We Heard Broken
Lei canta.
Lei canta nel suo appartamento nel palazzo di fronte, al terzo piano. Con abiti comuni, un paio di jeans e una maglietta a mezze maniche.
Una volta entrò un uomo nella camera, e lei prese il microfono di scatto – sembrava volesse lanciarlo – lo sistemò al suo posto, assieme all'amplificatore. Per una settimana non cantò più.
Poi di nuovo accese lo stereo, e la sua apparecchiatura, e ricominciò.
Pensai che voce più bella non esistesse, e di certo altri erano più intonati di lei, ed erano particolari e magnifici e straordinari interpreti; ma lei cantava con tutto il suo corpo e non esisteva nient'altro che il canto.
Riuscivo a sentirla quel tanto che bastava per rimanere ammaliata, riuscivo a sentirla anche sopra il frastuono della città maledetta, con gli acuti, e i bassi rauchi, e potevo osservarla mentre tirava le tende e fissava di fronte a sé, attraverso gli spiragli delle persiane, con quei palazzi che sovrastavano il suo basso terzo piano, e che coprivano il tramonto e la vita e la strada e le persone.
Era sempre lì, sempre lì al centro dell'universo, a piangere a ridere e urlare. Dal mio palazzo mi sentivo infelice e impotente, con quelle melodie tristi e malinconiche.
Cantò così a lungo, da sola in casa, cantò di maledizioni e dolori che neanche il mondo ricordava dal suo inizio, e cantò con un male addosso che mi fece rizzare i capelli e spuntare la voglia di salvarla da tutto quello, portarla via e mostrarle il bello, l'allegria, la felicità, se la stessa bontà non era già morta a vedere qualcuno morire in quel modo atroce.
Ieri l'ho incontrata mentre stava entrando nel parco in cui viveva, qualcosa sulle sue spalle la derideva e l'abbatteva, reggeva l'amplificatore ed era silenziosa, pensierosa di qualcosa che uccide.
La guardai, mi vide e mi guardò, con curiosità, come doveva guardare chiunque non conoscesse, e voltò la sua testa di nuovo sul suo cammino.
Non le tesi una mano, avevo paura, non l'ho salvata, avevo paura.
Oggi canta. Canta ancora, canta.
Ieri l'ho incontrata e oggi è di nuovo in quella camera, in quella casa, in quel palazzo al terzo piano. A cantare.
Incredibile.
Ho imparato a riconoscere i brani, anche se prima di quando lei prese il microfono tra le mani la prima volta non le avevo mai udite, e ho letto qualche testo, per curiosità, portandomi le mani alla bocca e comprendendo quanto fossero malate in realtà, più di quanto riuscissi a percepire.
E lei è in mezzo a tutta quella nostalgia e frenesia e agonia.
Nessuno può farci niente.
Angolo dell'autrice: Una nuova flash-fic di questa serie. Nulla di che, come sempre, solo un piccolo tributo alla canzone... o forse a qualcosa di più, ma noi non lo sapremo mai. Già.
O forse io lo so già.