Prologo
Sapevo
che prima o poi sarebbe successo. O meglio, non lo sapevo affatto, ma l’avevo sempre immaginato facilmente. Infondo, perché
un branco di morti doveva rimanermi fedele? A me? Io che li avevo uccisi?
Assurdo.
La cosa
che più mi faceva male era che lei
fosse tra loro, ma era comprensibile. L’avevo uccisa come tutti, no? Quindi non
c’era di che meravigliarsi.
Continuai
a correre a perdifiato, anche se, di fatto, il fiato non poteva mancarmi dato
che non avevo bisogno di respirare. Una delle caratteristiche da immortale a
mio favore, forse.
1.
Mille anni senza Amore. Ecco com’era la mia vita. Una
scatola vuota, una giostra rotta, un uomo smembrato. E di uomini ne avevo
smembrati parecchi.
In realtà
smembrare non mi piaceva. Lo trovavo crudele.
La morte era già brutta di per sé, perché renderla ancora più terribile? Eh
già, mille anni e ancora provavo pietà per i miei morti.
D’altronde,
quando ti seguono ovunque tu vada, è impossibile non notarli. Non ti seguono
solo nella tua testa, che basterebbe
a farti impazzire. No, ti seguono come ombre,
perché è proprio questo che sono. Spettri.
E non si stancano mai di starti alle calcagna. Non lo fanno per ripicca, per
farti sentire in colpa. E’ la loro
eternità. La mia era diversa.
Ero
semplicemente destinato a bramare sangue e uccidere, uccidere e bramare ancora
sangue. Una vita schifosa, insoddisfacente. Uccidere non era d’obbligo, ma
l’avevo imparato solo di recente. Dopo mille anni. Seicentosettantasei, ad essere pignoli. Ecco perché mi trovavo attorniato
da migliaia di morti. Diecimila, per
l’esattezza. Non avevo mai smesso di contarli, mai. Volevo provare vergogna per
quel numero, rinfacciarmelo di giorno in giorno, e, di fatto, lo facevo. Ma non
avevo mai potuto evitare di uccidere e porre fine ad altre vite. Era la mia
natura, il mio istinto. Ero stato creato
per uccidere.
« Allora
capo? Qual è la prossima tappa? ».
Sospirai.
« Ti ho detto di non chiamarmi mai così ».
Ethan mi
guardò quasi preoccupato, poi annuì. « Scusami ».
Era da
anni ormai che viaggiava con me e ancora non capiva. Non mi capiva.
Non era
come le altre anime spente. Lui era come me, solo che l’avevo creato io. Era stato tutto un banale errore.
Sapevo che per trasformare un umano in un vampiro occorresse bere da lui
regolarmente, l’ultimo morso mortale. Con lui era stato diverso.
Come
sempre, mi ero ridotto alla fame – non mi nutrivo da mesi – e, benché cercassi di evitare i bambini, quella sera non
avevo potuto resistere alla sete. Lui era lì, solo, in un vicolo buio. Non mi
ero nemmeno reso conto di essermi gettato addosso a lui e di aver cominciato a
succhiare avidamente il suo sangue. Me ne ero reso conto troppo tardi, quando
ormai bastava un sorso per dissanguarlo completamente. Ma io avevo resistito a
quell’ultimo sorso e avevo ripreso il controllo di me. Era svenuto, inerte tra
le mie braccia e sentivo ancora il suo cuore battere flebilmente, lentamente,
quando si fermò. Ero rimasto ancora lì, a tenerlo tra le braccia, a sentirlo
morire, ma quella volta l’anima non aveva lasciato il suo corpo, non l’avevo
vista uscire per mettersi in fila dietro a tutte le altre. Dopo pochi secondi
il cuore aveva ricominciato a battere fortissimo e aveva spalancato gli occhi
color del cielo. Mi aveva fissato e mi aveva sussurrato: «Brucia». Era la gola
che gli bruciava, sfinito dalla sete. Ricordavo perfettamente quella sensazione
appena sveglio dopo la mia
trasformazione.
Era stata
la causa del mio primo spettro.
«
Insomma, quale ragazza ti ha invitata oggi a “studiare”? », mi chiese ancora, accompagnando
la parola ‘studiare’ con il segno delle virgolette con le dita.
« Non la
conosci », risposi vago.
« Come
sempre! », ridacchiò.
Scrollai
le spalle. « Sai che non posso nutrirmi più di una volta dalla stessa ».
Altrimenti sarebbe successo esattamente quello che era accaduto a Ethan, anche
se a lui era bastato un solo morso quasi
mortale. « E poi, ho una reputazione da difendere ».
« Ah già,
dimenticavo. Essere il figo del liceo è molto impegnativo ».
So che
può sembrare ipocrita sfruttare delle ragazze, ma era l’unico metodo che avevo
escogitato per non uccidere. Invece di aspettare mesi e ingozzarmi, mi nutrivo
regolarmente e poco. E poi, erano le ragazze a invitarmi a studiare da loro
quando in casa non c’era nessuno e a orari tardi. Non era mica colpa mia se ero
tremendamente attraente!
« E tu?
», domandai curioso. Ogni giorno ne inventava una diversa. L’altro giorno era
un orfanello scappato da un orfanotrofio in cerca di cibo. Ieri si era fatto
male il ginocchio e, con la scusa di farsi medicare, si era intrufolato in casa
di una vecchia signora cortese.
« Sono un
bimbo che ha perso la mamma », mugugnò con voce infantile facendo gli occhi da
cerbiatto impaurito.
Scoppiai
a ridere. « Stai diventando un vero attore », mi complimentai scompigliandogli
i capelli.
« Non
trattarmi come se fossi un neonato », borbottò.
Risi. Era
inutile ricordargli che esteticamente aveva solo dieci anni. Era così da quasi
cento anni, ormai, quindi la sua mentalità non era certo quella di un bambino.
Aveva visto cose che nessun bambino di dieci anni aveva mai visto. Eppure, non
aveva mai ucciso. Mai. Gli avevo sempre insegnato a moderare la sua sete,
quella stessa sete che io faticavo a controllare, prima. Ora ero abbastanza
esperto da poter rimanere digiuno un mese e non uccidere nessuno. Ci avevo
provato, ma preferivo nutrirmi regolarmente, come dicevo.
Alzai lo
sguardo e vidi tutti gli spettri levitare sopra la mia testa, semitrasparenti.
Ethan non poteva vederli. Ogni vampiro vedeva solo i suoi morti.
« Come
stanno? », mi chiese, osservandomi bene in volto.
Forse non
era vero che non mi capiva.
Scrollai
le spalle. « E chi lo sa. Mi ricordano tanto i dannati del Limbo, destinati
soltanto a sospirare per l’eternità. Loro, invece, non sospirano neanche ».
Il suo
sguardo non lasciò il mio volto nemmeno per un istante. Poi scosse il capo. «
Prima che arrivassi io… non ti facevano compagnia? ».
Non ne
avevamo mai parlato, nonostante ci conoscessimo da cento anni. Forse perché
evitavo sempre l’argomento. Sempre.
No, non
mi erano di compagnia. Mi ricordavano solo di essere un mostro incontrollabile.
« Hai
intenzione di entrare con me? », gli domandai, fermandomi davanti al portone di
un palazzo, alzando un sopracciglio.
Sbuffò.
Sapevo di demoralizzarlo con il mio comportamento, ma non potevo farci niente
se non volevo parlarne. Il mio passato rimaneva passato.
« No, me
ne vado, me ne vado! », cominciò ad avviarsi dal lato opposto.
« Solita
ora solito posto? », gli urlai dietro.
Si limitò
a salutarmi con la mano senza neanche voltarsi.
Bussai al
citofono e attesi che mi aprissero. Uno scatto e spinsi il portone. Era strano
che una come… com’è che si chiamava? Betty? Blake? Barbie? Che importanza
aveva?
Salii le
scale, sapevo a che piano abitava perché me l’aveva ripetuto venti volte dopo
aver accettato il suo invito. Ricordavo ancora il suo viso illuminato dalla
contentezza. Era facile soddisfare le ragazzine che sbavavano per me.
La porta
dell’appartamento era socchiusa, un lieve bagliore illuminava il corridoio
addobbato da quadri di pittori famosi. Ecco, ora riconoscevo la figlia di papà
con cui me la stavo per fare!
«
Permesso », domandai cortese.
« Vieni
Kian, sono in camera mia », rispose la voce da oca di… proprio non mi ricordavo
il suo nome. Be’, non me li ricordavo mai.
Avanzai
ancora e intravidi una figura snella specchiarsi in uno specchio enorme che
doveva ricoprire tutta la parete della stanza.
Dannazione!
Gli specchi non mi piacevano proprio per niente. Il mio riflesso si vedeva
sfocato, quando ero in forze, e non c’era proprio quando non mi nutrivo da
tempo.
La
ragazza indossava un jeans aderente e un top scollato. Le sue intenzioni erano
chiare. Sarebbe stato facile, come sempre.
Bussai
alla porta, prendendola alla sprovvista. I suoi capelli biondi si girarono con
un movimento veloce.
« Mi hai
spaventata », disse avvicinandosi sorridendo. Non potei fare a meno di notare
il movimento ampio dei suoi fianchi. Eh già, sarebbe stato facilissimo.
« Scusa,
non volevo ». Risposi al suo sorriso con un occhiolino che la fece andare
letteralmente in tilt.
« Ehm…
Cominciamo con matematica? », domandò abbagliata.
« Certo
».
Si girò
sculettando esageratamente e mi indicò di accomodarmi su una delle due sedie
poste di fronte allo scrittoio. Mi sedetti e lei si sedette vicino a me. Cominciammo
a fare qualche compito, parlando del più e del meno. O meglio, lei parlava.
Della manicure mancata ieri, del parrucchiere che le sbavava dietro, quel
ragazzo bruttino che l’assillava… Noia, noia e ancora noia. Possibile che ogni
ragazza che “frequentavo” parlasse sempre delle stesse cose? Era vero che ero
la preda di tutte loro, dato che quelle meno carine delle snob provavano una
sorta di intimidazione. Istinto di
sopravvivenza, lo chiamavo io. Peccato che nessuna di loro sapesse che io
ero il predatore, non la preda.
« Vuoi
qualcosa da bere? », mi domandò all’improvviso.
Acconsentii
con un cenno del capo.
Alzandosi,
fece cadere il quaderno di matematica – apposta – a terra.
« Ops! ».
Si curvò in avanti per prenderlo da terra, lasciandomi godere della visuale del
suo fondoschiena perfettamente modellato. Patetico.
Ma era
l’occasione che stavo cercando. Posò il quaderno sulla scrivania e io le
sfiorai una mano con la mia. I suoi occhi incontrarono i miei.
« Credo
di preferire altro alle bibite », sussurrai suadente.
Sapevo
che il mio sguardo stava diventando magnetico. Lo capivo dal suo sguardo,
sempre più vacuo e vuoto.
Sorrisi
soddisfatto. Era fatta.
Chinò il
capo di lato per scoprire maggiormente un lato del collo. Si sedette
addirittura sulle mie ginocchia. Era così facile da manovrare che le avrei
potuto far fare tutto.
La
mantenni per le spalle e le annusai il collo, il profumo del sangue era così
dolce e speziato…
Sentii i
canini allungarsi. Ricordavo i primi tempi, quando quel processo di allungamento
era molto doloroso. Ora neanche lo percepivo più.
Affondai
con un colpo ben deciso nel suo collo e cominciai a succhiare dolcemente il suo
sangue. Da quando non dovevo uccidere le mie vittime, me la prendevo con molto
comodo.
Ogni
sorso scendeva lentamente nella mia gola, caldo, ristoratore. Ogni sorso mi
donava la vita. Quella stessa vita
che avevo perso seicentosettantasei anni fa.
Ritrassi
i canini e le leccai i piccoli fori sul collo per farli rimarginare. Erano
quasi invisibili, dopo.
Il suo corpo
era ancora sotto il mio controllo, ora più potente di prima. La feci sedere
sulla sua sedia e le cancellai la memoria di ogni momento con me. Poi uscii da
quella casa in silenzio, mentre la sentivo sussurrare stranita: « Che stavo
facendo poco fa? ».
Ormai per
strada, mi misi le mani nelle tasche del giubbotto di pelle e mi inoltrai per
le strade del centro. I negozi erano ancora aperti, diffondendo la luce sui
marciapiedi.
Famiglie
beate, serene, facevano ancora compere, mangiavano fuori, godevano della
reciproca compagnia.
Potrà
sembrare strano per uno nato nel XIV secolo ritrovarsi catapultato nel XXI. Io
avevo visto il proseguirsi dei secoli, li avevo vissuti, e ogni volta mi ci
avevo dovuto abituare. Non potevo sembrare la mosca bianca in un mucchio di
mosche nere. Dovevo sembrare come loro,
uguale a tutti gli altri esseri umani.
Era stato più semplice del previsto. Provavo entusiasmo di fronte alle
innovazioni. La tecnologia mi piaceva.
Il parco
giochi era ancora affollato. Avevo fatto prima del previsto, così mi accomodai
su una panchina vuota e osservai i bambini giocare. Bambini piccolissimi, altri
un po’ più grandi, ma tutti così dannatamente piccoli e fragili. Come Ethan.
Come era Ethan.
« Che ci
fai già qui? ».
Mi girai
di scatto verso destra, preso in contropiede. Ero così perso a pensare da non
aver sentito i suoi passi. Perdevo colpi.
« Ho
fatto presto », risposi.
Si
sedette vicino a me. « Non te la sei spassata questa volta? ».
Certo che
la curiosità di un bambino non passa mai, eh?
« E tu che
ci fai già qui? », rimbeccai.
Scrollò
le spalle. « Non mi andava di ingannare l’ennesima vecchietta ».
Non capii
cosa volesse dire. Non subito, almeno. « Non ti sei nutrito? », domandai
scettico.
« No ».
Guardava
in lontananza, verso i bambini che giocavano ma senza vederli veramente.
« Cosa
sta macchinando la tua testolina? ».
Si rigirò
i pollici, incerto se parlare o meno. « Non voglio far soffrire altre persone,
Kian », confessò senza guardarmi.
« Non
capisco. Sai benissimo che non provano nessun dolore ». Non per niente li
ipnotizzavamo.
« Sì, lo
so, però… Ho paura di perdere il controllo, ogni volta. Non voglio uccidere ».
Sembrava
terrorizzato. Non capivo perché me ne stesse parlando adesso.
«
Continuo a non capire. Non hai mai ucciso nessuno, hai un controllo
eccezionale, un’esperienza di cento anni e tu ora hai paura di perdere il controllo? ».
Sospirò.
« All’inizio odiavo ogni essere umano per tutto quello che mi avevano sempre
fatto i miei genitori », cominciò. Già, Ethan aveva avuto l’infanzia più brutta
che avessi mai conosciuto. Era paragonabile solo a quella che subivano i
bambini che venivano picchiati al posto dei “principini” al mio tempo.
I
genitori di Ethan avevano solo lui. Erano entrambi drogati e alcolizzati, i
soliti hippie sfigati che si sfondano di hashish e coca e quando tornano a casa
stanno così fuori da picchiare il loro bambino, accoltellarlo, tagliarlo per il
puro sfizio di vederlo soffrire senza neanche rendersene conto. Questa era la
routine di Ethan da vivo. Ogni giorno era solo, in quella casa da incubo, e
ogni sera doveva subire gli abusi dei genitori. Per questo quella sera l’avevo
trovato solo nel vicolo buio, in tarda serata. Stava fuggendo dai suoi
genitori. Stava ritardando il ritorno a casa.
« Però ti
ho visto uccidere, Kian. E’ orribile ».
Mi sentii
colpito al centro del petto. Non avevo mai permesso che mi vedesse uccidere,
mai. Sapevo che la sua sensibilità era già turbata, non volevo peggiorare la
situazione. E invece, lui mi aveva visto.
Forse
colse il mio dolore sul volto, perché aggiunse subito: « Non te ne faccio una
colpa. Anzi, ti ringrazierò in eterno per avermi reso come sono oggi. Mi hai
cresciuto, Kian. Ti considero un fratello maggiore, lo sai ».
Ethan
aveva sempre dimostrato di gradire la sua natura di vampiro. Non mi aveva mai
fatto pesare il mio errore, anzi. Ero io che mi facevo i problemi al posto suo.
«
Cos’avresti intenzione di fare? », gli chiesi con voce totalmente distaccata.
Si girò
verso di me e mi guardò in viso. Sapeva che quando usavo quel tono voleva dire
che volevo solo nascondere ciò che provavo.
« Non lo
so. Pensavo di diventare vegetariano ».
Scoppiai
a ridere amaramente. « Non ti ho mai raccontato del mio periodo “vegetariano”?
».
Be’, in
mille anni si prova di tutto.
« Non
riuscirai a vivere per più di quattro mesi con il sangue di animale. Ti
porterai affamato e ucciderai la prima persona che ti troverai di fronte. E’
questo che vuoi? ».
« Stai
solo cercando di spaventarmi ».
No, era
la pura verità. Era quello che era successo a me.
Non
risposi. Non ce n’era bisogno, avrebbe capito da sé.
Le mamme
stavano cominciando a richiamare i propri bambini per tornare a casa. Si stava
facendo sempre più tardi. Mancava ancora poco, dopodiché non ci sarebbe stato
più nessuno e quel parco giochi sarebbe diventato un luogo dimenticato.
Mi alzai
dalla panchina e mi sgranchii le braccia e le gambe, benché non ne avessi
bisogno. Però mi piaceva conservare la mia umanità, quel poco che ne rimaneva.
Si era evoluta, ora mi potevo definire moderno,
anche se ancora alcune cose non le capivo e accettavo.
Il mondo
moderno era così sporco.
Quando il
parco giochi fu silenzioso, mi sedetti su un’altalena e cominciai a dondolarmi.
Mi rilassava. Il vento mi attraversava i capelli, faceva muovere le fronde
degli alberi e mi sussurrava all’orecchio.
« Sei
particolarmente malinconico oggi », notò Ethan, come se se ne fosse accorto
solo in quel momento.
« Dopo
mille anni, la vita tende a diventare monotona ».
Era la
cosa più scontata che potessi rispondere, ma in assoluto la più vera.
« Dopo
cento anni, la vita con te è ancora sorprendente ».
Lo
guardai. « Sei in vena di sentimentalismi? »
Rise. «
Ma quanto sei antipatico! ».
Risi anch’io. Ethan era in assoluto la persona migliore che avessi mai
conosciuto.
« Ehi
scricciolo, che ne dici di tornare a casa? », proposi.
Alzò gli
occhi al cielo per il nomignolo, ma non mi fece notare che non lo sopportava. «
Ancora un altro po’ ».
Rimanemmo
in silenzio fino a quando non ritornammo a casa, ognuno perso nei propri
pensieri.
Strano
che avessi ancora cose a cui pensare.