ma leggero, lo trattiene.
«Hotsuma»
mormora, e per un attimo è lui il bambino sperduto sotto la pioggia e fuori da
una porta che spera si apra: «non andare via.» sussurra.
È una
richiesta che forse l’altro non ha sentito.
Ma la mano
che prende con due dita il bordo della sua maglia mentre la voce pronuncia
“andiamo all’ospedale, Shuusei” è una risposta sufficiente.
Shuusei
guarda fuori dalla finestra, steso sul letto.
Le
cicatrici rimarranno,
ha detto il medico, ma è vivo, e Hotsuma è vivo, e per adesso va bene così.
Hotsuma
arriverà fra poco, perché viene tutti i giorni, alla stessa ora – anche quando
non entra, le infermiere gli hanno fatto la spia a fin di bene.
Shuusei
guarda fuori, e sospira.
Lo sapeva.
Hotsuma, non andare via.
Lo ha
legato a sé.
Egoista.