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Autore: Briseide    29/08/2010    1 recensioni
Davide è imbottigliato nel traffico.
Viola anche.
Un caffè in autogrill ha fatto il resto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Doverosa premessa: scusate per la pubblicazione in orrido a-html (l'alfa consideratelo privativo) non mi ero accorta che NVU avesse più o meno deliberatamente ignorato i miei comandi ^^

TERZA PARTE

Nessuno, neanche la pioggia, ha così piccole mani.

 

 

La sera era tornata a casa con un languore di cui non si era liberata. Era tornato a lambirla di notte, fatto di immagini e di pensieri. Le tremavano le mani, come se sul suo collo ci fossero ancora le labbra di Davide. Lo aveva portato a letto, con sé, ma non era riuscita a tenerselo sul cuore o nei pensieri, lo aveva voluto nella carne, lo aveva voluto sotto le lenzuola, chino su di lei, lo aveva voluto, voluto e basta, e nessuna fantasia riusciva ad appagarla.

Voleva fare proprie le sue contraddizioni, stringerle tra le dita, vincerle o perdercisi dentro, dipanarle, sbaragliarle o esserne travolta.

Lo voleva e basta, e sapeva che la volta che lo avesse avuto sarebbe stata per lei un eterno presente, sarebbe tornato tale ogni qual volta l’avesse riportata alla mente. Come se dopo quella volta, Davide non le avesse mai tolto le mani di dosso.

Partì per il solito fine settimana al mare, cercando di trovare pace da quel gorgo di desiderio e di impazienza.

Pensò di chiedere a Vittoria di raggiungerla.

A pieni nudi sul pavimento infuocato del terrazzo, compose un altro numero.

“Ti raggiungo nel pomeriggio” le disse. La sua voce era bassa, non poteva parlarle, c’erano delle voci intorno a lui. L’idea che non la stesse condividendo con altri, con l’atrio del Tribunale, con i discorsi dei colleghi, la compiacque.

“Sono a casa. Ti scrivo dov’è.”

Avrebbe voluto sentire ancora la sua voce, ma lo lasciò andare alle durezze della legge.

 

*

 

Aurelia in direzione contraria, in andare. Questo un senso ce l’aveva? Lasciare il Tribunale, subito dopo la sentenza di accertamento. Via la toga, il codice e gli appunti processuali sbattuti nel sedile posteriore della macchina.

Via dei Tulipani come se lei e i fiori non potessero fare a meno di avere a che fare l’una con l’altro.

Un parcheggio entro le strisce, anche se le manovre erano state secche e impazienti.

Il sole gli batteva sulle spalle.

Viola abitava all’ultimo piano, era a piedi nudi, i capelli legati per il caldo, niente trucco, gli occhi luminosi, la casa bianca sgombra di qualsiasi oggettistica ma piena di fogli e di libri, un terrazzo grande ad intravedersi dietro il profilo delle sue spalle esili, il vestito di cotone bianco, un’accoglienza silenziosa, spazio rarefatto e troppo vasto finché fossero stati lontani, pieno di spigoli invisibili, lei che si muoveva leggera e fresca, gli aveva tolto la cravatta, lui aveva pensato al resto, gesti sicuri e finiti, la camicia e la cintura, compiuti ad ogni rientro a casa dopo la mattinata in tribunale o in studio, ma questa volta c’erano delle mani ad interrompere i suoi gesti, mani che non aspettavano altro che avere campo libero.

 

*

 

È grande e piccolo. Esperto e timido. Muove le dita dentro di lei e trema forte sollevato sulle braccia e contro il suo seno.

La fa impazzire, sa come farlo, ma solo se tiene gli occhi chiusi.

Padrone del suo corpo, ogni volta che lei gli chiede permesso con la bocca e con le mani, lui dice sì.

Viola ha dita fredde che scivolano sul sudore della sua schiena. Lui ha spalle forti e presenti a cui cerca di aggrapparsi. Sprofondato tra le sue gambe la piega senza guardarla negli occhi, è con quella stessa lingua che parla alla Corte?

Lo accoglie, lui si prende spazio. Spinge e affonda come se sapesse che nel fondo c’è un senso. Qualcosa da raccogliere. Da dove è partito, da dove ripartire. Un posto dove lasciare parte di sé.

Lei gli respira nell’orecchio. Tira contro di sé il peso del suo corpo, è umido, stanco ma non sfinito.

Fuori l’aria è immobile, c’è silenzio, ogni cosa ascolta loro: lei che non sa più respirare, accoglie l’aria nella gola volendo bere altro, lui che geme come se fosse un grande dolore aver trovato quel piacere.

 

*

 

Dopo erano rimasti lì. Le lenzuola attorcigliate tra loro nudi, immersi nei loro odori, placati, silenti.

Le dita di Viola erano già tornate fredde. Davide steso sullo stomaco nascondeva il suo sé a riposo, la testa reclinata, l’orecchio sul cuscino, il respiro dei bambini.

Viola gli aveva posato le sue dita di ossa e gelo sulla nuca. Come se avesse dovuto farlo. Non c’era altrimenti da fare. Fu colta dallo stesso brivido che lo attraversò lungo la schiena, fino in fondo, dove le dediche d’amore non arrivano. Irrefrenabile.

Lei potente e materna nel disporre in quel modo del suo corpo. Colma di desiderio e tenerezza fino all’orlo, fino a piangerne o a chiuderlo in un abbraccio che li dissolvesse.

Non sapeva se dormisse.

Guardava il suo corpo nudo, il sudore che lento si asciugava sulla sua pelle scura.

Re Davide pensava trovando in lui quel miscuglio biblico di sfrontatezza e potenza, di mani grandi che sanno fare la guerra e suonare una lira. Quella grande magnificenza umana, umanamente erodibile. Una cosa e il suo contrario. Tempesta e accettazione di tempesta.

Innamorati di me pensò. Adesso, quando ti alzi e mi guardi.

Dito indice puntato alla sbarra dei colpevoli, e poi carezzevole sul seno di una donna.

Innamorati di me, o non avrà senso sentirsi in questo modo.

 

*

 

Viola finì con il trasferirsi in pianta stabile nella casa al mare. Week end dopo week end portava con sé un po’ dei suoi libri e articoli da tradurre, e li lasciava lì.

Viveva di traduzioni, del vento sul terrazzo, di succo d’arancia e insalate. Vittoria la raggiungeva nelle pause dal suo lavoro in palestra, e passavano interi pomeriggi a mollo nell’acqua. In rare occasioni Viola parlava di Israele. Quasi sempre di Davide.

 

Che veniva quasi tutti i fine settimana parcheggiando sulla solita strada. Quando pensava a lei, in studio, la vedeva sempre con il vestito di cotone bianco. La sua casa non aveva l’ascensore, abitava all’ultimo piano, i suoi passi per le scale erano quelli del desiderio.

“Le sudate carte[1]?” gli chiedeva, curiosa. “In macchina”.

Le piaceva il pensiero di quei viaggi verso di lei. Lo immaginava in macchina, con del blues. Aveva deciso che gli si addicesse il blues.

Vittoria iniziò a comparire nei loro discorsi, in qualche racconto di Viola. Timidamente cercava di presentargli la sua vita, e le persone che la popolavano. Davide rispondeva a qualche telefonata quando era con lei: lo ascoltava parlare la lingua giuridica, sbirciando verso di lui in terrazzo. Nel condire l’insalata, mischiarvi le olive nere affettare pomodori e carote a strisce sottili versare un filo d’olio o spruzzare veloce un po’ di limone, guardava il profilo di Davide, gli occhi socchiusi contro il sole, una sigaretta accesa e dimenticata sul posacenere o stretta nervosa tra le dita, le labbra sottili che parlavano poco e brevemente, come se quello che c’era da dire fosse presto e ben detto.

Si chiedeva che volti avessero i suoi clienti, e che storie. E i suoi colleghi. Salvatore e Andrea. Avrebbe voluto dare un volto anche a loro, conoscerne la voce, il modo di stare seduti intorno ad un tavolo, ciò che volevano nei loro bicchieri. Ma poi Davide le accarezzava la schiena con il palmo della mano aperto e caldo, le dita a premerle sulle scapole, nascondendo la sua riservatezza in un sorriso vago, e poi si chinava su di lei o attendeva che fosse lei a porgergli le labbra, il collo, se stessa.

 

Quando faceva l’amore con lei la domenica, prima di ripartire, re Davide suonava la lira. Quando suonava il campanello, con la cravatta ancora al collo, il venerdì pomeriggio nell’arrivare, le sue mani e la sua bocca avevano l’ardimento di un re guerriero, l’urgenza del corpo prima dello scontro, del seme prima del sangue. Le piaceva in ogni caso. Le piaceva cercarlo la notte, di colpo sveglia e risvegliare anche lui.

Rispettava ciò di cui non voleva parlare, perché era un amante generoso, tanto quanto geloso del resto di sé.

Viola percepiva languire nei nervi tesi sotto la sua pelle il ruggito di quanto in lui non era stato domato, il tormento di quanto era ancora irrisolto. Attendeva il momento in cui avrebbe trovato voce. In cui non sarebbe stato amore ma guerra. In cui non avrebbe cercato il piacere, ma un violento stordimento di una angoscia o di un dolore. Che Davide non avrebbe voluto condividere, eppure—

Eppure gli avrebbe strappato risposte, lo avrebbe piegato alla condivisione come lui l’aveva piegata all’arrendevolezza intrufolandosi in lei in quel modo che sapeva lui. Perché non disponesse di lei, ma condividesse con lei.

Lo aspettava, quel momento. Con timore e impazienza. Non sarebbe stato bello, ma vedeva se stessa con la lira e con la lancia, di fronte a lui. Sorridente lacrime[2] come la gran donna bambina madre e amante, che era stata Andromaca dalle torri di Ilio, sotto l’elmo di Ettore.

 

A volte in mezzo alla giornata le arrivava un suo messaggio. Nella laconicità delle parole non mancava mai un accenno di sentimento. L’azzardo ironico, l’impudenza vagamente narcisistica, l’eco di un sospiro stanco.

“Andrea rompe. Lo metto sottovuoto e me ne vado.”

“Sì, sono proprio lì. Sotto il tuo vestito.”

 

Poi un venerdì mattina le scrisse solo: “Cavilli legali. Arrivo venerdì prossimo.”

Nel resto della settimana non giunsero altri messaggi. Viola cercò di resistere a quel silenzio, decidendo di non chiamarlo, ché quelli erano i suoi spazi e la mancanza che sentiva di lui, come una bambina, forse non era un pretesto sufficiente. Ad eterna memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua, aveva detto. Scoprì cosa volesse dire essere schiacciati da una sentenza.

 

Il venerdì pomeriggio successivo il cellulare di Viola si illuminò. “Sabato sera sono lì.”

Fingere di non essere delusa né risentita era una sforzo che non volle sostenere.

Ma quando venne il sabato, Davide giunse senza cravatta e scuro in volto. Sotto il braccio stringeva un fascio di fogli e cartelle, e le sue labbra erano tese ed ermetiche.

“Problemi allo studio?” gli chiese, mettendo in tavola pasta fredda e vino bianco. Lui era seduto con la schiena contro la scomoda sedia di plastica del terrazzo, gli occhi chiusi, in naufragi solitari.

“Andrea ci ha impelagato nei suoi deliri di onnipotenza”.

Avrebbe potuto aggiungere altro, come causa invincibile, patto commissorio, società apparente, liquidazione coatta, ma lasciò stare, perché era ad un passo dal perdere una causa importante nel modo più inaccettabile: secondo giustizia. Il che presupponeva che fosse nel torto e che stesse andando contro natura.

“Se lo dici ad alta voce poi lo ridimensioni.”

“Davvero? Anche a Hitler è servito?”

Non voleva essere tanto tagliente, sapeva che sarebbe successo. Che non sarebbe dovuto andare da Viola prima di aver perso la causa e aver divorato i fascicoli.

Lo guardava ferita senza essere sorpresa.

“Se relativizzassi un po’, ogni tanto…” .

Di nuovo la frase sospesa, incompiuta, mozza.

Era solo stanco, in fondo.

“L’oggettività dei fatti a volte risolve ogni speculazione.”

“Ah, certo”. Viola sbatté senza controllarsi il bicchiere sul tavolo. “Ognuno sceglie di che morte morire.”

Davide alzò lentamente lo sguardo su di lei, pronto a compatire o a disprezzare senza menzogne ciò che non rispondeva a compostezza. Sempre così al suo posto. Così certo della irrimediabilità, come della soluzione.

“Suggerimenti?”

Se anche c’era dell’ironia, lei percepì solo il sarcasmo.

“Di solitudine. O di suicidio stoico, fai un po’ tu. Tanto l’importante è non cedere di un passo, no?”

In fondo, era solo offesa per i colleghi che non voleva presentarle.

“Avrai di sicuro già deciso, che me lo chiedi a fare? Hai il tuo non liquet, tu. La scelta potrebbe essere tra la morte sul graticolo o per dissolvimento, tu sceglieresti comunque una delle due. Sbaglio? L’importante è essere certi, aut aut. Terza via, questa sconosciuta. Dialogo, roba da farisei. Sicuro di essere ateo? Anche Abramo aveva avuto un aut aut e avrebbe ucciso suo figlio.”

La guardava ancora, stavolta indecifrabile. Non il fastidio né il sarcasmo, non il pentimento né la perplessità. Assorbito in un vortice in cui lei non c’era. Viola scostò una sedia, dal tavolo, si lasciò cadere. Aveva spezzato la lira tra le dita. Forse aveva gettato ciò che avevano dalla torre di Ilio.

“Voi e la vostra legge.”

Mormorò, guardando anche lei altrove.

 

Davide registrò le ultime parole come in eco. Ma in fondo cosa ne sapeva, lei? Non le aveva mai veramente spiegato, in ogni caso. Cosa ci fosse davvero, tra lui e la legge. Quale incesto, quale farmaco velenoso.

Novello Saint-Just negli anni del fervore innocente, dei vagheggi ascetici di una Legge immancabilmente giusta, in una Repubblica virtuosa perché secondo legge. Legge specchio di concordia universale, di verità.

E poi, cosa era successo?

Si vergognava, si era vergognato per Saint-Just e aveva custodito i suoi testi nel ripiano interno della propria libreria. Non per ipocrita rinnegazione, ma per custodire il grande segreto a cui lui per primo non aveva voluto credere: che l’equilibrio umano è labile. Come era potuto succedere, perché d’un tratto  quella assolutezza mortifera, perché quei toni convinti divenuti idolatria? “Fuori dalla legge tutto è sterile e morto.”

Aveva chiuso Saint-Just per paura di sé. Quando la sua logicità lo avrebbe portato in quello stesso baratro? Quando l’imperio della legge, il controllo della forma, la pretesa di certezze lo avrebbe reso cieco e freddo? Quando lui stesso avrebbe ghigliottinato la Legge, violentandola dietro una maschera di amore implacabile?

Aveva paura dei punti che trovava alla fine delle proprie frasi. Terrore di diventare aberrante quanto ciò che aberrava.

Viola aveva la voce fragile del compromesso. Un po’ di questo e un po’ di quello. Davide conosceva tutto o niente. L’amore o il sesso. La certezza o l’assurdo. La guerra o la lira, mai insieme. Vincere o perdere, ma non patteggiare. “Compromesso non vuol dire patteggiare” diceva Viola. Lei conosceva più lingue: sapeva leggere da sinistra a destra, e da destra a sinistra. “Conosci solo il linguaggio del tuo codice. Guarda fuori, c’è la guerra e non riesce ad essere vinta. Ma se dimezzi equamente pretese e diritti…”

La legge è il senso della società, è la madre e la figlia dell’uomo, non può ucciderlo. Vero? si era chiesto. Saint-Just taceva nel ripiano interno della sua libreria.

 

*

 

Quando sollevò lo sguardo il vino era ancora fermo nel bicchiere, Viola voltata di tre quarti, con il mento poggiato su una mano e i capelli a dibattersi furiosi quanto lei, sulle spalle, sotto il vento.

“Sei ancora arrabbiata?” azzardò, prendendo un sorso di vino, senza guardarla. Viola non si mosse, ma c’era quella inflessione incerta nella sua voce, che la spinse per un attimo a lasciar perdere e prendergli una mano.

“Discretamente” gli fece sapere, se non altro smettendo di dargli le spalle.

La verità è che non riusciva a guardarlo. Si sentiva piuttosto stupida per aver reagito in quel modo, chissà se gli sarebbe piaciuta ancora, o lo stesso, anche così emotiva e poco incline a pensieri apodittici. O se non la credesse pazza. Con Marco era lei quella normale, in grado di resistere agli urti di una gelosia iperbolica.  Ma Davide era una storia diversa.

Lui era lo scoglio, e lei la bambina che a piedi nudi si arrampicava cercando di rimanervi aggrappata il più a lungo possibile, e che in altri momenti, da lì sopra, cercava di difenderlo dalla violenza dei flutti che gli sbattevano contro. Che lotta impari. Lei, che a malapena sapeva prendersi cura dei propri cupi esistenzialismi.

“Tu?” mormorò allora, tra le dita ancora chiuse in un pugno, sotto il suo mento.

Non le giunse risposta, e quando fu costretta a cercare lo sguardo di Davide, scoprì che la stava guardando, con un sorriso ironico ma leggero sulle labbra, non sarcastico, solo… chissà. Sembrava ridesse di loro, con tenerezza. Sembrava che la trovasse carina. La guardava come chi conosce un sottotesto. O come chi conosce se stesso, cosa su cui lei proprio non poteva fare appello.

“Io sono stanco” disse soltanto, per un attimo arrendevole.

“Va bene, mangiamo” rispose Viola, distribuendo le porzioni nei piatti, e tornando seduta.

“Ma sei offesa.”

Sentiva i suoi occhi addosso, forse era arrossita. Voleva solo baciarlo, e chiedergli di parlarle di Andrea, e di invitarla ad un aperitivo con lui e Salvatore. Di aprirle qualche porta, di accendere una luce sul soffitto della stanza che stavano dividendo. Sospirò fissando il piatto, meditabonda.

Quando era piccola sua madre le aveva messo in testa che il suo fisico fosse adatto alla ginnastica artistica. Sulla trave però, quando si trattava di arrotolarsi su se stessa e tornare in piedi in perfetto equilibrio, lei avvertiva sempre quella morsa feroce allo stomaco, e le mani sudate, e il cuore in gola, ma in gola davvero, prima di slanciarsi indietro sapendo che se avesse posizionato male le mani… in quel momento si sentiva in quel modo.

Lui si sporse, trascinò verso di sé la sedia su cui era seduta Viola.

“E’ un concetto che si può esprimere verbalmente?”

“Non che in questi giorni ti sia sprecato in comunicazione verbale.”

Davide la guardò interdetto. Le ricordò il modo in cui aveva fissato il foglietto che gli aveva appiccicato sul vetro, in mezzo al traffico.

Sembrava stesse riavvolgendo il nastro, ripercorrendo le ore trascorse, alla ricerca del dettaglio rilevante. Come se non fosse abituato a considerare l’idea che qualcuno potesse sentire la sua mancanza. O che esistesse al mondo un sentimento come l’affezione, o che la quotidianità forse logora ma in fondo non uccide per forza.

Viola ingoiò a fatica il pensiero che in quei giorni effettivamente avesse pensato a tutto tranne che a lei, che invece lo ritrovava sempre tra le righe del romanzo che stava leggendo, o sotto il cappello che si poggiava sul viso per prendere il sole, o forse sì, lo aveva detto lui, no?, sotto il suo vestito.

“Ti ho avvertita che non avrei fatto in tempo” le disse e forse quello, quel tono, era il suo modo di chiedere scusa.

“Beh, non sono la tua segreteria telefonica. Potevi anche parlare, lo fai tutti i giorni, no?”

Sarebbe sempre successo, in fondo, era la storia più vecchia del mondo. Che ci si innamora, e uno è più preso dell’altro, uno pensa di più, sospira di più, cerca di più, fino a che l’altro non raggiunge la stessa lunghezza di pensieri, sospiri, ricerche.

Se solo lei non avesse avuto il complesso dell’ultimo animale da circo nei suoi confronti, se non si fosse sentita costantemente minacciata dai sospiri che le strappava dalla gola, o dal desiderio che provava di lui, o dalla necessità di avere le sue labbra addosso, o la sua voce nell’orecchio. Se solo non fosse stata una guerra a chi si innamorasse per primo. Se solo fosse stata sicura che fosse possibile innamorarsi di lei.

“D’accordo. Avrei potuto chiamare, non ci ho pensato. Non è il mio stile, fare telefonate. Quelle sono di lavoro.”

“A titolo informativo, c’è qualcosa che non sia lavoro per te? Visto che gli hai dedicato tutto ciò che si fa nella normale vita di relazione, mi faccio due domande…”

Neanche si era accorta di aver giocato tanto sporco. Fu solo lo squarcio che vide passargli nello sguardo a suggerirle che fosse facile tirare fuori quella carta. E forse dietro i suoi silenzi e le sue timidezze, che tanto l’avevano incuriosita, era nascosto quel segreto: il recondito pensiero che quanto di sé si riveli all’altro finisce sempre per conficcarsi nella propria carne.

In tribunale è una battaglia ad armi pari, sono fatti e nessuno va oltre la toga. Qualsiasi scorrettezza è finalizzata ad un successo proprio, a tal punto che la sconfitta dell’altro è solo una conseguenza logica, ma accessoria.

Non c’è niente da perdere oltre la causa: gli occhi dell’avvocato della controparte ti hanno incontrato solo davanti ad un giudice, non sono gli occhi di Viola, che ti hanno guardato mentre faceva l’amore con te, né quelli di Andrea la volta che ti ha raccolto da sotto la moto sull’Olimpica in mezzo alla pioggia.

“Non volevo dire…”

“Le parole non sono mai a caso, certo che volevi dirlo.”

Le sembrò in quell’istante, per la prima volta, di averlo guardato negli occhi inciampando nel bagliore di un sentimento che non fosse solo desiderio. Volle prendergli di nuovo la mano. Per dirgli che in fondo si sentiva nello stesso modo, anche se riempiva di parole quello che lui ammantava di silenzio.

“Fare avanti e indietro sull’Aurelia tutti i finesettimana non è abbastanza? Mi sono fatto tre ore di traffico, l’altra volta, e tutto perché mi andava di vederti. Ti sei presentata di punto in bianco sotto lo studio e ho lasciato perdere la diffida di pagamento di un cliente, forse non è materiale da romanzo né da raccolta scelta di poesia, ma tant’è. Se vuoi chiedere conferma all’oracolo di Delfi della sincerità dei miei sentimenti—”

“Va bene, va bene! Rinfodera il sarcasmo” lo interruppe Viola. “Ho capito” soggiunse, più morbida.

Gli occhi di Davide si fecero guardinghi, come se non le credesse del tutto. Come se fosse troppo semplice, dopo anni spesi a fare i conti con se stesso e i propri ritmi, venire a patti con qualcuno che chiede tanto spazio per sé.

Viola fissava un punto indistinto tra la sua mano e il bordo del piatto, riflessiva.

Davide non era certo di volere che giungesse ad una conclusione. Fino a quel momento era andata bene così, in quel modo, quel frequentarsi blando, era prassi, niente di nuovo. Ascesa e declino, niente che non fosse successo ad altri, niente che non fosse successo anche a lui. Se non fosse che tanti chilometri in macchina non ne aveva mai fatti in vita sua.

Ma poi, gli altri (sua madre e le sue domande puntuali per telefono sempre nello stesso ordine, Salvatore con la foto di sua moglie circondata di carte sulle scrivania) cosa volevano da lui? Come se avesse inneggiato al cinismo o avesse propagandato il culto dell’anafettività.

La sua era una equazione personale, una convinzione modellata su di sé, una scelta di vita che non avrebbe comunque imposto ad altri. Lui aveva scelto di fare dell’indipendenza affettiva lo strumento di preservazione. La solitudine non la trovava così corrosiva, era in pace nei suoi spazi, e l’amore sì, va bene, ma perché non a distanza, perché non amarsi ognuno da casa propria?

Stava bene nelle proprie misure, sapeva muoversi agilmente nei propri spazi.

Quando Chiara lo aveva chiamato singhiozzando di porta-aceti e macchine familiari dopo la definitiva discussione con Andrea, avrebbe voluto mettere un tappo, silenziare quei gemiti, riappropriarsi del suo migliore amico per ciò che era, senza dover rivestire i panni di consulente matrimoniale o amico di famiglia.

“Me ne torno a casa da mia moglie” annunciava sempre Salvatore, fuori dallo studio, guardandoli con quel sorriso bonario e paterno. “Se non ci fossi io, a prendermi cura dei vostri esasperati individualismi…” borbottava altre volte, quando Andrea declinava senza troppe cerimonie proposte di vacanze insieme o di cene a casa di Salvatore. “Cip e Ciop, vi lascio a dividervi le ghiande”.

Davide e Andrea sorridevano sempre di rimando, a volte vagamente imbarazzati, si confessarono una sera, alla seconda birra. Davanti alle macchine, Andrea aveva aggiunto che lui e la sua assistente avevano concluso i loro rapporti lavorativi per iniziarne di diversi. “Capito cosa intendo, no?” aveva chiesto poi, innervosito dal proprio impaccio. Davide gli aveva battuto una mano sulla spalla, annuendo, un commento del caso, la solita ironia corrosiva che li aveva resi amici a Milano. Non che si fosse sentito menomato. Si era solo fatto venire dei dubbi. E lui, con i dubbi, aveva pessimi rapporti.

 

*

 

Ho capito aveva detto Viola.

Poi si era alzata, per sparecchiare.

Lui era rimasto seduto, a fumare al buio in terrazzo.

I rumori dei movimenti veloci di Viola all’interno della casa giungevano attutiti. Immaginava per ogni suono la figura di Viola intenta a compiere il gesto corrispettivo. I piatti nel lavandino, lo sportello chiuso con un colpo secco, passi in camera da letto—a prendere il libro, la luce spenta, passi in salone, la luce accesa, il divano, i sandali scalzati dai piedi e lasciati cadere in terra. Aveva di sicuro raccolto le gambe per poggiarvi il libro, gli occhiali appoggiati sul naso, timidi, come se fossero lì per caso e non perché lei ci vedesse poco da vicino.

Il fumo della sigaretta si confondeva con quello dello zampirone che Viola aveva acceso a cena, per tenere lontani gli insetti. Odore agre e dolciastro insieme, in un miscuglio improbabile. Lì in mezzo Davide pensava all’altra donna, a come era finita, al prima e al dopo.

Forse di Elena era stato innamorato. A lei aveva addirittura riservato un posto nella memoria. Aveva sopportato il rischio che i ricordi riemergessero a tradimento, indipendentemente dalla sua volontà. A volte, dopo aver accompagnato a casa una Irene, gli tornava in mente il profumo di Elena. Nei suoi ricordi non c’era mai l’espressione del suo volto. Solo dettagli di lei. Il profumo, un paio di orecchini che le aveva visto spesso ai lobi. Oppure ricordava il suo sorriso sofisticato, che la faceva sembrare una donna d’altri tempi. O la curva delle sue sopracciglia, in tribunale, quando qualcosa non andava come previsto. Ricordava alcuni posti in cui avevano fatto l’amore. Erano tutti pensieri nebulosi. Raramente poteva chiamarli nostalgici. Ma era piuttosto certo di averla amata. Andrea del resto non la nominava mai.

Da quando aveva incontrato Viola i frammenti di Elena non erano più apparsi, se non una volta.

Qualche settimana prima Viola lo aveva svegliato, di notte. Capitava che lo facesse, lui non si ritirava mai nel sonno. Nel silenzio della stanza era scivolata sopra di lui, spostando le lenzuola. A luce spenta si era scoperto a cercare il suo sguardo. Lo aveva trovato. Viola si muoveva sopra di lui, e sentiva i suoi occhi addosso, anche al buio, come se fosse pieno giorno e lei lo stesse fissando, con la stessa intensità con cui lo aveva guardato in macchina, mentre parlava al telefono in mezzo all’Aurelia, come se ci fosse qualcosa da scoprire, qualcosa da trovare, quella notte nel buio lo stava guardando proprio in quel modo. Elena aveva occhi così sfuggenti, aveva pensato.

E a quel punto Viola, come se avesse letto nei suoi pensieri, lo aveva baciato, i suoi denti a stringergli le labbra, la leonessa che si riappropria di ciò che le spetta, era andata a riprenderselo.

Davide non sapeva se avesse inteso strapparlo dal baluginare fioco dell’altra donna, o dal baratro in cui lui per primo si era sentito sprofondare, perso nei suoi vuoti d’anima.

Lei era comunque andata a riprenderlo.

Si alzò, lasciando lo zampirone a bruciare se stesso.

 

*

 

La trovò raggomitolata sul divano nella posizione in cui l’aveva immaginata. Le gambe raccolte, il libro poggiato lì sopra, gli occhiali sul naso, l’espressione concentrata ma di certo non sulla storia del romanzo. Aveva sostituito se stessa ai protagonisti della storia, riempito i loro dialoghi delle parole volate tra lei e Davide poco prima.

La raggiunse, sedendosi accanto ai suoi piedi. Portò con sé l’odore di fumo.

Viola alzò lentamente lo sguardo dal libro, incerta.

“Facciamo quattro passi fino al porto?” le propose. In realtà aveva la voce stanca. Viola chiuse il libro, tenendo il segno con due dita. Era quello che voleva? Si chiese. Quel tono conciliante, che lui andasse a cercarla, che le facesse capire di essere dispiaciuto, che le dicesse di volerla ancora al fianco per una passeggiata al porto?

Re Davide suona la lira dopo aver fatto una guerra.

“Mi racconti che ha combinato Andrea?” chiese a bassa voce. Lo vide chiudere gli occhi, reclinare la testa indietro, sorridere o forse sospirare, non riuscì a distinguere.

“Sì. Te lo racconto.”

Quando Davide riaprì gli occhi, Viola era in piedi di fronte all’armadio, in cerca di una giacca con cui coprirsi le spalle dal vento fresco della sera, giù al porto.

La guardò portare a termine i preparativi, seguendo i movimenti con lo sguardo, senza distrarsi un attimo. Nel tempo in cui scelse la giacca spazzolò i capelli sistemò il vestito infilò i sandali ai piedi cambiò giacca e ripescò le chiavi di casa dal vaso sul tavolino basso nell’ingresso, Davide sentì le proprie spalle rilassarsi, come se avesse ricevuto un anticipo e l’odore di mare del porto lo avesse in  parte già raggiunto, entrandogli nei polmoni, e le luci dei ristoranti e il vociare delle persone intorno alle bancarelle allestite lungo la banchina lo chiamassero già.

“Sono pronta” disse Viola, al termine delle operazioni. Lo aspettava vicino alla porta, la chiave rossa – quella più lunga, aveva imparato Davide – già inserita nella toppa, perché la corrente d’aria delle scale non facesse sbattere la porta.

Davide si alzò, abbassò la serranda del terrazzo spense la luce lasciò lo zampirone lì dov’era e la raggiunse.

“Anche io” disse, riferendosi ad altro.

 

FINE



[1] Cit. Giacomo Leopardi

[2] Cit. Omero, Iliade.





Tanks to
 momo_ : Sulle storie romantiche sono stata sempre scettica anche io, anche perché la filmografia non ha fatto mai niente per vincere lo scetticismo (Serendipity è stato solo l’esempio più smaccato a conferma dei sospetti XD) quindi mi solleva sapere che questo papocchio di tre parti non è banale né scontato! Riguardo la frase sull’affascinante idiozia di certi uomini… si è scritta da sola, non la trovo smentibile in alcun modo XD Insomma, grazie per la recensione e per i complimenti, è una domanda che mi pongo spesso anche io (ovviamente su altri scrittori di EFP, non su di me XD) ma il fatto è che l’editoria in sé quando non mi avvilisce per i suoi meccanismi mi inibisce per altri, quindi credo che sia un cane che si morde la coda e che forse ha ragione davvero Erri De Luca a consigliare tutti di tenersene alla larga quanto più possibile ^^ Consiglio che a quanto pare Moccia ha seguito alla lettera, a quanto pare! (sarcasmo mode: on) Anyway, grazie ancora per esserti dedicata alla lettura di Piccole mani =) [1] Cit. Giacomo Leopardi [2] Cit. Omero, Iliade.

  
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