Respiro
Era lì. Disteso. Morto.
Appena usciti dalla
macchina una folla di persone ci stava aspettando con visi cerei e lo sguardo
fisso, chi parlava a bassa voce e chi semplicemente ostruiva il passaggio.
Cercavamo di passare a stento facendoci largo tra la marea di gente che si era
riunita per quella occasione. Quanto la odiavo, quella gente che in parte non
avevo mai visto, quella stessa gente che di lì a tre giorni non avrei mai più
incontrato. Mi mette agitazione. Alla vista di quel corpo pallido e calmo mi sfugge
un singhiozzo forte e qualcuno mi abbraccia, ma non riesco a calmarmi, la gente
mi agita, quasi non riesco a trattenere un attacco di panico. Vorrei urlarle
contro di andarsene, di lasciarci in pace tanto era presente solo per fare
figura e nient’altro. Mia zia è sdraiata sul letto e guarda assente mio nonno
disteso sul letto, sembra che dorma. La nonna non si vede, pare indaffarata
come sempre. Meglio così. Mi siedo su una di quelle sedie poste di fronte al
cadavere, davanti ad una tenda rossa che si mostra come quella di un teatro e
noi siamo tutti seduti a compiangere il morto come gli spettatori nella scena
finale di Romeo & Giulietta. Ma la gente non si può mandar via, no, è vergogna. E soprattutto, è la tradizione. Odioso. Una signora mi vede in quello stato
pietoso e mi abbraccia, mi dice va tutto bene, cerca di consolarmi, poi arriva
il marito e se la porta via. Alzo lo sguardo nella sua direzione. Penso che
doveva essere una persona importante e vicina alla mia famiglia per conoscermi,
anche se non l’avevo mai vista. Vorrei chiedere a mia mamma chi sia ma quando
la vedo apparire dalla cucina, so che non è proprio il caso. Solo dopo il
funerale glielo chiederò… Gironzolo per la casa senza un pensiero importante in
testa, per fortuna non mi riconosce quasi nessuno e salutano tutti la mia
futura zia. E’ proprio una fortuna passare inosservati. Adesso c’è meno gente
del solito, mi avvicino a quello che era mio nonno, vorrei dirgli che gli ho
sempre voluto bene, che mi dispiaceva di non essergli stata vicina quando aveva
bisogno, di essere sempre sembrata così fredda nei suoi confronti, di non
avergli parlato abbastanza. Ma la voce non esce. Mi vergogno, non voglio fare
una tragedia teatrale davanti a tutti, quella era una cosa tra lui e me. Voglio
passare inosservata come sempre. Così gli dico solo “ti ho sempre voluto bene”
in un sussurro in modo che nessuno possa sentirmi, solo la sua anima. Avrei
voluto stare al suo fianco da sola, dire qualcosa a quel corpo così freddo,
sapendo benissimo che lui non era più lì. Avrei voluto aspettare la notte per
stare da sola, ma ero stanca, avevo bisogno di dormire dopo quel viaggio
massacrante e tanto da sola non ci sarei potuta stare visto che la gente non se
n’era andata fino a notte fatta o non se n’era andata proprio. Non mangio.
Quando ritorno a contemplarlo la gente sembra persino raddoppiata. Gli do
l’estremo saluto mentre portano via il corpo, vorrei rincorrerlo per ribadirgli
quello che volevo dirgli da sempre, vorrei urlare a tutte quelle persone che sono
delle ipocrite, che sono qui solo a fare figura, che ci dovrebbero lasciare in
pace…”ANDATE VIAAAAAAAA!”
Urlo. Gli occhi sono
appannati. Respiro.
“Linea 55. Direzione
Vanchiglia. Corso Farini.” Una voce meccanica?
“Prossima fermata Via
Cernaia. Corso Galileo Ferraris. La Cittadella.”
Cavolo, la mia fermata!
Raccatto in fretta lo zaino per terra e mi faccio largo a spintoni per
raggiungere almeno le porte. Esco. Respiro l’aria fresca dell’inverno. Per la
prima volta guardo l’orologio. Le 8 in punto. Come al solito sono in abbondante
ritardo. E solo mentre mi incammino in fretta e furia verso piazza Arbarello,
mi accorgo di avere il volto rigato di lacrime.