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Autore: x__Koizumi    30/08/2010    3 recensioni
Mille anni senza Amore. Ecco com’era la mia vita. Una scatola vuota, una giostra rotta, un uomo smembrato. E di uomini ne avevo smembrati parecchi.
Genere: Azione, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Prologo

 

Sapevo che prima o poi sarebbe successo. O meglio, non lo sapevo affatto, ma l’avevo sempre immaginato facilmente. Infondo, perché un branco di morti doveva rimanermi fedele? A me? Io che li avevo uccisi?

Assurdo.

La cosa che più mi faceva male era che lei fosse tra loro, ma era comprensibile. L’avevo uccisa come tutti, no? Quindi non c’era di che meravigliarsi.

Continuai a correre a perdifiato, anche se, di fatto, il fiato non poteva mancarmi dato che non avevo bisogno di respirare. Una delle caratteristiche da immortale a mio favore, forse.

 

 

 

1.

 

 

 

Mille anni senza Amore. Ecco com’era la mia vita. Una scatola vuota, una giostra rotta, un uomo smembrato. E di uomini ne avevo smembrati parecchi.

In realtà smembrare non mi piaceva. Lo trovavo crudele. La morte era già brutta di per sé, perché renderla ancora più terribile? Eh già, mille anni e ancora provavo pietà per i miei morti.

D’altronde, quando ti seguono ovunque tu vada, è impossibile non notarli. Non ti seguono solo nella tua testa, che basterebbe a farti impazzire. No, ti seguono come ombre, perché è proprio questo che sono. Spettri. E non si stancano mai di starti alle calcagna. Non lo fanno per ripicca, per farti sentire in colpa. E’ la loro eternità. La mia era diversa.

Ero semplicemente destinato a bramare sangue e uccidere, uccidere e bramare ancora sangue. Una vita schifosa, insoddisfacente. Uccidere non era d’obbligo, ma l’avevo imparato solo di recente. Dopo mille anni. Seicentosettantasei, ad essere pignoli. Ecco perché mi trovavo attorniato da migliaia di morti. Diecimila, per l’esattezza. Non avevo mai smesso di contarli, mai. Volevo provare vergogna per quel numero, rinfacciarmelo di giorno in giorno, e, di fatto, lo facevo. Ma non avevo mai potuto evitare di uccidere e porre fine ad altre vite. Era la mia natura, il mio istinto. Ero stato creato per uccidere.

« Allora capo? Qual è la prossima tappa? ».

Sospirai. « Ti ho detto di non chiamarmi mai così ».

Ethan mi guardò quasi preoccupato, poi annuì. « Scusami ».

Era da anni ormai che viaggiava con me e ancora non capiva. Non mi capiva.

Non era come le altre anime spente. Lui era come me, solo che l’avevo creato io. Era stato tutto un banale errore. Sapevo che per trasformare un umano in un vampiro occorresse bere da lui regolarmente, l’ultimo morso mortale. Con lui era stato diverso.

Come sempre, mi ero ridotto alla fame – non mi nutrivo da mesi – e, benché cercassi di evitare i bambini, quella sera non avevo potuto resistere alla sete. Lui era lì, solo, in un vicolo buio. Non mi ero nemmeno reso conto di essermi gettato addosso a lui e di aver cominciato a succhiare avidamente il suo sangue. Me ne ero reso conto troppo tardi, quando ormai bastava un sorso per dissanguarlo completamente. Ma io avevo resistito a quell’ultimo sorso e avevo ripreso il controllo di me. Era svenuto, inerte tra le mie braccia e sentivo ancora il suo cuore battere flebilmente, lentamente, quando si fermò. Ero rimasto ancora lì, a tenerlo tra le braccia, a sentirlo morire, ma quella volta l’anima non aveva lasciato il suo corpo, non l’avevo vista uscire per mettersi in fila dietro a tutte le altre. Dopo pochi secondi il cuore aveva ricominciato a battere fortissimo e aveva spalancato gli occhi color del cielo. Mi aveva fissato e mi aveva sussurrato: «Brucia». Era la gola che gli bruciava, sfinito dalla sete. Ricordavo perfettamente quella sensazione appena sveglio dopo la mia trasformazione.

Era stata la causa del mio primo spettro.

« Insomma, quale ragazza ti ha invitata oggi a “studiare”? », mi chiese ancora, accompagnando la parola ‘studiare’ con il segno delle virgolette con le dita.

« Non la conosci », risposi vago.

« Come sempre! », ridacchiò.

Scrollai le spalle. « Sai che non posso nutrirmi più di una volta dalla stessa ». Altrimenti sarebbe successo esattamente quello che era accaduto a Ethan, anche se a lui era bastato un solo morso quasi mortale. « E poi, ho una reputazione da difendere ».

« Ah già, dimenticavo. Essere il figo del liceo è molto impegnativo ».

So che può sembrare ipocrita sfruttare delle ragazze, ma era l’unico metodo che avevo escogitato per non uccidere. Invece di aspettare mesi e ingozzarmi, mi nutrivo regolarmente e poco. E poi, erano le ragazze a invitarmi a studiare da loro quando in casa non c’era nessuno e a orari tardi. Non era mica colpa mia se ero tremendamente attraente!

« E tu? », domandai curioso. Ogni giorno ne inventava una diversa. L’altro giorno era un orfanello scappato da un orfanotrofio in cerca di cibo. Ieri si era fatto male il ginocchio e, con la scusa di farsi medicare, si era intrufolato in casa di una vecchia signora cortese.

« Sono un bimbo che ha perso la mamma », mugugnò con voce infantile facendo gli occhi da cerbiatto impaurito.

Scoppiai a ridere. « Stai diventando un vero attore », mi complimentai scompigliandogli i capelli.

« Non trattarmi come se fossi un neonato », borbottò.

Risi. Era inutile ricordargli che esteticamente aveva solo dieci anni. Era così da quasi cento anni, ormai, quindi la sua mentalità non era certo quella di un bambino. Aveva visto cose che nessun bambino di dieci anni aveva mai visto. Eppure, non aveva mai ucciso. Mai. Gli avevo sempre insegnato a moderare la sua sete, quella stessa sete che io faticavo a controllare, prima. Ora ero abbastanza esperto da poter rimanere digiuno un mese e non uccidere nessuno. Ci avevo provato, ma preferivo nutrirmi regolarmente, come dicevo.

Alzai lo sguardo e vidi tutti gli spettri levitare sopra la mia testa, semitrasparenti. Ethan non poteva vederli. Ogni vampiro vedeva solo i suoi morti.

« Come stanno? », mi chiese, osservandomi bene in volto.

Forse non era vero che non mi capiva.

Scrollai le spalle. « E chi lo sa. Mi ricordano tanto i dannati del Limbo, destinati soltanto a sospirare per l’eternità. Loro, invece, non sospirano neanche ».

Il suo sguardo non lasciò il mio volto nemmeno per un istante. Poi scosse il capo. « Prima che arrivassi io… non ti facevano compagnia? ».

Non ne avevamo mai parlato, nonostante ci conoscessimo da cento anni. Forse perché evitavo sempre l’argomento. Sempre.

No, non mi erano di compagnia. Mi ricordavano solo di essere un mostro incontrollabile.

« Hai intenzione di entrare con me? », gli domandai, fermandomi davanti al portone di un palazzo, alzando un sopracciglio.

Sbuffò. Sapevo di demoralizzarlo con il mio comportamento, ma non potevo farci niente se non volevo parlarne. Il mio passato rimaneva passato.

« No, me ne vado, me ne vado! », cominciò ad avviarsi dal lato opposto.

« Solita ora solito posto? », gli urlai dietro.

Si limitò a salutarmi con la mano senza neanche voltarsi.

Bussai al citofono e attesi che mi aprissero. Uno scatto e spinsi il portone. Era strano che una come… com’è che si chiamava? Betty? Blake? Barbie? Che importanza aveva?

Salii le scale, sapevo a che piano abitava perché me l’aveva ripetuto venti volte dopo aver accettato il suo invito. Ricordavo ancora il suo viso illuminato dalla contentezza. Era facile soddisfare le ragazzine che sbavavano per me.

La porta dell’appartamento era socchiusa, un lieve bagliore illuminava il corridoio addobbato da quadri di pittori famosi. Ecco, ora riconoscevo la figlia di papà con cui me la stavo per fare!

« Permesso », domandai cortese.

« Vieni Kian, sono in camera mia », rispose la voce da oca di… proprio non mi ricordavo il suo nome. Be’, non me li ricordavo mai.

Avanzai ancora e intravidi una figura snella specchiarsi in uno specchio enorme che doveva ricoprire tutta la parete della stanza.

Dannazione! Gli specchi non mi piacevano proprio per niente. Il mio riflesso si vedeva sfocato, quando ero in forze, e non c’era proprio quando non mi nutrivo da tempo.

La ragazza indossava un jeans aderente e un top scollato. Le sue intenzioni erano chiare. Sarebbe stato facile, come sempre.

Bussai alla porta, prendendola alla sprovvista. I suoi capelli biondi si girarono con un movimento veloce.

« Mi hai spaventata », disse avvicinandosi sorridendo. Non potei fare a meno di notare il movimento ampio dei suoi fianchi. Eh già, sarebbe stato facilissimo.

« Scusa, non volevo ». Risposi al suo sorriso con un occhiolino che la fece andare letteralmente in tilt.

« Ehm… Cominciamo con matematica? », domandò abbagliata.

« Certo ».

Si girò sculettando esageratamente e mi indicò di accomodarmi su una delle due sedie poste di fronte allo scrittoio. Mi sedetti e lei si sedette vicino a me. Cominciammo a fare qualche compito, parlando del più e del meno. O meglio, lei parlava. Della manicure mancata ieri, del parrucchiere che le sbavava dietro, quel ragazzo bruttino che l’assillava… Noia, noia e ancora noia. Possibile che ogni ragazza che “frequentavo” parlasse sempre delle stesse cose? Era vero che ero la preda di tutte loro, dato che quelle meno carine delle snob provavano una sorta di intimidazione. Istinto di sopravvivenza, lo chiamavo io. Peccato che nessuna di loro sapesse che io ero il predatore, non la preda.

« Vuoi qualcosa da bere? », mi domandò all’improvviso.

Acconsentii con un cenno del capo.

Alzandosi, fece cadere il quaderno di matematica – apposta – a terra.

« Ops! ». Si curvò in avanti per prenderlo da terra, lasciandomi godere della visuale del suo fondoschiena perfettamente modellato. Patetico.

Ma era l’occasione che stavo cercando. Posò il quaderno sulla scrivania e io le sfiorai una mano con la mia. I suoi occhi incontrarono i miei.

« Credo di preferire altro alle bibite », sussurrai suadente.

Sapevo che il mio sguardo stava diventando magnetico. Lo capivo dal suo sguardo, sempre più vacuo e vuoto.

Sorrisi soddisfatto. Era fatta.

Chinò il capo di lato per scoprire maggiormente un lato del collo. Si sedette addirittura sulle mie ginocchia. Era così facile da manovrare che le avrei potuto far fare tutto.

La mantenni per le spalle e le annusai il collo, il profumo del sangue era così dolce e speziato…

Sentii i canini allungarsi. Ricordavo i primi tempi, quando quel processo di allungamento era molto doloroso. Ora neanche lo percepivo più.

Affondai con un colpo ben deciso nel suo collo e cominciai a succhiare dolcemente il suo sangue. Da quando non dovevo uccidere le mie vittime, me la prendevo con molto comodo.

Ogni sorso scendeva lentamente nella mia gola, caldo, ristoratore. Ogni sorso mi donava la vita. Quella stessa vita che avevo perso seicentosettantasei anni fa.

Ritrassi i canini e le leccai i piccoli fori sul collo per farli rimarginare. Erano quasi invisibili, dopo.

Il suo corpo era ancora sotto il mio controllo, ora più potente di prima. La feci sedere sulla sua sedia e le cancellai la memoria di ogni momento con me. Poi uscii da quella casa in silenzio, mentre la sentivo sussurrare stranita: « Che stavo facendo poco fa? ».

Ormai per strada, mi misi le mani nelle tasche del giubbotto di pelle e mi inoltrai per le strade del centro. I negozi erano ancora aperti, diffondendo la luce sui marciapiedi.

Famiglie beate, serene, facevano ancora compere, mangiavano fuori, godevano della reciproca compagnia.

Potrà sembrare strano per uno nato nel XIV secolo ritrovarsi catapultato nel XXI. Io avevo visto il proseguirsi dei secoli, li avevo vissuti, e ogni volta mi ci avevo dovuto abituare. Non potevo sembrare la mosca bianca in un mucchio di mosche nere. Dovevo sembrare come loro, uguale a tutti gli altri esseri umani. Era stato più semplice del previsto. Provavo entusiasmo di fronte alle innovazioni. La tecnologia mi piaceva.

Il parco giochi era ancora affollato. Avevo fatto prima del previsto, così mi accomodai su una panchina vuota e osservai i bambini giocare. Bambini piccolissimi, altri un po’ più grandi, ma tutti così dannatamente piccoli e fragili. Come Ethan. Come era Ethan.

« Che ci fai già qui? ».

Mi girai di scatto verso destra, preso in contropiede. Ero così perso a pensare da non aver sentito i suoi passi. Perdevo colpi.

« Ho fatto presto », risposi.

Si sedette vicino a me. « Non te la sei spassata questa volta? ».

Certo che la curiosità di un bambino non passa mai, eh?

« E tu che ci fai già qui? », rimbeccai.

Scrollò le spalle. « Non mi andava di ingannare l’ennesima vecchietta ».

Non capii cosa volesse dire. Non subito, almeno. « Non ti sei nutrito? », domandai scettico.

« No ».

Guardava in lontananza, verso i bambini che giocavano ma senza vederli veramente.

« Cosa sta macchinando la tua testolina? ».

Si rigirò i pollici, incerto se parlare o meno. « Non voglio far soffrire altre persone, Kian », confessò senza guardarmi.

« Non capisco. Sai benissimo che non provano nessun dolore ». Non per niente li ipnotizzavamo.

« Sì, lo so, però… Ho paura di perdere il controllo, ogni volta. Non voglio uccidere ».

Sembrava terrorizzato. Non capivo perché me ne stesse parlando adesso.

« Continuo a non capire. Non hai mai ucciso nessuno, hai un controllo eccezionale, un’esperienza di cento anni e tu ora hai paura di perdere il controllo? ».

Sospirò. « All’inizio odiavo ogni essere umano per tutto quello che mi avevano sempre fatto i miei genitori », cominciò. Già, Ethan aveva avuto l’infanzia più brutta che avessi mai conosciuto. Era paragonabile solo a quella che subivano i bambini che venivano picchiati al posto dei “principini” al mio tempo.

I genitori di Ethan avevano solo lui. Erano entrambi drogati e alcolizzati, i soliti hippie sfigati che si sfondano di hashish e coca e quando tornano a casa stanno così fuori da picchiare il loro bambino, accoltellarlo, tagliarlo per il puro sfizio di vederlo soffrire senza neanche rendersene conto. Questa era la routine di Ethan da vivo. Ogni giorno era solo, in quella casa da incubo, e ogni sera doveva subire gli abusi dei genitori. Per questo quella sera l’avevo trovato solo nel vicolo buio, in tarda serata. Stava fuggendo dai suoi genitori. Stava ritardando il ritorno a casa.

« Però ti ho visto uccidere, Kian. E’ orribile ».

Mi sentii colpito al centro del petto. Non avevo mai permesso che mi vedesse uccidere, mai. Sapevo che la sua sensibilità era già turbata, non volevo peggiorare la situazione. E invece, lui mi aveva visto.

Forse colse il mio dolore sul volto, perché aggiunse subito: « Non te ne faccio una colpa. Anzi, ti ringrazierò in eterno per avermi reso come sono oggi. Mi hai cresciuto, Kian. Ti considero un fratello maggiore, lo sai ».

Ethan aveva sempre dimostrato di gradire la sua natura di vampiro. Non mi aveva mai fatto pesare il mio errore, anzi. Ero io che mi facevo i problemi al posto suo.

« Cos’avresti intenzione di fare? », gli chiesi con voce totalmente distaccata.

Si girò verso di me e mi guardò in viso. Sapeva che quando usavo quel tono voleva dire che volevo solo nascondere ciò che provavo.

« Non lo so. Pensavo di diventare vegetariano ».

Scoppiai a ridere amaramente. « Non ti ho mai raccontato del mio periodo “vegetariano”? ».

Be’, in mille anni si prova di tutto.

« Non riuscirai a vivere per più di quattro mesi con il sangue di animale. Ti porterai affamato e ucciderai la prima persona che ti troverai di fronte. E’ questo che vuoi? ».

« Stai solo cercando di spaventarmi ».

No, era la pura verità. Era quello che era successo a me.

Non risposi. Non ce n’era bisogno, avrebbe capito da sé.

Le mamme stavano cominciando a richiamare i propri bambini per tornare a casa. Si stava facendo sempre più tardi. Mancava ancora poco, dopodiché non ci sarebbe stato più nessuno e quel parco giochi sarebbe diventato un luogo dimenticato.

Mi alzai dalla panchina e mi sgranchii le braccia e le gambe, benché non ne avessi bisogno. Però mi piaceva conservare la mia umanità, quel poco che ne rimaneva. Si era evoluta, ora mi potevo definire moderno, anche se ancora alcune cose non le capivo e accettavo.

Il mondo moderno era così sporco.

Quando il parco giochi fu silenzioso, mi sedetti su un’altalena e cominciai a dondolarmi. Mi rilassava. Il vento mi attraversava i capelli, faceva muovere le fronde degli alberi e mi sussurrava all’orecchio.

« Sei particolarmente malinconico oggi », notò Ethan, come se se ne fosse accorto solo in quel momento.

« Dopo mille anni, la vita tende a diventare monotona ».

Era la cosa più scontata che potessi rispondere, ma in assoluto la più vera.

« Dopo cento anni, la vita con te è ancora sorprendente ».

Lo guardai. « Sei in vena di sentimentalismi? »

Rise. « Ma quanto sei antipatico! ».
Risi anch’io. Ethan era in assoluto la persona migliore che avessi mai conosciuto.

« Ehi scricciolo, che ne dici di tornare a casa? », proposi.

Alzò gli occhi al cielo per il nomignolo, ma non mi fece notare che non lo sopportava. « Ancora un altro po’ ».

Rimanemmo in silenzio fino a quando non ritornammo a casa, ognuno perso nei propri pensieri.

Strano che avessi ancora cose a cui pensare.

 

  
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