Doverosa premessa: scusate per la pubblicazione in orrido a-html (l'alfa consideratelo privativo) non mi ero accorta che NVU avesse più o meno deliberatamente ignorato i miei comandi ^^
TERZA
PARTE
Nessuno, neanche la pioggia, ha
così
piccole mani.
La sera era
tornata a casa con un
languore di cui non si era liberata. Era tornato a lambirla di notte,
fatto di
immagini e di pensieri. Le tremavano le mani, come se sul suo collo ci
fossero
ancora le labbra di Davide. Lo aveva portato a letto, con
sé, ma non era riuscita
a tenerselo sul cuore o nei pensieri, lo aveva voluto nella carne, lo
aveva
voluto sotto le lenzuola, chino su di lei, lo aveva voluto, voluto e
basta, e
nessuna fantasia riusciva ad appagarla.
Voleva fare
proprie le sue
contraddizioni, stringerle tra le dita, vincerle o perdercisi dentro,
dipanarle, sbaragliarle o esserne travolta.
Lo voleva e
basta, e sapeva che la
volta che lo avesse avuto sarebbe stata per lei un eterno presente,
sarebbe
tornato tale ogni qual volta l’avesse riportata alla mente.
Come se dopo quella
volta, Davide non le avesse mai tolto le mani di dosso.
Partì
per il solito fine settimana al
mare, cercando di trovare pace da quel gorgo di desiderio e di
impazienza.
Pensò
di chiedere a Vittoria di
raggiungerla.
A pieni nudi sul
pavimento infuocato
del terrazzo, compose un altro numero.
“Ti
raggiungo nel pomeriggio” le
disse. La sua voce era bassa, non poteva parlarle, c’erano
delle voci intorno a
lui. L’idea che non la stesse condividendo con altri, con
l’atrio del
Tribunale, con i discorsi dei colleghi, la compiacque.
“Sono
a casa. Ti scrivo dov’è.”
Avrebbe voluto
sentire ancora la sua
voce, ma lo lasciò andare alle durezze della legge.
*
Aurelia in
direzione contraria, in
andare. Questo un senso ce l’aveva? Lasciare il Tribunale,
subito dopo la
sentenza di accertamento. Via la toga, il codice e gli appunti
processuali
sbattuti nel sedile posteriore della macchina.
Via
dei Tulipani come se lei e i
fiori non potessero fare a meno di avere a che fare
l’una con l’altro.
Un parcheggio
entro le strisce, anche
se le manovre erano state secche e impazienti.
Il sole gli
batteva sulle spalle.
Viola abitava
all’ultimo piano, era a
piedi nudi, i capelli legati per il caldo, niente trucco, gli occhi
luminosi,
la casa bianca sgombra di qualsiasi oggettistica ma piena di fogli e di
libri,
un terrazzo grande ad intravedersi dietro il profilo delle sue spalle
esili, il
vestito di cotone bianco, un’accoglienza silenziosa, spazio
rarefatto e troppo
vasto finché fossero stati lontani, pieno di spigoli
invisibili, lei che si
muoveva leggera e fresca, gli aveva tolto la cravatta, lui aveva
pensato al
resto, gesti sicuri e finiti, la camicia e la cintura, compiuti ad ogni
rientro
a casa dopo la mattinata in tribunale o in studio, ma questa volta
c’erano delle
mani ad interrompere i suoi gesti, mani che non aspettavano altro che
avere
campo libero.
*
È
grande e piccolo. Esperto e timido.
Muove le dita dentro di lei e trema forte sollevato sulle braccia e
contro il
suo seno.
La fa impazzire,
sa come farlo, ma
solo se tiene gli occhi chiusi.
Padrone del suo
corpo, ogni volta che
lei gli chiede permesso con la bocca e con le mani, lui dice
sì.
Viola ha dita
fredde che scivolano
sul sudore della sua schiena. Lui ha spalle forti e presenti a cui
cerca di
aggrapparsi. Sprofondato tra le sue gambe la piega senza guardarla
negli occhi,
è con quella stessa lingua che parla alla Corte?
Lo accoglie, lui
si prende spazio.
Spinge e affonda come se sapesse che nel fondo c’è
un senso. Qualcosa da
raccogliere. Da dove è partito, da dove ripartire. Un posto
dove lasciare parte
di sé.
Lei gli respira
nell’orecchio. Tira
contro di sé il peso del suo corpo, è umido,
stanco ma non sfinito.
Fuori
l’aria è immobile, c’è
silenzio, ogni cosa ascolta loro: lei che non sa più
respirare, accoglie l’aria
nella gola volendo bere altro, lui che geme come se fosse un grande
dolore aver
trovato quel piacere.
*
Dopo erano
rimasti lì. Le lenzuola
attorcigliate tra loro nudi, immersi nei loro odori, placati, silenti.
Le dita di Viola
erano già tornate
fredde. Davide steso sullo stomaco nascondeva il suo sé a
riposo, la testa
reclinata, l’orecchio sul cuscino, il respiro dei bambini.
Viola gli aveva
posato le sue dita di
ossa e gelo sulla nuca. Come se avesse dovuto farlo. Non
c’era altrimenti da
fare. Fu colta dallo stesso brivido che lo attraversò lungo
la schiena, fino in
fondo, dove le dediche d’amore non arrivano. Irrefrenabile.
Lei potente e
materna nel disporre in
quel modo del suo corpo. Colma di desiderio e tenerezza fino
all’orlo, fino a
piangerne o a chiuderlo in un abbraccio che li dissolvesse.
Non sapeva se
dormisse.
Guardava il suo
corpo nudo, il sudore
che lento si asciugava sulla sua pelle scura.
Re
Davide
pensava trovando in lui quel miscuglio biblico di sfrontatezza e
potenza, di
mani grandi che sanno fare la guerra e suonare una lira. Quella grande
magnificenza umana, umanamente erodibile. Una cosa e il suo contrario.
Tempesta
e accettazione di tempesta.
Innamorati
di me
pensò. Adesso, quando ti alzi e mi
guardi.
Dito indice
puntato alla sbarra dei
colpevoli, e poi carezzevole sul seno di una donna.
Innamorati
di me, o non avrà senso sentirsi in questo modo.
*
Viola
finì con il trasferirsi in
pianta stabile nella casa al mare. Week end dopo week end portava con
sé un po’
dei suoi libri e articoli da tradurre, e li lasciava lì.
Viveva di
traduzioni, del vento sul
terrazzo, di succo d’arancia e insalate. Vittoria la
raggiungeva nelle pause
dal suo lavoro in palestra, e passavano interi pomeriggi a mollo
nell’acqua. In
rare occasioni Viola parlava di Israele. Quasi sempre di Davide.
Che veniva quasi
tutti i fine
settimana parcheggiando sulla solita strada. Quando pensava a lei, in
studio,
la vedeva sempre con il vestito di cotone bianco. La sua casa non aveva
l’ascensore, abitava all’ultimo piano, i suoi passi
per le scale erano quelli
del desiderio.
“Le
sudate carte[1]?”
gli
chiedeva, curiosa. “In macchina”.
Le piaceva il
pensiero di quei viaggi
verso di lei. Lo immaginava in macchina, con del blues. Aveva deciso
che gli si
addicesse il blues.
Vittoria
iniziò a comparire nei loro
discorsi, in qualche racconto di Viola. Timidamente cercava di
presentargli la
sua vita, e le persone che la popolavano. Davide rispondeva a qualche
telefonata quando era con lei: lo ascoltava parlare la lingua
giuridica,
sbirciando verso di lui in terrazzo. Nel condire l’insalata,
mischiarvi le
olive nere affettare pomodori e carote a strisce sottili versare un
filo d’olio
o spruzzare veloce un po’ di limone, guardava il profilo di
Davide, gli occhi socchiusi
contro il sole, una sigaretta accesa e dimenticata sul posacenere o
stretta
nervosa tra le dita, le labbra sottili che parlavano poco e brevemente,
come se
quello che c’era da dire fosse presto e ben detto.
Si chiedeva che
volti avessero i suoi
clienti, e che storie. E i suoi colleghi. Salvatore e Andrea. Avrebbe
voluto
dare un volto anche a loro, conoscerne la voce, il modo di stare seduti
intorno
ad un tavolo, ciò che volevano nei loro bicchieri. Ma poi
Davide le accarezzava
la schiena con il palmo della mano aperto e caldo, le dita a premerle
sulle
scapole, nascondendo la sua riservatezza in un sorriso vago, e poi si
chinava
su di lei o attendeva che fosse lei a porgergli le labbra, il collo, se
stessa.
Quando faceva
l’amore con lei la
domenica, prima di ripartire, re Davide suonava la lira. Quando suonava
il
campanello, con la cravatta ancora al collo, il venerdì
pomeriggio
nell’arrivare, le sue mani e la sua bocca avevano
l’ardimento di un re
guerriero, l’urgenza del corpo prima dello scontro, del seme
prima del sangue.
Le piaceva in ogni caso. Le piaceva cercarlo la notte, di colpo sveglia
e
risvegliare anche lui.
Rispettava
ciò di cui non voleva
parlare, perché era un amante generoso, tanto quanto geloso
del resto di sé.
Viola percepiva
languire nei nervi
tesi sotto la sua pelle il ruggito di quanto in lui non era stato
domato, il
tormento di quanto era ancora irrisolto. Attendeva il momento in cui
avrebbe
trovato voce. In cui non sarebbe stato amore ma guerra. In cui non
avrebbe
cercato il piacere, ma un violento stordimento di una angoscia o di un
dolore.
Che Davide non avrebbe voluto condividere, eppure—
Eppure gli
avrebbe strappato
risposte, lo avrebbe piegato alla condivisione come lui
l’aveva piegata
all’arrendevolezza intrufolandosi in lei in quel modo che
sapeva lui. Perché
non disponesse di lei, ma condividesse con lei.
Lo aspettava,
quel momento. Con
timore e impazienza. Non sarebbe stato bello, ma vedeva se stessa con
la lira e
con la lancia, di fronte a lui. Sorridente
lacrime[2]
come la gran donna
bambina madre e amante, che era stata Andromaca dalle torri di Ilio,
sotto
l’elmo di Ettore.
A volte in mezzo
alla giornata le
arrivava un suo messaggio. Nella laconicità delle parole non
mancava mai un
accenno di sentimento. L’azzardo ironico,
l’impudenza vagamente narcisistica,
l’eco di un sospiro stanco.
“Andrea
rompe. Lo metto sottovuoto e me ne vado.”
“Sì,
sono proprio lì. Sotto il tuo vestito.”
Poi un
venerdì mattina le scrisse
solo: “Cavilli legali. Arrivo
venerdì
prossimo.”
Nel resto della
settimana non
giunsero altri messaggi. Viola cercò di resistere a quel
silenzio, decidendo di
non chiamarlo, ché quelli erano i suoi spazi e la mancanza
che sentiva di lui,
come una bambina, forse non era un pretesto sufficiente. Ad
eterna memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua,
aveva detto. Scoprì cosa volesse dire essere schiacciati da
una sentenza.
Il
venerdì pomeriggio successivo il
cellulare di Viola si illuminò. “Sabato
sera sono lì.”
Fingere di non
essere delusa né
risentita era una sforzo che non volle sostenere.
Ma quando venne
il sabato, Davide
giunse senza cravatta e scuro in volto. Sotto il braccio stringeva un
fascio di
fogli e cartelle, e le sue labbra erano tese ed ermetiche.
“Problemi
allo studio?” gli chiese,
mettendo in tavola pasta fredda e vino bianco. Lui era seduto con la
schiena
contro la scomoda sedia di plastica del terrazzo, gli occhi chiusi, in
naufragi
solitari.
“Andrea
ci ha impelagato nei suoi
deliri di onnipotenza”.
Avrebbe potuto
aggiungere altro, come
causa invincibile, patto commissorio, società apparente,
liquidazione coatta,
ma lasciò stare, perché era ad un passo dal
perdere una causa importante nel
modo più inaccettabile: secondo giustizia. Il che
presupponeva che fosse nel
torto e che stesse andando contro natura.
“Se lo
dici ad alta voce poi lo
ridimensioni.”
“Davvero?
Anche a Hitler è servito?”
Non voleva
essere tanto tagliente,
sapeva che sarebbe successo. Che non sarebbe dovuto andare da Viola
prima di
aver perso la causa e aver divorato i fascicoli.
Lo guardava
ferita senza essere
sorpresa.
“Se
relativizzassi un po’, ogni
tanto…” .
Di nuovo la
frase sospesa,
incompiuta, mozza.
Era solo stanco,
in fondo.
“L’oggettività
dei fatti a volte
risolve ogni speculazione.”
“Ah,
certo”. Viola sbatté senza
controllarsi il bicchiere sul tavolo. “Ognuno sceglie di che
morte morire.”
Davide
alzò lentamente lo sguardo su
di lei, pronto a compatire o a disprezzare senza menzogne
ciò che non
rispondeva a compostezza. Sempre così al suo posto.
Così certo della
irrimediabilità, come della soluzione.
“Suggerimenti?”
Se anche
c’era dell’ironia, lei
percepì solo il sarcasmo.
“Di
solitudine. O di suicidio stoico,
fai un po’ tu. Tanto l’importante è non
cedere di un passo, no?”
In fondo, era
solo offesa per i colleghi
che non voleva presentarle.
“Avrai
di sicuro già deciso, che me
lo chiedi a fare? Hai il tuo non liquet,
tu. La scelta potrebbe essere tra la morte sul graticolo o per
dissolvimento,
tu sceglieresti comunque una delle due. Sbaglio? L’importante
è essere certi, aut aut.
Terza via, questa sconosciuta.
Dialogo, roba da farisei. Sicuro di essere ateo? Anche Abramo aveva
avuto un
aut aut e avrebbe ucciso suo figlio.”
La guardava
ancora, stavolta
indecifrabile. Non il fastidio né il sarcasmo, non il
pentimento né la
perplessità. Assorbito in un vortice in cui lei non
c’era. Viola scostò una
sedia, dal tavolo, si lasciò cadere. Aveva spezzato la lira
tra le dita. Forse
aveva gettato ciò che avevano dalla torre di Ilio.
“Voi e
la vostra legge.”
Mormorò,
guardando anche lei altrove.
Davide
registrò le ultime parole come
in eco. Ma in fondo cosa ne sapeva, lei? Non le aveva mai veramente
spiegato,
in ogni caso. Cosa ci fosse davvero, tra lui e la legge. Quale incesto,
quale
farmaco velenoso.
Novello
Saint-Just negli anni del
fervore innocente, dei vagheggi ascetici di una Legge immancabilmente
giusta,
in una Repubblica virtuosa perché secondo legge. Legge
specchio di concordia
universale, di verità.
E poi, cosa era
successo?
Si vergognava,
si era vergognato per
Saint-Just e aveva custodito i suoi testi nel ripiano interno della
propria
libreria. Non per ipocrita rinnegazione, ma per custodire il grande
segreto a
cui lui per primo non aveva voluto credere: che l’equilibrio
umano è labile.
Come era potuto succedere, perché d’un tratto
quella assolutezza mortifera, perché quei toni
convinti divenuti
idolatria? “Fuori dalla legge tutto
è
sterile e morto.”
Aveva chiuso
Saint-Just per paura di
sé. Quando la sua logicità lo avrebbe portato in
quello stesso baratro? Quando
l’imperio della legge, il controllo della forma, la pretesa
di certezze lo
avrebbe reso cieco e freddo? Quando lui stesso avrebbe ghigliottinato
la Legge,
violentandola dietro una maschera di amore implacabile?
Aveva paura dei
punti che trovava
alla fine delle proprie frasi. Terrore di diventare aberrante quanto
ciò che
aberrava.
Viola aveva la
voce fragile del
compromesso. Un po’ di questo e un po’ di quello.
Davide conosceva tutto o
niente. L’amore o il sesso. La certezza o
l’assurdo. La guerra o la lira, mai
insieme. Vincere o perdere, ma non patteggiare. “Compromesso
non vuol dire
patteggiare” diceva Viola. Lei conosceva più
lingue: sapeva leggere da sinistra
a destra, e da destra a sinistra. “Conosci solo il linguaggio
del tuo codice.
Guarda fuori, c’è la guerra e non riesce ad essere
vinta. Ma se dimezzi
equamente pretese e diritti…”
La legge
è il senso della società, è
la madre e la figlia dell’uomo, non può ucciderlo.
Vero? si era chiesto.
Saint-Just taceva nel ripiano interno della sua libreria.
*
Quando
sollevò lo sguardo il vino era
ancora fermo nel bicchiere, Viola voltata di tre quarti, con il mento
poggiato
su una mano e i capelli a dibattersi furiosi quanto lei, sulle spalle,
sotto il
vento.
“Sei
ancora arrabbiata?” azzardò,
prendendo un sorso di vino, senza guardarla. Viola non si mosse, ma
c’era
quella inflessione incerta nella sua voce, che la spinse per un attimo
a
lasciar perdere e prendergli una mano.
“Discretamente”
gli fece sapere, se
non altro smettendo di dargli le spalle.
La
verità è che non riusciva a
guardarlo. Si sentiva piuttosto stupida per aver reagito in quel modo,
chissà
se gli sarebbe piaciuta ancora, o lo stesso, anche così
emotiva e poco incline
a pensieri apodittici. O se non la credesse pazza. Con Marco era lei
quella
normale, in grado di resistere agli urti di una gelosia iperbolica. Ma Davide era una storia
diversa.
Lui era lo
scoglio, e lei la bambina
che a piedi nudi si arrampicava cercando di rimanervi aggrappata il
più a lungo
possibile, e che in altri momenti, da lì sopra, cercava di
difenderlo dalla
violenza dei flutti che gli sbattevano contro. Che lotta impari. Lei,
che a
malapena sapeva prendersi cura dei propri cupi esistenzialismi.
“Tu?”
mormorò allora, tra le dita
ancora chiuse in un pugno, sotto il suo mento.
Non le giunse
risposta, e quando fu
costretta a cercare lo sguardo di Davide, scoprì che la
stava guardando, con un
sorriso ironico ma leggero sulle labbra, non sarcastico,
solo… chissà. Sembrava
ridesse di loro, con tenerezza. Sembrava che la trovasse carina. La
guardava
come chi conosce un sottotesto. O come chi conosce se stesso, cosa su
cui lei
proprio non poteva fare appello.
“Io
sono stanco” disse soltanto, per
un attimo arrendevole.
“Va
bene, mangiamo” rispose Viola,
distribuendo le porzioni nei piatti, e tornando seduta.
“Ma
sei offesa.”
Sentiva i suoi
occhi addosso, forse
era arrossita. Voleva solo baciarlo, e chiedergli di parlarle di
Andrea, e di
invitarla ad un aperitivo con lui e Salvatore. Di aprirle qualche
porta, di
accendere una luce sul soffitto della stanza che stavano dividendo.
Sospirò
fissando il piatto, meditabonda.
Quando era
piccola sua madre le aveva
messo in testa che il suo fisico fosse adatto alla ginnastica
artistica. Sulla
trave però, quando si trattava di arrotolarsi su se stessa e
tornare in piedi
in perfetto equilibrio, lei avvertiva sempre quella morsa feroce allo
stomaco,
e le mani sudate, e il cuore in gola, ma in gola davvero, prima di
slanciarsi
indietro sapendo che se avesse posizionato male le mani… in
quel momento si
sentiva in quel modo.
Lui si sporse,
trascinò verso di sé
la sedia su cui era seduta Viola.
“E’
un concetto che si può esprimere
verbalmente?”
“Non
che in questi giorni ti sia
sprecato in comunicazione verbale.”
Davide la
guardò interdetto. Le
ricordò il modo in cui aveva fissato il foglietto che gli
aveva appiccicato sul
vetro, in mezzo al traffico.
Sembrava stesse
riavvolgendo il
nastro, ripercorrendo le ore trascorse, alla ricerca del dettaglio
rilevante.
Come se non fosse abituato a considerare l’idea che qualcuno
potesse sentire la
sua mancanza. O che esistesse al mondo un sentimento come
l’affezione, o che la
quotidianità forse logora ma in fondo non uccide per forza.
Viola
ingoiò a fatica il pensiero che
in quei giorni effettivamente avesse pensato a tutto tranne che a lei,
che
invece lo ritrovava sempre tra le righe del romanzo che stava leggendo,
o sotto
il cappello che si poggiava sul viso per prendere il sole, o forse
sì, lo aveva
detto lui, no?, sotto il suo vestito.
“Ti ho
avvertita che non avrei fatto
in tempo” le disse e forse quello, quel tono, era il suo modo
di chiedere
scusa.
“Beh,
non sono la tua segreteria
telefonica. Potevi anche parlare, lo fai tutti i giorni, no?”
Sarebbe sempre
successo, in fondo,
era la storia più vecchia del mondo. Che ci si innamora, e
uno è più preso
dell’altro, uno pensa di più, sospira di
più, cerca di più, fino a che l’altro
non raggiunge la stessa lunghezza di pensieri, sospiri, ricerche.
Se solo lei non
avesse avuto il
complesso dell’ultimo animale da circo nei suoi confronti, se
non si fosse
sentita costantemente minacciata dai sospiri che le strappava dalla
gola, o dal
desiderio che provava di lui, o dalla necessità di avere le
sue labbra addosso,
o la sua voce nell’orecchio. Se solo non fosse stata una
guerra a chi si
innamorasse per primo. Se solo fosse stata sicura che fosse possibile
innamorarsi di lei.
“D’accordo.
Avrei potuto chiamare,
non ci ho pensato. Non è il mio stile, fare telefonate.
Quelle sono di lavoro.”
“A
titolo informativo, c’è qualcosa
che non sia lavoro per te? Visto
che
gli hai dedicato tutto ciò che si fa nella normale vita di
relazione, mi faccio
due domande…”
Neanche si era
accorta di aver
giocato tanto sporco. Fu solo lo squarcio che vide passargli nello
sguardo a suggerirle
che fosse facile tirare fuori quella carta. E forse dietro i suoi
silenzi e le
sue timidezze, che tanto l’avevano incuriosita, era nascosto
quel segreto: il
recondito pensiero che quanto di sé si riveli
all’altro finisce sempre per
conficcarsi nella propria carne.
In tribunale
è una battaglia ad armi
pari, sono fatti e nessuno va oltre
la toga. Qualsiasi scorrettezza è finalizzata ad un successo
proprio, a tal
punto che la sconfitta dell’altro è solo una
conseguenza logica, ma accessoria.
Non
c’è niente da perdere oltre la
causa: gli occhi dell’avvocato della controparte ti hanno
incontrato solo
davanti ad un giudice, non sono gli occhi di Viola, che ti hanno
guardato
mentre faceva l’amore con te, né quelli di Andrea
la volta che ti ha raccolto da
sotto la moto sull’Olimpica in mezzo alla pioggia.
“Non
volevo dire…”
“Le
parole non sono mai a caso, certo
che volevi dirlo.”
Le
sembrò in quell’istante, per la
prima volta, di averlo guardato negli occhi inciampando nel bagliore di
un
sentimento che non fosse solo desiderio. Volle prendergli di nuovo la
mano. Per
dirgli che in fondo si sentiva nello stesso modo, anche se riempiva di
parole
quello che lui ammantava di silenzio.
“Fare
avanti e indietro sull’Aurelia
tutti i finesettimana non è abbastanza? Mi sono fatto tre
ore di traffico,
l’altra volta, e tutto perché mi andava di
vederti. Ti sei presentata di punto
in bianco sotto lo studio e ho lasciato perdere la diffida di pagamento
di un
cliente, forse non è materiale da romanzo né da
raccolta scelta di poesia, ma
tant’è. Se vuoi chiedere conferma
all’oracolo di Delfi della sincerità dei miei
sentimenti—”
“Va
bene, va bene! Rinfodera il
sarcasmo” lo interruppe Viola. “Ho
capito” soggiunse, più morbida.
Gli occhi di
Davide si fecero
guardinghi, come se non le credesse del tutto. Come se fosse troppo
semplice,
dopo anni spesi a fare i conti con se stesso e i propri ritmi, venire a
patti
con qualcuno che chiede tanto spazio per sé.
Viola fissava un
punto indistinto tra
la sua mano e il bordo del piatto, riflessiva.
Davide non era
certo di volere che
giungesse ad una conclusione. Fino a quel momento era andata bene
così, in quel
modo, quel frequentarsi blando, era prassi, niente di nuovo. Ascesa e
declino,
niente che non fosse successo ad altri, niente che non fosse successo
anche a
lui. Se non fosse che tanti chilometri in macchina non ne aveva mai
fatti in
vita sua.
Ma poi, gli
altri (sua madre e le sue
domande puntuali per telefono sempre nello stesso ordine, Salvatore con
la foto
di sua moglie circondata di carte sulle scrivania) cosa volevano da
lui? Come
se avesse inneggiato al cinismo o avesse propagandato il culto
dell’anafettività.
La sua era una
equazione personale,
una convinzione modellata su di sé, una scelta di vita che
non avrebbe comunque
imposto ad altri. Lui aveva scelto di fare dell’indipendenza
affettiva lo
strumento di preservazione. La solitudine non la trovava
così corrosiva, era in
pace nei suoi spazi, e l’amore sì, va bene, ma
perché non a distanza, perché
non amarsi ognuno da casa propria?
Stava bene nelle
proprie misure,
sapeva muoversi agilmente nei propri spazi.
Quando Chiara lo
aveva chiamato
singhiozzando di porta-aceti e macchine familiari dopo la definitiva
discussione con Andrea, avrebbe voluto mettere un tappo, silenziare
quei
gemiti, riappropriarsi del suo migliore amico per ciò che
era, senza dover
rivestire i panni di consulente matrimoniale o amico di famiglia.
“Me
ne torno a casa da mia moglie” annunciava
sempre Salvatore, fuori dallo studio,
guardandoli con quel sorriso bonario e paterno. “Se
non ci fossi io, a prendermi cura dei vostri esasperati
individualismi…” borbottava altre volte,
quando Andrea declinava senza
troppe cerimonie proposte di vacanze insieme o di cene a casa di
Salvatore. “Cip e Ciop, vi lascio a
dividervi le
ghiande”.
Davide e Andrea
sorridevano sempre di
rimando, a volte vagamente imbarazzati, si confessarono una sera, alla
seconda
birra. Davanti alle macchine, Andrea aveva aggiunto che lui e la sua
assistente
avevano concluso i loro rapporti lavorativi per iniziarne di diversi. “Capito cosa intendo, no?”
aveva chiesto
poi, innervosito dal proprio impaccio. Davide gli aveva battuto una
mano sulla
spalla, annuendo, un commento del caso, la solita ironia corrosiva che
li aveva
resi amici a Milano. Non che si fosse sentito menomato. Si era solo
fatto
venire dei dubbi. E lui, con i dubbi, aveva pessimi rapporti.
*
Ho
capito
aveva detto Viola.
Poi si era
alzata, per sparecchiare.
Lui era rimasto
seduto, a fumare al
buio in terrazzo.
I rumori dei
movimenti veloci di
Viola all’interno della casa giungevano attutiti. Immaginava
per ogni suono la
figura di Viola intenta a compiere il gesto corrispettivo. I piatti nel
lavandino, lo sportello chiuso con un colpo secco, passi in camera da
letto—a
prendere il libro, la luce spenta, passi in salone, la luce accesa, il
divano,
i sandali scalzati dai piedi e lasciati cadere in terra. Aveva di
sicuro
raccolto le gambe per poggiarvi il libro, gli occhiali appoggiati sul
naso,
timidi, come se fossero lì per caso e non perché
lei ci vedesse poco da vicino.
Il fumo della
sigaretta si confondeva
con quello dello zampirone che Viola aveva acceso a cena, per tenere
lontani
gli insetti. Odore agre e dolciastro insieme, in un miscuglio
improbabile. Lì
in mezzo Davide pensava all’altra donna, a come era finita,
al prima e al dopo.
Forse di Elena
era stato innamorato.
A lei aveva addirittura riservato un posto nella memoria. Aveva
sopportato il
rischio che i ricordi riemergessero a tradimento, indipendentemente
dalla sua
volontà. A volte, dopo aver accompagnato a casa una Irene,
gli tornava in mente
il profumo di Elena. Nei suoi ricordi non c’era mai
l’espressione del suo
volto. Solo dettagli di lei. Il profumo, un paio di orecchini che le
aveva
visto spesso ai lobi. Oppure ricordava il suo sorriso sofisticato, che
la
faceva sembrare una donna d’altri tempi. O la curva delle sue
sopracciglia, in
tribunale, quando qualcosa non andava come previsto. Ricordava alcuni
posti in
cui avevano fatto l’amore. Erano tutti pensieri nebulosi.
Raramente poteva
chiamarli nostalgici. Ma era piuttosto certo di averla amata. Andrea
del resto
non la nominava mai.
Da quando aveva
incontrato Viola i
frammenti di Elena non erano più apparsi, se non una volta.
Qualche
settimana prima Viola lo
aveva svegliato, di notte. Capitava che lo facesse, lui non si ritirava
mai nel
sonno. Nel silenzio della stanza era scivolata sopra di lui, spostando
le
lenzuola. A luce spenta si era scoperto a cercare il suo sguardo. Lo
aveva
trovato. Viola si muoveva sopra di lui, e sentiva i suoi occhi addosso,
anche
al buio, come se fosse pieno giorno e lei lo stesse fissando, con la
stessa
intensità con cui lo aveva guardato in macchina, mentre
parlava al telefono in
mezzo all’Aurelia, come se ci fosse qualcosa da scoprire,
qualcosa da trovare,
quella notte nel buio lo stava guardando proprio in quel modo. Elena
aveva
occhi così sfuggenti, aveva pensato.
E a quel punto
Viola, come se avesse
letto nei suoi pensieri, lo aveva baciato, i suoi denti a stringergli
le
labbra, la leonessa che si riappropria di ciò che le spetta,
era andata a
riprenderselo.
Davide non
sapeva se avesse inteso
strapparlo dal baluginare fioco dell’altra donna, o dal
baratro in cui lui per
primo si era sentito sprofondare, perso nei suoi vuoti
d’anima.
Lei era comunque
andata a
riprenderlo.
Si
alzò, lasciando lo zampirone a
bruciare se stesso.
*
La
trovò raggomitolata sul divano
nella posizione in cui l’aveva immaginata. Le gambe raccolte,
il libro poggiato
lì sopra, gli occhiali sul naso, l’espressione
concentrata ma di certo non
sulla storia del romanzo. Aveva sostituito se stessa ai protagonisti
della
storia, riempito i loro dialoghi delle parole volate tra lei e Davide
poco
prima.
La raggiunse,
sedendosi accanto ai
suoi piedi. Portò con sé l’odore di
fumo.
Viola
alzò lentamente lo sguardo dal
libro, incerta.
“Facciamo
quattro passi fino al
porto?” le propose. In realtà aveva la voce
stanca. Viola chiuse il libro,
tenendo il segno con due dita. Era quello che voleva? Si chiese. Quel
tono
conciliante, che lui andasse a cercarla, che le facesse capire di
essere
dispiaciuto, che le dicesse di volerla ancora al fianco per una
passeggiata al
porto?
Re Davide suona
la lira dopo aver
fatto una guerra.
“Mi
racconti che ha combinato
Andrea?” chiese a bassa voce. Lo vide chiudere gli occhi,
reclinare la testa
indietro, sorridere o forse sospirare, non riuscì a
distinguere.
“Sì.
Te lo racconto.”
Quando Davide
riaprì gli occhi, Viola
era in piedi di fronte all’armadio, in cerca di una giacca
con cui coprirsi le
spalle dal vento fresco della sera, giù al porto.
La
guardò portare a termine i
preparativi, seguendo i movimenti con lo sguardo, senza distrarsi un
attimo.
Nel tempo in cui scelse la giacca spazzolò i capelli
sistemò il vestito infilò
i sandali ai piedi cambiò giacca e ripescò le
chiavi di casa dal vaso sul
tavolino basso nell’ingresso, Davide sentì le
proprie spalle rilassarsi, come
se avesse ricevuto un anticipo e l’odore di mare del porto lo
avesse in parte
già raggiunto, entrandogli nei polmoni,
e le luci dei ristoranti e il vociare delle persone intorno alle
bancarelle
allestite lungo la banchina lo chiamassero già.
“Sono
pronta” disse Viola, al termine
delle operazioni. Lo aspettava vicino alla porta, la chiave rossa
– quella più
lunga, aveva imparato Davide – già inserita nella
toppa, perché la corrente
d’aria delle scale non facesse sbattere la porta.
Davide si
alzò, abbassò la serranda
del terrazzo spense la luce lasciò lo zampirone
lì dov’era e la raggiunse.
“Anche
io” disse, riferendosi ad altro.
FINE
Tanks to
momo_ : Sulle storie romantiche sono stata sempre scettica anche io, anche perché la filmografia non ha fatto mai niente per vincere lo scetticismo (Serendipity è stato solo l’esempio più smaccato a conferma dei sospetti XD) quindi mi solleva sapere che questo papocchio di tre parti non è banale né scontato! Riguardo la frase sull’affascinante idiozia di certi uomini… si è scritta da sola, non la trovo smentibile in alcun modo XD Insomma, grazie per la recensione e per i complimenti, è una domanda che mi pongo spesso anche io (ovviamente su altri scrittori di EFP, non su di me XD) ma il fatto è che l’editoria in sé quando non mi avvilisce per i suoi meccanismi mi inibisce per altri, quindi credo che sia un cane che si morde la coda e che forse ha ragione davvero Erri De Luca a consigliare tutti di tenersene alla larga quanto più possibile ^^ Consiglio che a quanto pare Moccia ha seguito alla lettera, a quanto pare! (sarcasmo mode: on) Anyway, grazie ancora per esserti dedicata alla lettura di Piccole mani =) [1] Cit. Giacomo Leopardi [2] Cit. Omero, Iliade.