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Autore: Feel Good Inc    29/08/2010    6 recensioni
1987. Tatiana Yvonne Thumbtzen, ventisette anni, sostiene il provino per un videoclip che le cambierà la vita.
«Tu probabilmente non te ne sei accorta, ragazza coi tacchi alti, ma in ogni sacrosanto momento della giornata, sul set e al di fuori, Michael Jackson non fa che parlare di te.»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Michael Jackson, Tatiana Thumbtzen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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7

 

Believe in miracles

 

 

 

 

 

~ Why did you have to go and leave my world so cold?

 

 

 

«Ma che sta succedendo?»

«Non può essere. Deve trattarsi di un errore…»

«Potete fare silenzio per un attimo?»

Misi a tacere le illazioni senza meta dei presenti – un paio di amiche con i rispettivi mariti e figli venuti a salutarmi in un ozioso lunedì sera – avvicinandomi al televisore ed alzando il volume fin quasi al massimo, senza prendermi il disturbo di andare a cercare il telecomando finito chissà dove. Alle immagini dello schermo, che già da sole mi avevano fatto franare il terreno sotto i piedi, si aggiunsero suoni e parole che mi sprofondarono definitivamente in un posto buio e freddo.

«… E siamo addolorati di dover annunciare che il Re del Pop non ce l’ha fatta. In seguito all’arresto cardiaco avvenuto alle ore 12.20 circa, Michael Joseph Jackson si è spento intorno alle sedici di questo pomeriggio nella sua villa a Holmby Hills, Los Angeles, lasciando dietro di sé un mondo intero in lacrime e centinaia di milioni di fan in preda all’incredulità e alla disperazione. Il medico personale dell’artista, Conrad Murray, per ora si è rifiutato di rilasciare…»

Di colpo non sentii più niente. Né le parole dello speaker in sottofondo al filmato dell’ambulanza ripresa dall’alto di un indifferente elicottero, né le esclamazioni di sorpresa e sconcerto di quelle persone che erano con me e che all’improvviso mi sembravano estranee, né le lacrime ed i singhiozzi di una di quei bambini – che in qualche modo erano l’unico eco di ciò che avevo dentro io.

Mi lasciai cadere a sedere sulla poltrona dietro di me, perché non c’era più nulla – non poteva esserci più nulla – a sostenermi.

Nell’abisso in cui mi trovavo fluttuava un solo pallido pensiero.

Erano passati vent’anni dall’ultima volta che lo avevo visto.

Erano passati vent’anni e per me non era cambiato niente.

Erano passati vent’anni, e adesso il tempo non sarebbe passato più.

 

 

Dopo quel giorno, vivere era diventato una fredda, vuota faccenda fatta di camminare, respirare, mangiare, dormire. E questo non sempre riuscii a farlo, nelle prime notti seguenti a quella maledetta notizia data al mondo dalla CNN. Continuavo a giacere immobile nel buio – quello dentro di me e quello della stanza in cui avevo sempre dormito sola, senza desiderare una compagnia che non sarebbe mai stata quella giusta, perché non sarebbe stato lui; a cercare di capire perché il mio cuore continuasse a battere, perché non si fosse fermato, rifiutato di andare avanti. E a piangere, soprattutto.

Avevo quarantanove anni, eppure avevo ancora delle lacrime da piangere.

Mi telefonarono in molti, mi chiesero se avessi sentito. Certo che avevo sentito. Mi dissero che per me doveva essere davvero doloroso. Certo che era doloroso. Mi parlarono per ore nelle orecchie e nessuno di loro riuscì anche solo minimamente a tirarmi fuori dal baratro, a mostrarmi di nuovo uno spiraglio di luce, a ricordarmi come si respirava e come si viveva.

Il giorno in cui mi telefonò Craig, per la prima volta mi permisi di piangere anche al telefono.

 

 

Non c’è bisogno che parli dello Staples Center. L’America ed il mondo intero hanno visto quella bara coperta di fiori rossi come il sangue, hanno visto le migliaia di persone raccoltesi insieme a ricordare con affetto e dolore infiniti un uomo che aveva rappresentato e che rappresenterà sempre l’icona per eccellenza della musica; hanno visto le lacrime di Paris Jackson e hanno sentito le sue parole tanto disperate da strappare letteralmente il cuore.

Non c’è bisogno che ne parli. Non c’è bisogno di evocare quelle immagini, perché sono certa che, così come sono stampate in modo indelebile nella mia mente, infestano anche il ricordo di chiunque abbia conosciuto un minimo di ciò che Michael è stato e sarà per sempre.

Arrivai in quel posto da sola. Seguii il memoriale con l’unico conforto di un paio di occhiali scuri a nascondere il vuoto che mi riempiva gli occhi. Sentii persone che conoscevo solo di nome parlare di lui, cantare di lui, interpretare le sue canzoni e cercare di farsi forza a vicenda nel diffondere ancora una volta quel messaggio universale che è la sua musica. Tutto mi sembrava irrimediabilmente lontano, alieno – e in uno sprazzo di gelida lucidità mi dissi che c’erano così tante cose che non avevo saputo di lui, che non gli avevo mai chiesto: non sapevo come fosse stato vivere a Neverland, non sapevo quali favole raccontasse ai suoi bambini per farli addormentare; non sapevo se a qualcuna di quelle persone avesse mai parlato un po’ di me, e non avrei mai saputo se quella Brooke Shields che era scoppiata in lacrime al microfono lo avesse amato almeno la metà di quanto lo amassi io.

Il mio sogno era durato così poco, eppure ancora adesso era in grado di farmi così male.

Poi finì tutto, e io mi alzai, mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con Craig.

Cresciuto, diverso, ma sempre Craig. Perché Craig c’era sempre, anche quando era lontano.

Mi guardò con gli stessi occhi di vent’anni prima, di quando era solo un ragazzo dalla risata facile e dai modi rudi ma generosi; tuttavia adesso in quello sguardo c’era un dolore che non avevo mai visto, che lui non aveva mai mostrato a nessuno.

Allargò le braccia, semplicemente, e con altrettanta semplicità mi tolsi gli occhiali e gli diedi in cambio il mio dolore, cercando l’effimera protezione del suo petto.

Mi lasciò piangere ancora una volta, e solo quando smisi di tremare chinò il viso e mi bisbigliò poche parole all’orecchio.

«Vieni con me. C’è una persona che vuole parlarti.»

 

 

Quando la vidi faccia a faccia, Katherine Jackson stava parlando con Frank DiLeo.

La riconobbi subito. Gli anni avevano scavato altre rughe nella sua pelle scura e i recenti avvenimenti avevano di certo spento la luce che in altri momenti aveva animato il suo sguardo. Era stanca, visibilmente esausta. Disperata. Di una disperazione che andava al di là delle lacrime.

Però mi guardò apertamente negli occhi, e allora mi sembrò bellissima, splendente, forte. Venne verso di me, pronunciò il mio nome e senza un’altra parola mi abbracciò, come aveva fatto Craig. Mi chinai a ricambiare la sua stretta di piccola madre cui la vita aveva strappato un figlio nell’ultimo e più doloroso modo possibile; al di sopra della sua spalla, vidi Frank distogliere lo sguardo in preda all’imbarazzo.

Forse lo odiavo, in quel momento. Ma l’unica cosa che riuscivo a chiedermi era quanto potesse fare male alla signora Jackson abbracciare me con l’inutile illusione di star stringendo a sé una parte di Michael.

 

 

Katherine mi invitò alle esequie private, a Neverland.

Sul momento non avevo intenzione di andare. Neverland non sarebbe più stata Neverland senza Peter Pan; sarebbe appassita, morta, e io non volevo vederla così – non senza averla mai neppure vista come era al suo massimo splendore, quando Peter Pan volava nei suoi cieli con il suo sorriso bambino stampato sulle labbra.

Non ci sarebbe stato modo di cambiare le cose sussurrando ad una lapide Io credo nelle fate. Questo non era un libro né un film; era la realtà – dura, inspiegabile e soprattutto inaccettabile, ma la realtà. Non c’era la possibilità di presentare uno scontrino ed averne in cambio un’altra.

Fu di nuovo Craig a farmi cambiare idea. Mi disse che se Katherine Jackson mi aveva invitata lì, allora qualcuno considerava giusto che io ci fossi, che fossi lì insieme alle persone più importanti della vita di Michael. E mi disse che allora, forse, lui avrebbe voluto la stessa cosa.

Ci andai.

Non voglio raccontare come sia stato lungo, silenzioso, vuoto il tragitto fin lì. Non voglio ricordare quello che lessi nei visi di chi trovai ad aspettarmi. Non voglio neppure pensare a quei bambini distrutti, vestiti di nero, in viso l’espressione di chi è costretto a crescere in fretta di fronte alla nuda e cruda verità: le favole finiscono e il per sempre felici e contenti non è altro che una bugia.

Ma non voglio neanche dire che Neverland fu la parte più dolorosa dell’intera storia, perché non è così.

Sembra assurdo dirlo, e di certo mi sembrava impossibile in quel momento, eppure è a Neverland che mi sono rialzata.

L’impulso mi venne dalla vista dei fan fuori dai cancelli. Gente in lacrime, gente con i cerotti alle dita ed in testa i cappelli di Billie Jean. Gente che urlava il nome di Michael Jackson e lasciava scritte per lui e gridava e cantava e anche se non poteva oltrepassare quei cancelli era lì con noi e con lui, per lui.

Mi servì molto. Mi servì a ricordarmi che lui era stato la dimostrazione vivente che, invece, le favole possono essere una realtà.

Che la favola finisca è poi inevitabile ed inevitabilmente spiazzante. Ma si poteva sognare. Me l’aveva insegnato lui.

Mi aveva insegnato a credere nei sogni e nei miracoli. Era stato il mio sogno e il mio miracolo.

Quel giorno, in un’Isola Che Non C’è vuota del suo Peter Pan, alzai lo sguardo dalla folla più unita che mai – unita dal dolore e dal ricordo e dal rimpianto e da un amore che non sarebbe finito mai; alzai lo sguardo verso il cielo e, per la prima volta da settimane, mi sembrò di saper respirare di nuovo.

 

 

Sono passati due mesi.

Oggi è il ventinove agosto. Oggi Michael Jackson compirebbe cinquantuno anni.

E sarebbe ancora su quel palco, a cantare e a ballare con la stessa energia, lo stesso entusiasmo, la stessa gioia di vivere di vent’anni fa.

La mia storia finisce lì, davanti alla sua tomba a Neverland, con un mare di persone a ricordarmi che forse Michael non aveva cambiato il mondo ma che il primo mattone della strada del cambiamento lo aveva cementato lui. E che il mio mondo, almeno il mio, lo aveva invece stravolto in tutti i sensi possibili.

La mia storia finisce lì perché non può più esserci un dopo.

A volte ci penso ancora. Mi chiedo come sarebbe stato, se non lo avessi lasciato andare via accontentandomi della dolcezza di un ricordo incancellabile. Se avessi continuato a vederlo in tutti questi anni, piuttosto che accontentarmi di sentirlo ad intervalli lunghi e irregolari; se fossi stata al suo fianco per abbracciarlo quando era nei guai, a dimostrargli che gli credevo quando in così tanti gli voltavano le spalle; se fossi stata egoista, e avessi continuato ad amarlo da vicino invece che dall’altra parte del mare. Se avessi deciso di restare per sempre la ragazza coi tacchi alti che gli faceva salire la febbre anche a un miglio di distanza.

Ci penso e mi rispondo che ho fatto la scelta giusta.

Dopotutto, lasciarlo andare non ha fatto male quanto perderlo.

Perché, sì, malgrado tutto, malgrado abbia ripreso a vivere, fa male davvero. E farà male sempre. Per quello che è stato, per quello che avrebbe potuto essere, per quello che non sarà mai più. Perché non l’ho perso solo io: lo hanno perso tutti.

Eppure lui è stato il mio sogno e il mio miracolo, e questo non può non farmi sorridere, almeno un po’.

Ed è così, con un sorriso bagnato di lacrime – lacrime sorelle di quelle versate quella notte in quella stanza d’albergo – che oggi resto distesa immobile nel buio del mio letto, ad ascoltare nel silenzio della mia stanza vuota la sua voce e la sua musica che trascenderanno tutti i tempi.

Proprio come vent’anni fa.

 

I never heard a single word about you

Falling in love wasn’t my plan

I never thought that I would be your lover

Come on, baby, just understand

 

Sono passati due mesi. Oggi Michael Jackson compirebbe cinquantuno anni.

E io sono qui a sperare di sognarlo.

Proprio come vent’anni fa.

 

 

                         

Lui per me rappresentava i miei sogni d’infanzia, la convinzione che tutto è possibile e che tutto può succedere se solo si crede nella magia. Il mio sogno si è avverato, e ho avuto la benedizione e il privilegio di conoscere e di lavorare con il più grande artista del nostro tempo. […] La bambina che è in me e che è cresciuta con Michael è morta con lui. […] L’ho veramente amato e mi mancherà sempre dolorosamente. I momenti che ho passato con lui sono sacri per me e niente e nessuno potrà sminuire questa verità. Il mio cuore è con tutta la sua famiglia, tutto il mio affetto a Katherine e Joe.

 

Tatiana Y. Thumbtzen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per dirla con Tatiana, la mia storia finisce qui.

So che come ultimo capitolo avrebbe potuto e dovuto essere ben più articolato, approfondito, sviluppato. Volete la verità? Non ci sono riuscita. Stavo troppo male mentre lo scrivevo. Avevo anche pensato di riguardarmi alcuni momenti del memoriale allo Staples Center per poterli descrivere dal punto di vista di Tatiana, ma come ho iniziato sono scoppiata in lacrime. Tanto per darvi un’idea.

Non ce la faccio ad affrontare il tema della morte di Michael. È come una cicatrice: dopo che il sangue ha smesso di fluire non ci pensi più, ma basta guardarla e ricordare le circostanze in cui te la sei procurata, ed ecco che senza volerlo ti sembra di sentire lo stesso dolore di allora.

Non ce la faccio a scrivere di meglio, a questo punto. Ecco tutto.

E so che non dovrei pubblicare il capitolo in queste condizioni pietose, che dovrei almeno rivederlo ancora qualche volta – ma è tutto inutile. Spero solo possiate comprendere, e che la mia storia vi sia comunque piaciuta, nonostante il finale incerto e traballante scritto sull’orlo delle lacrime.

Il titolo e l’introduzione del capitolo sono tratti rispettivamente da Black or white e You are not alone, due delle canzoni che preferisco in assoluto di Michael Jackson. I versi alla fine, invece, da This is it. Il brano riportato in corsivo è tratto dal profilo MySpace di Tatiana Thumbtzen.

Ora lo posso finalmente dire: negli ultimissimi giorni ho letto molte cose – articoli che la tacciavano di millanteria, di aver soltanto approfittato di tutta la situazione. Io non so come sia andata davvero, e questa fanfic è essenzialmente un’opera fittizia, in quanto neppure degli eventi che ho dato per reali posso essere sicura fino in fondo; però, se è come la immagino, io Tatiana la capisco. La capisco profondamente, e la ammiro.

Ringrazio profondamente tutti coloro che hanno deciso di leggere questa fic fino alla fine. Tra questi, ringraziamenti particolari a Miss_Rose, Sarephen e S u n r i s e Light per aver recensito lo scorso capitolo, e a 96opal che mi ha scritto una mail cui purtroppo non ho potuto rispondere per problemi di posta elettronica. Voglio dire a tutti voi che mi siete stati di grande aiuto per arrivare fino alla fine, e che spero di avervi procurato almeno un sorriso. Non le lacrime: non è mia intenzione farvi piangere.

May God bless you all.

 

Oggi è il ventinove agosto. Buon compleanno, Michael, ovunque tu sia. <3

 

It’s all for L.O.V.E.

   
 
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