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Autore: carlo90    17/10/2005    4 recensioni
°Oo Una Fanfiction che parla di Aragorn ed Arwen dopo la distruzione dell'anello del potere. Il loro governo e le loro storie. E' un seguito del film, non del libro. Scritta interamente e solamente da me. Cambierò il rating avanzando con i capitoli. oO°
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aragorn, Arwen, Faramir
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 3: Malinconie di una regina



La candida luce dell’alba cominciava ad entrare attraverso le alte finestre. La stanza da letto reale era colma di un ottimo profumo, mentre entrambi dormivano. Arwen arricciò il naso, mentre cominciava a svegliarsi. Mantenendo costantemente gli occhi chiusi passò una mano sul viso di Aragorn, accarezzandolo con dolcezza. Poi tirò le coperte verso di lei e ridacchiò al lamento nel sonno di Aragorn. Voleva ancora assorbire quel tepore che ancora per poco poteva avere.
Si stiracchiò come un gatto, con i pugni serrati, e sbadigliando silenziosamente, mentre sfiorava una delle colonne del letto a baldacchino. Le lievi tende che contornavano il letto oscillarono a una piccola folata di vento. Nella camera giaceva un profumo di frutta. Fu allora che Arwen aprì gli occhi. Davanti al letto stava un piccolo tavolino di legno scuro, e sopra di questo una ciotola piena di pesche e albicocche. La regina si alzò lentamente dal letto, lasciando ondulare il bianco vestito.

Poi si chinò, prendendo in mano una piccola albicocca, e lasciandosi tentare dalla fame. Poi un brivido la scosse, e lasciò ricadere l’albicocca nella scodella. Si voltò velocemente, aprendo l’armadio ed estraendo una coperta estiva, che stava accuratamente piegata in basso. Se la sistemò sulle spalle e si guardò allo specchio: era così buffa!

Lasciò scivolare la coperta a terra e si avvicinò per dare un bacio ad Aragorn, che sorrideva nel sonno. Poi uscì velocemente lungo la sala del trono, fiancheggiata dalle statue dei vecchi re. Ai fianchi dell’enorme portone stavano, immobili, due guardie della cittadella. Arwen fece segno loro di aprire il portone: immediatamente si voltarono ed attrassero i due pezzi di portale verso l’interno della stanza. Un fascio di luce colpì la regina, allargandosi sempre più, fino ad illuminare l’intera stanza. Un enorme polverone si agitò quando le porte sbatterono in fondo ai cardini. Arwen avanzò impassibile in mezzo a quella nube di polvere, mentre il sole sorgente la illuminava lievemente, e le montagne spezzavano il suo fondo, in tanti piccoli pezzi. Così avanzò verso l’albero bianco, salutandolo in elfico, e chinando il capo, alla sua maestosità.

E una lacrima scivolò sul suo viso, mentre pensava a Granburrone, e a tutti i suoi boschi, che le mancavano, in quella pianura sterminata e morta. Per la prima volta provò odio nei confronti di quella città. Passò una mano sulla ruvida corteccia dell’albero bianco, piangendo.

Una guardia della cittadella si avvicinò con passo fugace alla regina, ma quella aveva il volto rigato dalle lacrime e corse verso la punta della fortezza, coprendosi il viso con le mani. Arrivata in cima alla punta rocciosa, si fermò sostenendosi con le mani appoggiate al bianco muro in pietra. Da lì poteva osservare tutto: i campi del Pelennor, con tutte le sue strade, anguste e diritte, che dividevano ordinatamente il campo, con la sua erba ingiallita, che cresceva sino a ricoprire le ossa degli ulifanti e delle altre creature decedute in quel luogo. Quei campi erano stati macchia dell’esercito di Mordor, proveniente da Est. Ed era lì che stava guardando Arwen: il sole nascente si era eretto sopra le alte montagne di Mordor, dalle quali proveniva una leggera brezza fredda che sfiorava il viso della regina e faceva agitare il suo vestito.

E a tutti quei tormenti si aggiungeva il sogno della notte precedente, dove suo padre l’aveva avvertita, era necessario mandare l’esercito a Rohan. E doveva farlo. Ma per quale motivo? Non lo sapeva.

“Padre…” sussurrò al vento, ed egli rispose con una folata gelida sul viso.

Arwen non aveva più notizie di nessuno, lei non avrebbe dovuto stare in quel luogo, in quella città, aveva bisogno di tornare nei suoi boschi, nella natura, a Granburrone, insieme a suo padre. Ma lei amava Aragorn, lo desiderava con tutto il cuore e avrebbe sopportato anche ciò per poter stare insieme a lui.

“Dama Arwen…” una voce dietro di lei interruppe i suoi pensieri.

“Che cosa volete?” chiese la regina, non riconoscendo la voce, e senza voltarsi.

“Vi volevo consigliare di rientrare, siete vestita leggera e dovreste prendere qualcosa di caldo.”

“A voi non deve importare come sono vestita, e non voglio nessuna colazione.” Disse, voltandosi di scatto e mantenendo la calma.

Davanti a lei stava un soldato armato, portando una lancia nella mano destra, e uno scudo nero col simbolo di Minas Tirith nell’altra.

“Perdonate la mia indiscrezione sua maestà…” disse, chinando il capo e voltandosi verso il portone.

Egli fece segno alle guardie di entrare nella sala del trono per poter lasciare la regina sola.

Così Arwen poté tornare ai suoi pensieri, senza essere nuovamente turbata da quegli uomini così diversi da lei.

Ad un certo punto, nell’aria si udì il suono di un corno. Lei non conosceva i suoni diversi e non avrebbe saputo dire a quale popolo appartenesse.

Il corno suonò di nuovo. Arwen si concentrò sul suono: era un tono rimbombante e rauco.

Esso suonò una terza volta.

L’elfa aguzzò la vista per poter vedere chi fosse a suonare il corno.

E, voltatasi verso sinistra, vide un cavaliere in cima alla collina. Ormai il sole era alto ed ella vedeva solamente l’ombra dell’uomo a cavallo.

“Rohan..” sospirò.

La regina si voltò di scatto e cominciò a correre, mentre l’aria le appuntiva il viso e il vestito svolazzava dietro di lei.

Scese le scale della cittadella saltando dei gradini, e reggendosi il lungo vestito per non incespicare.

Una volta scese le scale percorse un lungo corridoio delimitato da un muretto reggente delle colonne. Esse formavano delle ombre regolari, come se volessero fermare Arwen.

“Faramir!!” urlò la regina giunta in un cortile in pietra.

Si guardò un attimo intorno ma non vide nessuno.

“Faramir!!” gridò per una seconda volta.

Riprese a correre in una via stretta, dove non sarebbe riuscito a passare un cavallo.

Giunse ad una casa con dei gradini sul fianco, contornati da un muro reggente. Li salì in fretta, battendo forte su una porta in legno.

“Aprite!!” urlò mentre batteva forte i pugni.

Dopo poco tempo una giovane donna aprì la porta con viso sconvolto.

“Sia lodato il cielo!” disse Arwen “dove posso trovare il capitano Faramir?”

“Mia signora, qualche casa più avanti, sull’angolo, c’è un balconcino sopra la porta.”

“Grazie signora, non saprò mai come ringraziarla.”

E riprese a correre giù per le scale con passi fugaci.

Una volta svoltato l’angolo vide una porta in legno e sopra di questa stava un balconcino ornato di fiori dai colori vivaci. Essi emanavano un profumo fragrante. Arwen batté sul legno rugoso e irregolare della porta, sperando vivamente che aprisse qualcuno.

“Chi è?” chiese una voce maschile dietro alla porta.

“Vi prego devo parlare con Faramir!” esclamò Arwen, mentre un uomo apriva la porta con calma.

“Il signor Faramir sta dormendo e francamente, non vuol essere disturbato.” Disse con chiarezza l’uomo dal viso pallido e ossuto, con il volto serio.

Arwen sbuffò e fece per entrare, quando l’uomo la fermò, mettendosi davanti alla porta.

“Ho detto che non vuole essere disturbato.” Disse, con espressione corrucciata.

Arwen non esitò, la rabbia che stava dentro di lei la indusse a mettere tutta la forza che aveva nel braccio e tirò un pugno dritto in faccia all’uomo. Questo fece qualche passo indietro tastandosi il viso con le mani, mentre dal naso aquilino scendeva rapidamente del sangue.

Arwen entrò nell’ingresso, ammobiliato con credenze costose e quadri del padre di Faramir, Denethor. L’uomo si voltò e sparì dietro ad una porta sulla destra.

Sul muro centrale stava una vecchia porta appuntita. Arwen si avvicinò, impugnando la maniglia arrugginita. Aprendola lentamente sbirciò all’interno e vide delle scale a chiocciola.

Le salì rapidamente e giunse in quella che doveva essere una soffitta, l’odore acre e stagnante regnava in mezzo ad una catasta di mobili e oggetti curiosi. Sul lato est stava una finestra, fuoriuscente dal tetto. E il sole lasciava entrare una candida luce che rinvigoriva quel luogo.

In un angolo della stanza stava l’armatura di Faramir, tralasciata in quell’angolo, quasi dimenticata.

Arwen si avvicinò a quell’armatura, chinandosi e soffiando via la polvere, mentre si sistemava i capelli mori dietro alle orecchie a punta. Una piccola nebbiolina polverosa si agitò nell’aria.

“Arwen…” sussurrò una voce dietro di lei.

L’elfa si girò di scatto, spaventata, da quella voce che irrompeva il silenzio. Chi era a conoscere il suo nome?

“Faramir!” esclamò Arwen alzandosi e camminandogli incontro. “Grazie al cielo! Qualcuno ha suonato un corno! Ha suonato tre volte!”

Il capitano di Gondor la zittì con un segno della mano.

“Tornatene da dove sei venuta. Nessuno ti ha autorizzato a rovistare tra le mie cose.”

“Ma Faramir! C’era un cavallo! Di Rohan… o almeno credo… e comunque ha suonato il corno per tre volte di seguito! Tu sai che cosa significa!”

“Guerra…” rispose Faramir distratto.

“Faramir vieni!” l’incitò Arwen prendendolo per un braccio e provando a trascinarlo giù per le scale.

“Arwen…” disse lui guardandola con tono severo.

“Cosa c’è? Non mi credi?”

“Hai detto una cosa assurda! Chi mai potrebbe dichiararci guerra in questo momento?”

“I cavalieri di Rohan! Eomer! Mio padre me ne ha parlato in un sogno!”

“Arwen… i sogni sono cose immaginarie, non combaciano con la realtà…”

“Faramir… vieni a vedere!”

“D’accordo…” disse sbuffando.

Purtroppo al loro ritorno sulla cittadella non v’era nulla di ciò che Arwen aveva raccontato.

Faramir domandò a qualche guardia della cittadella se avesse udito o veduto qualcosa.

Ma nessuno aveva visto ciò che Arwen affermava.

Quella sera a cena nella sala del trono parteciparono Aragorn, Arwen, Faramir e alcuni uomini dell’alta società. Le portate erano molto sostanziose e Arwen ne fu felice, ricordando quanto poco avesse mangiato la sera precedente. E questo rese i piatti ancor più gustosi.

Dopo la cena gli uomini rimasero a discutere su un fatto che Arwen non capì molto, ma comprese che non era niente male osservando il viso sorridente di suo marito.

Ad un certo punto Arwen si alzò salutando tutti e finse di andare nella propria stanza. Camminando per il corridoio semibuio cercò con lo sguardo una finestra abbastanza spessa e ne trovò una dalla quale uscì. Camminando su un tetto in pietra con un po’ di difficoltà riuscì a raggiungere il cortile dell’albero bianco. Scavalcato il muretto, si avvicinò al tronco e si sedette sull’erba curata a meditare.

Faceva molto freddo e il vento gelido la feriva.

Dopo poco tempo, il portone si aprì di scatto e si richiuse con altrettanta velocità.

“Arwen? Cosa fai qui?” chiese la voce di Faramir alle sue spalle.

“Penso.”

“Rientra Arwen che fa freddo.”

“Si… va bene…” disse sbuffando e, salutando Faramir, entrò nella sala.

Per fortuna Aragorn non fece molte domande sul perché fosse uscita, vedendola malinconica.

Quando tutti uscirono, Aragorn accompagnò sua moglie in camera, dove aveva fatto mettere molte candele luminose ed emananti quel gradevole odore di cera.

Arwen si voltò verso Aragorn sorridendo, e dal modo in cui suo marito chiuse la porta, capì che quella sarebbe stata una notte indimenticabile.
  
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