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Autore: deliradubbiosa    13/09/2010    2 recensioni
Un breve sguardo alla vita di Alice prima della trasformazione.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio, James
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Portai velocemente fuori, sul retro, il corpo dissanguato dell'uomo. Spostai la grossa roccia che copriva la buca e scaraventai nella buca stessa il nuovo cadavere, sopra quello della giovane donna il cui sangue mi era servito da nutrimento poco prima. Ero sazio, finalmente. Mi rimisi le lenti scure e tornai dentro per informare con aria costernata il direttore della morte dei due pazienti. Poi, come al solito, accettai la sua richiesta di occuparmi della loro sepoltura e il direttore, ne ero certo, si rallegrò segretamente di avere a disposizione un medico tanto zelante, che gli risparmiava l'incomodo di occuparsi minimamente dei matti.
La sua noncuranza mi rendeva facile sbarazzarmi dei corpi gettandoli nel vicino Mississippi o in qualche foresta.
A chi importava di questi pazzi? Per il loro essere fuori di senno, erano una macchia nel loro immacolato albero genealogico, un peso per le famiglie. Perciò queste li scaricavano qui, nel manicomio alla periferia di Jackson, da tutto il paese, dimenticandosi di loro. Questo li rendeva prede facili.
Sensi di colpa, pensavo mentre tornavo alla fossa per liberarmi delle due carcasse, non ne provavo mai. Tutt’al più mi trovavo a pensare che da umano mi sarei giudicato un mostro, ma la legge della selezione naturale mi giustificava appieno.
E poi, cos’avrei potuto fare? In un momento di debolezza avevo provato a non nutrirmi, col risultato di accrescere la mia sete e diventare ancora più incontrollato. Non avevo scelta: non potevo non essere un mostro. E comunque, non mi consideravo tale.
Non un mostro: ero un dio.
Raggiunsi velocemente la riva, appesantii i corpi con grossi sassi, infilandoli nelle camicie di forza, e li gettai nel nero del fiume: non sarebbero più riemersi. Tornai al manicomio con la stessa velocità di vampiro, rallentando poi quando fui troppo vicino.
Il mio turno di notte (inutile specificare perché avessi scelto tale orario) era terminato, perciò lasciai il camice sull’attaccapanni e spensi la lampada al neon… che struttura avanzata che era il nostro manicomio, pensai sarcasticamente. Vi si utilizzavano gli ultimi ritrovati della tecnica, dal neon all’elettroshock, ma vi erano lasciati fuori i recenti metodi di psicoanalisi di Freud. L’elettroshock era ritenuto molto più efficace per sedare i pazienti: a nessuno era mai passato per la testa di curarli.
Alzai le spalle. Per quel che mi importava...!
Non potevo però fare a meno di notare la stupidità del genere umano: in quel periodo progrediva velocemente nelle tecniche, ma le usava per autodistruggersi. Tanti erano stati i “progressi” in campo bellico, durante l’appena conclusa guerra che aveva coinvolto nazioni da ogni parte del mondo: dalla mitragliatrice al lanciafiamme, dai gas tossici al carro armato… gli umani avrebbero finito per estinguersi e far morire (chissà se era possibile…) di sete noi vampiri.
Sputai veleno a terra.
Sentii un’auto fermarsi davanti all’ingresso principale del manicomio: non era neanche l’alba, ma erano in tanti a portarci i loro matti negli orari più assurdi per nascondere il disonore di un pazzo in famiglia. Portiere che si aprirono e si chiusero. Passi di tre persone: tranquilli e pesanti, piccoli e nervosi nelle scarpe col tacco, incerti e lenti in tacchi più bassi. Il campanello del manicomio. La porta e il saluto di un infermiere ai nuovi arrivati.
Mi sporsi dall’uscio, curioso di capire chi fossero quei misteriosi visitatori che, a giudicare dal contegno dei passi e dall’assenza di urla, non portavano matti. Che fossero in visita a un familiare? Non era mai capitato.
Il trio era composto da un uomo grasso e barbuto, dall’aria austera, con una grossa catena che legava l’orologio nella tasca del panciotto ai pantaloni, da una donna completamente vestita di nero, con tanto di vecchio cappello con veletta a trama fitta, e da una ragazza. Fu lei ad attirare la mia attenzione. Era graziosa e minuta, ma probabilmente in età da marito. Sotto al giacchino nero indossava un corpetto dall’ampio scollo quadrato, sul viola, una gonna in tinta scura con drappeggi laterali, un paio di stivaletti di pelle neri, alti e a tacco basso, un paio di guanti grigio scuro e un cappellino dello stesso colore, con un fiore viola applicato. L’abbigliamento era fin troppo scuro per un viso così giovane e aggraziato. Osservandolo con più attenzione, però, notai che quel suo volto era scomposto, il viso di chi ha provato un lungo tormento. In virtù forse della sua giovane età, la ragazza non indossava neppure il busto basso e morbido in voga in quegli anni. Teneva gli occhi azzurri bassi a osservare le mani giunte in grembo, i piedi pari e chiusi, i capelli, un po’ più lunghi di quanto prevedeva la moda del periodo, a coprirle il bel viso triste.
Mi fu naturale paragonare la giovinetta a Cassandra: sembrava rassegnata all’apparenza del torto, pur consapevole di avere ragione.
   
 
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