Anime & Manga > Uraboku
Ricorda la storia  |      
Autore: Shichan    21/08/2010    8 recensioni
Shuusei lo sapeva bene; che era lui a vivere sulle spalle di Hotsuma e non il contrario.
«Non hai paura, Shuusei?» lo sente domandare.
«Di cosa?»
«Di me.»
[Shonen-ai lievissimo]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Shuusei lo sapeva bene; che era lui a vivere sulle spalle di Hotsuma e non il contrario

Disclaimer: i personaggi sono copyright di Odagiri Hotaru.

La maggior parte delle frasi in corsivo sulla destra (ad eccezione delle ultime due) sono fedelmente riportate dall’anime.

 

A Litachan che sa il perché o forse lo immagina (no, non è solo vendetta per l’amv), perché sicuramente – spero – mi riesce meglio scrivere che non tutto il resto. <3

 

 

 

Shuusei lo sapeva bene; che era lui a vivere sulle spalle di Hotsuma e non il contrario.

 

Shuusei, lo sanno.

Sanno che ho dato fuoco a quelle persone.

Nessuno ha più il coraggio di guardarmi in faccia.

 

La famiglia Usui non si è mai sbilanciata.

Riguardo la condizione del figlio e il potere che sembrava derivarne.

Shuusei va ad una scuola pubblica come tante altre, la stessa dove andava prima di scoprire quel presunto dono.

Non ha cambiato né istituto, né classe; continua a fare ogni giorno la stessa strada per andare e per tornare e la mattina, quando è di turno, si muove in anticipo per occuparsi dell’aula esattamente come prima. Quando torna a casa, i genitori a volte non ci sono, a volte sì.

Ma la loro presenza non è diminuita né aumentata da quando ha scoperto di vedere anche cose che gli altri bambini non vedono, o di riuscire a scorgerle in oggetti in cui non dovresti intravedere nulla se non l’oggetto stesso.

Shuusei è un bambino tranquillo: di indole pacata e gentile, spesso gli insegnanti dicono di lui la classica frase “è più maturo dei ragazzi della sua età”. Lui non ha mai alzato la voce, e con i compagni sembra avere sempre un buon rapporto. Quando sono in disaccordo, lui sembra riuscire a calmare le persone attorno a lui per quel suo modo di fare che a volte sembra quasi distante.

Però Shuusei sorride spesso in classe. Non è quel tipo di sorriso ampio e sinceramente entusiasta dei ragazzini della sua età, ma più uno di quelli accondiscendenti e dalla sfumatura dolce che sembra perdonarti tutto. 

Le compagne di classe lo apprezzano molto per questo, e anche le più timide riescono a comunicare con lui normalmente, a proprio agio; Shuusei non le respinge mai, anche quando a volte potrebbe non avere voglia di parlare con loro o con chiunque altro.

Capita spesso che alcuni ragazzi della sua classe lo circondino per chiedergli di giocare insieme, mentre le ragazze tendono a rivolgersi a lui quando c’è – ad esempio – un particolare problema del maestro che non riescono a risolvere.

Shuusei sorride con gentilezza e spiega gli esercizi, oppure con lo stesso incurvarsi delle labbra declina l’invito. Non è che non gli piaccia giocare, solo che preferisce i libri.

Ogni tanto partecipa, ma sono più le volte che rinuncia.

Nell’intervallo prende molto spesso il proprio pranzo e va in cortile, come tutti, e si sistema sul prato – distante dalle ragazze, perché si sentirebbe fuori posto in mezzo a sole femmine, nonostante in sé non ci sia nulla di male.

Rivolge lo sguardo al piccolo campo in cortile dove alcuni ragazzi giocano spesso a calcio durante la pausa, sotto la supervisione del loro insegnante di turno.

Quel giorno, Shuusei ha visto un ragazzino che ha attirato la sua attenzione più di altri: l’ha visto giocare con alcuni della sua classe contro altri studenti più grandi – dello stesso anno di Usui – fino a poco prima.

Mentre avanzava con la palla al piede, uno degli avversari gli ha fatto un brutto scherzo, rischiando di far male sul serio al più giovane, che è caduto senza poterlo evitare; Shuusei è stato sorpreso dal fatto che prima di preoccuparsi del piede o di attaccare briga, quel ragazzino abbia calciato il pallone con l’altro piede ad un suo compagno, permettendogli di segnare.

E quando il più grande lo ha guardato stupito e confuso, quel ragazzino ha sorriso con fare furbo, l’indice a strofinare appena contro il naso in un gesto che lo ha fatto apparire più pestifero di quanto già non sia ad una prima occhiata.

Poi, Shuusei ha sentito quello che ha detto al quel compagno disonesto: «Sceeeeemo!» facendogli la linguaccia e rischiando di scatenare un litigio – sebbene avesse tutte le ragioni.

Usui è capoclasse anche se per scelta più dei compagni che non sua: non ha mai ostentato il suo ruolo, e a dire il vero le uniche mansioni che ha svolto specificatamente per esso sono quelle interne alla sua classe.

Per una volta, però, Shuusei si muove prima ancora di accorgersene; non si cura né del pranzo lasciato sull’erba alla meno peggio, né di molte persone che lo stanno guardando – lui che non ama stare al centro dell’attenzione anche se vi finisce la maggior parte delle volte senza poterlo evitare.

Non si rende nemmeno conto di essere accanto al ragazzo più giovane finché non si ritrova a fronteggiare quello del suo stesso anno, che lo guarda abbastanza storto a dire il vero: «Che vuoi?» gli chiede infatti sulla difensiva.

Shuusei non ha quasi mai un’espressione seria con l’intento di rimproverare, anche perché si tiene fuori dalle cose che non lo riguardano. Ma stavolta, gli viene naturale guardare il compagno con severità quasi: «Ho visto quello che hai fatto, e gli insegnanti non sarebbero contenti di saperlo. Sarebbe meglio se questo litigio finisse qui, non credi, Aobara-kun?» gli domanda, e la cosa strana è che non gli sta ponendo una domanda retorica.

Aobara aggrotta le sopracciglia, come se fosse sul punto di replicare, ma lascia stare.

Fa schioccare le labbra infastidito, si volta e va via borbottando qualcosa.

Shuusei non dice nulla, almeno finché non si volta per poter guardare lo studente più giovane: si china appena in avanti e gli tende la mano.

Dell’espressione severa di pochi istanti prima, nemmeno l’ombra; Shuusei sta sorridendo come sempre.

«Vieni, ti accompagno in infermeria…» lascia in sospeso, non conoscendo il suo nome.

Il castano prende la sua mano perplesso, più meccanicamente che non volontariamente.

«…Renjou. Renjou Hotsuma.» si presenta mentre si tira su aiutandosi con la mano offerta dall’altro, il quale si assicura di sorreggerlo non sapendo quanto il piede possa fargli male o quanto invece possa essere stata solo una botta.

«Bene. Ti accompagno in infermeria, Renjou-kun.» ripete aggiungendo il cognome ora, come se la formula dovesse essere pronunciata per intero per essere valida.

Si muovono verso l’interno. Il pranzo è abbandonato sull’erba.

 

«Ahi, ahi! Fa piano!» sbotta Hotsuma, seduto sullo sgabello dei pazienti all’indirizzo della dottoressa dell’infermeria che gli sta fasciando la caviglia, anche se solo per precauzione, ha detto.

Shuusei, dal punto in cui è dietro Hotsuma e poggiato alla parete in attesa che la donna finisca il suo lavoro, non può fare a meno di portare una mano a coprire le labbra e ridacchiare sommessamente. Forse spera di non essere udito, ma l’attimo dopo Hotsuma si volta con espressione offesa molto simile ad un broncio che più che renderlo minaccioso lo fa apparire buffo: «Non c’è niente da ridere, Usui-coso!» sbotta, probabilmente sostituendo di proposito il nome dell’altro di cui non è a conoscenza.

«Shuusei.» lo corregge lui bonariamente, con un sorriso divertito ad incurvargli le labbra, vedendolo incrociare le braccia al petto e borbottare qualcosa.

Non fa in tempo ad indagare, perché la dottoressa si rivolge a lui, raccomandandosi di assicurarsi che Renjou-kun non sforzi quel piede né durante il resto delle lezioni, né nel rientrare a casa. Dopodiché si congeda per andare in magazzino a prendere qualcosa.

Shuusei non si muove dalla sua posizione e Hotsuma sembra preso ad osservarsi il piede fasciato di cui di certo non è entusiasta.

«Perché ti sei messo in mezzo?» domanda con parole che potrebbero sembrare brusche, ma che sono più curiose e un poco burbere in realtà. Ciò che probabilmente fa mutare la sua espressione in una stupita è il notare che Shuusei ci sta pensando su davvero prima di rispondere.

«Credo sia per quel tuo “Sceeeeemo”» ammette infine, con il tono più naturale del mondo.

«Quel tizio ti sta antipatico?» fraintende il più giovane, corretto dal dissentire di Shuusei: «Lo conosco poco, è di un’altra classe.» spiega pazientemente proprio come quando fanno gli esercizi di matematica con le compagne che gli chiedono aiuto.

«E allora?» lo interroga di nuovo Hotsuma, con la curiosità tipica dei bambini – quella che dovrebbe avere anche Shuusei.

Il più grande apre la porta dell’infermeria, dichiarando di stare andando ad avvisare il docente di Hotsuma delle sue condizioni, oltre che il proprio; Hotsuma fa per protestare e Shuusei quando è sulla porta si volta appena, con l’espressione di chi stava per dimenticarsi di dire qualcosa di importante ma fortunatamente se ne è ricordato.

«Probabilmente è perché a me fare il capoclasse non piace particolarmente, ma per aiutare Renjou-kun mi è sembrato incredibilmente utile per la prima volta.» pronuncia con semplicità e, persino, una nota di divertimento nel tono di voce.

Poi, esce.

Hotsuma guarda stupito la soglia dove prima stava l’altro.

 

Shuusei non saprebbe spiegare bene perché da allora hanno preso l’abitudine di aspettarsi all’uscita da scuola, lui e Hotsuma. Considerando che non sono in classe insieme e che lui non lo avvicina mai all’intervallo, rimanendo in classe a leggere un libro o mangiando più o meno nel solito posto di sempre, è strano.

Eppure un paio di giorni dopo l’episodio dell’infermeria, ormai nei pressi del cancello d’uscita Shuusei l’aveva trovato lì, l’aria di chi stava aspettando da un po’. L’ha guardato perplesso, inclinando appena lateralmente il capo, non immaginando certo che aspettasse lui: «Qualcosa non va, Renjou-kun?» aveva domandato – dopotutto era un suo kohai.

Hotsuma però si era semplicemente voltato, le braccia incrociate dietro la testa e la cartella che sbatacchiava appena contro le spalle mentre camminava: «Naah, ti aspettavo e basta. Torniamo a casa?» lo aveva incalzato come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, come se non avessero fatto altro in tutti quegli anni.

 

Shuusei era quel tipo di persona cortese con tutti, ma che non si legava a molti. O a nessuno, per essere precisi.

Faceva il capoclasse, ma non amava spiccare.

Piaceva ai suoi compagni, ma non giocava a calcio con loro nell’intervallo.

Tutti chiedevano di lui, ma nessun amico era mai stato a casa sua.

Era stato strano e inaspettato il tipo di rapporto che si era venuto a creare con Hotsuma: si era gradualmente trasformato in quel tipo di amicizia di cui Shuusei non  si era mai fatto oggetto. Non perché ricercasse particolarmente la solitudine o perché gli piacesse dare di sé l’immagine del ragazzo bravo e gentile e irraggiungibile.

Solo…

«Ne, Hotsuma» aveva chiesto una volta, quando si erano fermati a prendere delle patate dolci al ritorno da scuola. Entrambi seduti sull’altalena del parco, erano uno affianco all’altro: «come mai di tanti amici proprio con me?» aveva concluso la domanda, rimanendo in ascolto.

Il tono con il quale l’aveva pronunciata era stato morbido, gentile come al solito e le labbra come sempre erano incurvate in un sorriso; non era un’accusa, probabilmente aveva davvero chiesto solo per curiosità, e non per mettere in difficoltà il più giovane.

Ma in ogni caso, Hotsuma l’aveva guardato per un attimo perplesso, dopodiché aveva morso la propria patata dolce, portando lo sguardo davanti a sé quasi ad imitazione dell’altro. Aveva preso a dondolare appena le gambe avanti e indietro: «Perché tu, Shuusei, non cerchi mai nessuno.» era stata la risposta.

Così sincera e spontanea, che Shuusei si chiuse nel silenzio fino a quando non salutò Hotsuma sulla soglia di casa.

 

 

«Shuusei, si può sapere dove stiamo andando?» chiede Hotsuma con tono annoiato, visto che l’altro lo sta facendo girare per chissà dove tenendo le proprie mani sui suoi occhi per impedirgli di vedere il tragitto. Ed è strano, perché Shuusei è sempre posato e calmo e sembra più maturo della sua età, e non fa giochi così infantili, Hotsuma non glieli ha mai visti fare con nessuno.

Sente il ridacchiare sommesso dell’altro alle proprie spalle, da dove lo guida.

«Shuusei!» esclama di nuovo con tono lamentoso, e quella del più grande diventa una vera e propria risata divertita, anche se non sguaiata.

«Cerca di avere un po’ di pazienza per una volta.» lo redarguisce bonario, muovendosi in modo tale che anche l’altro istintivamente vada nella stessa direzione.

Hotsuma sbuffa, lasciando stare le lamentele – capendo che tanto non gli verrà permesso lo stesso di guardare dove cavolo stanno andando – e tace, cogliendo più rumori di quanto non facesse prima. Sono indubbiamente per strada, probabilmente in una via dove c’è anche qualche casa, perché gli pare di avvertire i classici rumori casalinghi che si trovano un po’ dappertutto.

Ad un certo punto sente Shuusei esitare, poi bussare – forse mi ha portato in un negozio?, è l’illuminazione che ha ad un certo punto mentre un’espressione di infantile vittoria gli si dipinge sul volto, per ora invisibile a Shuusei.

Viene guidato nuovamente in avanti, e ad un certo punto rischia di inciampare su uno scalino che non poteva aspettarsi ovviamente. Poi, Shuusei si ferma.

«Hotsuma» gli dice con ancora le mani sui suoi occhi: «prometti di tenere gli occhi chiusi ancora un po’ se tolgo le mani. Voglio mostrarti una cosa.» pronuncia, e anche se Hotsuma parla ormai ogni giorno con l’amico è sicuro di non aver mai sentito quella nota di aspettativa prima d’ora.

Perciò gli viene naturale prometterglielo; dopotutto, si tratta di Shuusei.

Si sente prendere per mano, e tirare appena – evidentemente Shuusei lo precede – e alla fine è sicuro che una porta si sia chiusa alle sue spalle.

«Adesso puoi guardare.» pronuncia Shuusei lasciandogli la mano e Hotsuma, un po’ perplesso, apre gli occhi.

È una stanza come al mondo ce ne sono tante altre probabilmente.

È ampia, spaziosa, bene illuminata da un finestrone le cui tende al momento sono scostate; lateralmente, c’è un divanetto e la mobilia occidentale classica di una sala in cui si fanno accomodare gli ospiti – ma è un po’ più grande di quella di casa sua, Hotsuma su quello non ha dubbi.

Ma non è né il divanetto, né il tavolino, né la grande finestra ad attirare la sua attenzione. Quello lo fa un pianoforte nero, a coda, lucido. Non ne ha mai visto uno, ed è a bocca aperta e gli occhi si illuminano di genuino entusiasmo.

«Shuusei…» mormora perché è troppo incantato, e troppo sincero per preoccuparsi di non darlo a vedere: «di chi è? Dove siamo?» chiede con curiosità crescente, non riuscendo a spostare lo sguardo sul suo amico nonostante stia parlando con lui.

Shuusei sorride con dolcezza: «Siamo a casa mia.» replica con semplicità, ed è proprio con quella risposta forse quasi scontata che riconquista l’attenzione dell’amico, che scosta gli occhi chiari dallo strumento per portarli su di lui con un’aria a dir poco sorpresa.

«Casa tua? Quindi… quello è…?» lascia in sospeso, incredulo, suscitando di nuovo un ridacchiare leggero in Shuusei.

Hotsuma ogni tanto ci pensa, che sia un po’ strano.

Perché lui non si era mai accorto che Shuusei ridesse così tanto.

 

«Eh?!» esclama stupito Hotsuma mentre cenano insieme, sentendo che è il primo amico di Shuusei ad andare a trovarlo a casa.

Gli pare strano, quasi impossibile, perché da che lo conosce ha visto che va d’accordo con tutti e che i suoi compagni sembrano contare su di lui.

Shuusei si limita a sorridere, e non spiega oltre lasciando che siano i suoi genitori a farlo per lui – Shuusei è troppo timido, ha commentato ad un certo punto sua madre.

Praticamente è rimasto in silenzio fino alla fine del pasto, dopo il quale si sono spostati lì in quella stanza dove sono ora, quella col pianoforte.

Le tende sono tirate, almeno quelle della finestra più grande e le altre comunque accostate, cosicché la luminosità della stanza sarebbe quasi nulla se non ci fosse la luce artificiale accesa; Hotsuma guarda Shuusei incerto, chiedendosi se non ha per caso detto qualcosa che avrebbe dovuto evitare.

Ma l’altro gli sorride come fa sempre e non sembra arrabbiato: «Vuoi suonare qualcosa?» è la domanda con cui lo riporta alla realtà. Hotsuma scuote la testa con un sorrisetto furbo, di quelli da monello forse.

«No, no, non la so suonare quella roba, in educazione musicale faccio schifo.» ammette con tono divertito, con quel suo modo di fare sincero dal quale Shuusei ha capito di essere stato rapito fin dall’inizio.

«Perché non suoni qualcosa tu?» lo sente proporre e spostando lo sguardo su di lui nota l’espressione curiosa che il più giovane ha assunto e non riesce a fare a meno di sorridere e acconsentire.

Si siede sullo sgabello e osserva i tasti bianchi e neri, senza sistemare alcuno spartito sul leggìo: le dita affusolate si alternano sullo strumento con movimenti fluidi, sebbene si tratti di una melodia semplice, non troppo impegnata.

Ha un andamento moderato, ed è di quel tipo di canzone che ti rimane in mente per un sacco di tempo anche quando hai smesso di ascoltarla.

Quello che suona Shuusei non è nulla di particolare, eppure ad Hotsuma in quel momento sembra la melodia più bella del mondo: riempie la stanza completamente, lo circonda, arriva alle orecchie e lo tranquillizza, lo rilassa a tal punto che per lui chiudere gli occhi è istintivo e non si accorge di farlo fino a che non sente la mano di Shuusei posarsi sulla spalla senza che lui la veda.

A quel punto apre di nuovo gli occhi e si ritrova a fissare quelli di Shuusei.

C’è una sfumatura preoccupata, o così gli sembra e lui la riflette in una confusa, la propria.

«Cosa c’è?» domanda verso il più grande.

«Stai bene… vero Hotsuma?» replica l’altro, senza mutare l’espressione.

Hotsuma annuisce, ma nel guardare il sospiro sollevato di Shuusei si chiede perché.

Perché mai uno come Shuusei dovrebbe temere di ferire qualcuno solo suonando il pianoforte.

 

 

Shuusei vive una vita normale: la sua famiglia lo tratta normalmente, i compagni lo trattano normalmente. E poi, ora c’è Hotsuma, il suo primo, vero amico anche se a vederli sono completamente opposti o così vengono percepiti dagli altri.

Hotsuma che non è capace di mentire nemmeno quando vorrebbe.

Hotsuma che sorride in quel modo così genuino da farti pensare che ci sia qualcosa di bello da proteggere.

Hotsuma che ride, e tu lo senti ridere, e ti dici che una piccola porzione di mondo sicuramente gira anche grazie a quello.

Hotsuma che si imbroncia, poi fa una faccia stupita, poi sbuffa annoiato.

Hotsuma che ha un senso della giustizia tale che ha lo stesso coraggio di un adulto misto alla sconsideratezza di un bambino.

Hotsuma che forse ha qualche inimicizia, ma anche molte amicizie; lui che di Shuusei, più di tanto, non ha bisogno.

Shuusei, quando l’altro gli chiede ultimamente se è tutto a posto, sorride con gentilezza e risponde di sì anche se non è la verità.

Shuusei lo guarda dritto negli occhi meno volte di quanto sembri.

Shuusei si vergogna terribilmente, perché lui di Hotsuma ha bisogno, ma non vuole dirglielo e non vuole che l’altro se ne accorga.

Perché Shuusei lo sa.

Hotsuma è troppo buono: se lui pronunciasse le parole “ho bisogno di te”, l’altro si legherebbe a lui senza pensarci due volte, e non vuole.

Perché Shuusei lo sa.

Lui è troppo egoista: poi, non lo lascerebbe più andare.

 

Shuusei…

Shuusei, io sono realmente qui?

 

Shuusei si rigira nel letto per la sesta volta, sebbene più silenziosamente possibile.

Da una posizione supina passa ad una fetale, il viso rivolto alla parete.

Dà le spalle ad Hotsuma, che è in silenzio da quando hanno spento la luce.

Shuusei non riesce a prendere sonno. Ripensa al fatto che poche ore prima hanno suonato alla porta di casa sua, e aprendo si è ritrovato di fronte un Hotsuma fradicio a causa del tragitto fatto a piedi sotto la pioggia.

I capelli erano bagnati, e così il viso, e i vestiti, eppure Shuusei guardando Hotsuma non ha pensato nemmeno per un attimo che anche gli occhi fossero umidi per la pioggia.

Senza un perché, visto che lo sa quanto Hotsuma sia orgoglioso – sono ormai quasi due anni che si conoscono dopotutto.

Hotsuma si è mosso in avanti, e ha appoggiato la fronte alla sua spalla: la voce stava tremando, il corpo stava tremando, e Shuusei lo ha abbracciato goffamente e non ha saputo rispondere sinceramente nemmeno a quell’unica domanda – se Hotsuma fosse “realmente lì”.

Si è limitato ad un banale: «Sì.» mentre stringeva appena l’abbraccio per enfatizzare delle parole deboli.

Gli ha permesso di restare senza nemmeno bisogno di pensarci quando Hotsuma ha lasciato intendere di non voler tornare a casa, ed ha rispettato il silenzio che si era creato subito dopo che l’altro si era cambiato con degli abiti di Shuusei.

Quello stesso silenzio che hanno interrotto solo per dirsi: «Forse è il caso che dormiamo.» e «Va bene.» e che poi è tornato a riempire la stanza insieme al buio.

Il respiro di Hotsuma è regolare – lo sta ascoltando da una buona mezz’ora – e se in parte lo tranquillizza, dall’altra è un rumore che lo tiene sveglio, lo sguardo puntato al muro verso il quale è voltato.

È arrabbiato; perché Hotsuma aveva bisogno di lui, in quel momento, e lui invece—

«Shuusei… sei sveglio?»

Si volta sorpreso, e il suo sguardo mette a fuoco la sagoma di Hotsuma nonostante l’oscurità: «Sì… qualcosa non va?» domanda, più vigile di quanto non fosse già prima.

Hotsuma rimane in silenzio, immobile, indugia.

Shuusei non sa perché, ma ha capito o è convinto di averlo fatto, e allora tenta: scosta le coperte del letto ad una piazza e mezza, e si fa appena di lato.

«Per terra fa freddo, non mi piace l’idea che ci dorma un ospite, anche se con il futon.» pronuncia, ma lo sanno entrambi che è una bugia, una scusa. Shuusei lo sa, che Hotsuma non voleva chiedere, ma che non riusciva a dormire.

E dopotutto a Shuusei non pesa mostrare di essere lui ad avere la necessità di sentire l’altro vicino. Non gli pesa, perché non deve fingere affatto.

Anche se questo Hotsuma non lo sa.

Lo sente salire sul letto, sistemarsi sotto le coperte e tirarle su in modo che coprano entrambi; il più grande stavolta dà le spalle al muro, sul fianco opposto a quello sul quale poggiava poco prima, e il viso rivolto verso Hotsuma.

«Scusa.» lo sente bofonchiare senza preavviso rompendo quel silenzio che, da quando si è sistemato accanto a lui nel letto, Shuusei trova meno pesante in un certo senso.

«Non devi scusarti.» gli risponde semplicemente: «Va… un po’ meglio?» azzarda quindi, ma la risposta non arriva subito e in quella pausa Shuusei si morde leggermente il labbro inferiore.

Forse non avrebbe dovuto chiedere.

Forse…

«Non hai paura, Shuusei?» lo sente domandare.

«Di cosa?»

«Di me.»

Lo spiazza completamente quella domanda – o è una risposta in realtà?

Shuusei sa di non avere affatto paura di Hotsuma, tutt’altro.

E sa che l’altro ha bisogno di sentirselo dire.

Solo… Shuusei è terrorizzato. Non sa se dalla velocità con cui si è affezionato, o se dalla facilità con la quale Hotsuma si è guadagnato la sua fiducia e lo ha affiancato senza che lui quasi se ne accorgesse.

Probabilmente tutte e due.

Magari nessuna delle due.

Sicuramente, la fragilità di quel momento lo spaventa: lui può ferire.

Sa che può, lo sa come non ne è a conoscenza nessun altro, come nessun altro può immaginare.

Shuusei si vergogna, di ammettere che ha paura.

Ma non di Hotsuma.

«No, non di te.» mormora: «Di me.»

È poco più di un sussurro, ma l’ha detto.

È la prima volta che lo fa, ed è una sensazione strana: vorrebbe scappare, ma gli sembra di stare meglio. Anche se solo un po’.

«…Hotsuma, che fai?» mormora perplesso, sentendo il viso del più giovane affondare da qualche parte vicino al proprio collo, i capelli che gli fanno appena il solletico e le braccia che gli cingono infantilmente la vita.

«Io non ho paura di te, Shuusei.» pronuncia soltanto, e Shuusei ricambia quel suo gesto, e nessuno dei due dice più nulla. Ma, mentalmente, Shuusei se lo ripromette.

Quando avrà un po’ più di coraggio, risponderà sinceramente quello che poche ore prima gli ha taciuto.

Certo che sei qui. Se così non fosse, probabilmente io non ci sarei già più.

 

 

La chiamano “Voce di Dio”,

ma non è altro che un mostro!

 

Shuusei si ricorda ancora di quando, anni prima, ha detto per la prima volta ad Hotsuma quella verità che non aveva mai rivelato a nessuno.

La felicità in casa sua era fittizia.

L’armonia in casa sua, non era vera.

Il sorriso di sua madre, non era vero.

Lo sguardo orgoglioso di suo padre, non era vero.

Hotsuma aveva obiettato: si conoscevano da abbastanza, ed era stato spesso a casa sua, e poteva assicurargli che era tutto reale.

Perché lui sapeva com’era quando dietro un gesto d’affetto c’era solo la volontà di non innervosire tuo figlio per paura che potesse farti del male.

Mi hai frainteso., aveva detto Shuusei, seduto sull’altalena di fianco a lui, guardando avanti a sé come la volta delle patate dolci.

Per loro è tutto autentico. È per me, che è fittizio., aveva chiarito, ma non davvero, almeno finché non era stato sincero al punto tale che nemmeno Hotsuma avrebbe potuto non capire.

Shuusei non aveva mai parlato tanto, e lo stesso quella volta in cui era sembrato come se avesse fretta di finire e poter tornare in silenzio.

«Vedo cose che gli altri non vedono.» aveva pronunciato: «Non parlo delle cose dei film. Dei fantasmi, o degli alieni.» aveva chiarito.

«Vedo oggetti. Vedo persone. Ma le vedo… lontane dalla realtà.»

Hotsuma lo trovava strano, forse all’inizio per un solo istante era stato quasi incredulo. Ma poi si era detto che in fondo, se lui poteva maledire con la propria voce e scatenare fiamme terribili come quelle di quella volta, perché avrebbe dovuto reputare strano che Shuusei vedesse cose particolari?

«Vedi… anche altro? Il futuro, per esempio.» aveva chiesto, cercando di metterlo a suo agio forse, a modo suo.

«No.» aveva risposto quasi frettolosamente, stringendo la presa sulle catene dell’altalena, indurendo lo sguardo puntato per terra.

«Non voglio guardarlo. Non voglio nemmeno vedere il passato, o le cose e le persone. Non le voglio vedere. Se le guardo… forse potrei fare qualcosa di sbagliato.» aveva mormorato.

Hotsuma si era voltato ad osservarlo, interrompendo quella specie di usanza che avevano di guardare davanti e mai l’altro quando parlavano in quel posto.

«Qualcosa di sbagliato?» gli aveva fatto eco, confuso.

Dal suo punto di vista, dubitava seriamente che Shuusei potesse fare qualcosa di male, specie limitandosi ad osservare qualcosa.

«Qualcosa di sbagliato come?»

«Non lo so!» aveva esclamato – Shuusei, che aveva sempre il tono calmo, e conciliante, come la più ideale delle ancore di salvezza che qualcuno potesse desiderare.

«So soltanto che… continuano a vorticarmi in testa! Appaiono senza preavviso, mentre guardo qualcuno, o qualcosa… non voglio spiare il passato degli altri. Se questa cosa diventasse più forte… lo scoprirebbero. Tutti quanti. E le cose come questa…» aveva indugiato, perché Hotsuma capiva.

Poteva capire fin troppo bene.

Cose come quella non le accoglievi con un sorriso.

Cose come quella distruggevano persino il legame di un genitore verso suo figlio, che avrebbe dovuto essere il più forte e profondo tra le persone.

Shuusei era cosciente non solo di quello, ma anche del fatto che guardare il futuro – sempre ammesso che fosse una delle cose per lui possibili – avrebbe significato molte più cose di quanto potesse sembrare.

La tentazione di mettere le cose a posto prima che accadessero.

La possibilità di peggiorarle per cercare di cambiarle.

La probabilità di vedere qualcosa di spaventoso.

Di essere spaventoso.

Di vedere sua madre che si disfaceva di suo figlio come accadeva a quelli come lui.

Di vedere Hotsuma andare via.

Di vedere Hotsuma… morire.

E non poterlo impedire.

 

 

Corre.

Non è da lui, ma corre.

Lo sapeva che non avrebbe dovuto allontanarsi.

Che non doveva lasciarlo solo – lo sapeva.

Avverte il panico: è spiazzante, perché non l’ha mai provato, mai a quel modo, mai tanto da bastare a paralizzarlo sul posto. Ma deve correre.

Hotsuma era lì, su quella panchina, pallido e con l’espressione terribilmente simile a quando da bambini si era presentato fuori da casa sua sotto la pioggia.

Gli aveva detto di aspettare, che sarebbe tornato subito.

Poi era tornato, ed Hotsuma non c’era – seduto alla panchina, in piedi lì nei pressi, né in un punto visibile del parco da lì.

Shuusei ha conosciuto il terrore.

Il terrore che quel futuro senza Hotsuma che aveva temuto sempre in un angolo della propria mente si stesse avverando.

Una paura che si confermò quando cercò non come essere umano, ma come Guardiano.

Nello specchio d’acqua di una fontana… l’offuscata ed imprecisa visione delle fiamme.

 

Corre.

Deve arrivarci. Deve. Deve. Deve.

Ci arriva, e lo vede.

Shuusei non ha mai temuto le fiamme di Hotsuma, ma in quel momento sì.

Le odia.

 

Sono entrambi a terra, il fiatone l’uno, un labbro stretto tra i denti l’altro.

Shuusei stringe gli occhi, un po’ per le fiamme che si sono spente, un po’ – tanto – per il dolore che non vuole mostrare ad Hotsuma.

Lo sta già guardando terrorizzato, lo ha intravisto, dopo essersi reso conto di averlo quasi ucciso.

Di aver quasi ucciso entrambi.

«Shuusei…» mormora, portando appena una mano in avanti per sfiorare i punti che sono palesemente feriti.

Lo guarda, e vede sul suo viso il terrore di un bambino che avrebbe solo voluto essere come tutti gli altri.

Lo guarda, e vede ciò che Hotsuma sta pensando. Lo vede, ma non perché ha il dono dell’Occhio di Dio.

Semplicemente perché… si tratta di Hotsuma.

«Chiamo… chiamo…» boccheggia il biondo, ma Shuusei indurisce lo sguardo.

Shuusei, che gli ha sempre rivolto il sorriso di cui aveva bisogno, lo guarda quasi con… astio?

 

Un rumore.

Hotsuma non sa cosa sia.

Probabilmente non è nulla.

Forse è solo dolore.

 

Fissa un punto imprecisato, il viso voltato lateralmente.

Lo schiaffo di Shuusei brucia un po’.

«Ti avevo detto di aspettarmi! Avevo detto che sarei tornato subito!» lo sente alzare la voce, la voce che ad Hotsuma è sempre piaciuta, è sempre parsa dolce come la ninna nanna di una mamma al bambino che ama, quella che lui di sua madre non ricordava.

Non lo guarda. Non ne ha il coraggio.

«Credevi che fosse la soluzione? Pensi che morire sia la soluzione?!» sembra urlare sempre di più, e Hotsuma si chiede se, voltandosi, non potrebbe addirittura scoprire che quello non è Shuusei.

Non sarebbe strano, perché una voce che trema a quel modo lui sull’amico non l’ha mai sentita.

Shuusei è sempre calmo, e posato, e sa cosa fare – nel suo ideale di bambino Shuusei non ha paura, se non di se stesso, ma ormai è superata giusto?

Perché Shuusei ora controlla il suo potere, sa che non può far male a nessuno.

Allora perché?

«Guardami!» lo richiama, e non c’è un modo in cui Hotsuma potrebbe mai ignorare la voce di Shuusei.

Alza lo sguardo su di lui e sgrana appena gli occhi.

Shuusei afferra il bavero della camicia di Hotsuma e i loro visi sono vicini, e se il biondo aveva un dubbio ora è completamente sparito.

Shuusei ha l’espressione di qualcuno che non piange solo perché la rabbia e la paura glielo impediscono.

«Se stai cercando di allontanarti da me… dimmelo. Dimmelo, ma non cercare mai più… di ucciderti.» era partito per sbraitare, forse, ma non è da lui.

Correre non è da lui.

Avere paura non è da lui.

Tenerci così tanto, non è da lui.

Eppure non ce la fa.

«Se è esagerato, o assurdo, o stupido… non mi importa. Tu sei il mio partner e in ogni caso, morire è ancora più stupido, quindi…» indugia.

Tace. Guarda a terra.

Respira – gemito di dolore, ma leggero, lo trattiene.

«Hotsuma» mormora, e per un attimo è lui il bambino sperduto sotto la pioggia e fuori da una porta che spera si apra: «non andare via.» sussurra.

È una richiesta che forse l’altro non ha sentito.

Ma la mano che prende con due dita il bordo della sua maglia mentre la voce pronuncia “andiamo all’ospedale, Shuusei” è una risposta sufficiente.

 

 

Shuusei guarda fuori dalla finestra, steso sul letto.

Le cicatrici rimarranno, ha detto il medico, ma è vivo, e Hotsuma è vivo, e per adesso va bene così.

Hotsuma arriverà fra poco, perché viene tutti i giorni, alla stessa ora – anche quando non entra, le infermiere gli hanno fatto la spia a fin di bene.

Shuusei guarda fuori, e sospira.

Lo sapeva.

 

Hotsuma, non andare via.

 

Lo ha legato a sé.

Egoista.

   
 
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Uraboku / Vai alla pagina dell'autore: Shichan