Esistono convenzioni che nella vita di un uomo incidono quasi
più della volontà.
Ci sono uomini, soprattutto, che la Storia sembra aver
condannato a prescindere: condannato a un ruolo, a una missione, a un’eterna
infelicità.
Ci pensava, Dean Winchester, mentre saliva sull’Impala quel
tredici maggio duemiladieci: la testa vuota e il cuore a pezzi – oppure la testa
piena di pensieri e di perché e di ricordi, e il cuore bombardato dal senso di
colpa.
Senso di colpa, poi: sarebbe stato più corretto dire che
fosse l’ombra del fallimento.
Chi era, Dean Winchester, in fondo?
Un fallito.
Uno che nella vita non si era mai preso il disturbo di
pensare, perché era sempre stato persino troppo facile permettere a John
di farlo anche per lui.
Se dai a tuo padre il potere di vivere due vite, diventa
scontato e facile imputargli tutte le colpe del mondo.
Era stato John a ficcargli Sammy tra le braccia e John a
fargli credere che quello – e solo quello – fosse il motivo per cui Dean
Winchester era venuto al mondo.
C’era per Sam, per il piccolo Sammy.
E Dean non aveva mai fatto nulla per suggerire il contrario:
mai un atto di ribellione, mai un atto di orgoglio, mai neppure il tentativo di
piazzarsi davanti allo specchio, cercarsi oltre il verde troppo chiaro dei suoi
occhi e darsi la chance della profondità.
Dean era la brutta copia di John Winchester, senza la
determinazione e la cattiveria di un padre che, se non altro, sapeva dare alla
propria caccia un nome.
Perché cacciava, Dean? Per papà. Era persino semplice.
Perché gli piaceva musica tanto antiquata che qualcuno dei
suoi miti era morto persino prima di farsi conoscere? Perché era la musica di
John.
Perché scimmiottava il bello e dannato di un film buono al
più per le cotonature degli anni Sessanta? Perché quella era la mitologia del
macho cui John per primo si era abbeverato.
Sam, però, era diverso. Forse Sam somigliava a Mary, a
quella madre sfuggente ed eroica che nessuno dei due aveva davvero conosciuto.
Forse, se ci fosse stata Mary, Dean sarebbe stato diverso. Sarebbe
riuscito a diventare un eroe. Sarebbe riuscito a salvare Sam.
Ovviamente aveva mancato.
Così, come un cane bastonato, era tornato a Cicero, da una
donna che conosceva appena, ma che forse aveva scelto tra le tante seminate
lungo la strada per quel che aveva intravisto, sebbene negli interstizi di
tregua di una caccia disgraziata: una famiglia.
Lisa aveva un figlio; un bambino che poteva essere il suo, ma
che, soprattutto, desiderava che fosse il suo.
Con Lisa aveva sfiorato da vicino l’autentica essenza del
Dean che non era mai stato; un borghesuccio invisibile, forse, ma che riusciva a
vivere.
A trentadue anni, Dean Winchester nutriva soprattutto questo
terrificante, invincibile sospetto: che fosse diventato quasi vecchio –
senz’altro lo era dentro – senza aver davvero consumato un solo giorno della
propria vita.
Aveva cacciato il Male, d’accordo, ma del Bene cosa aveva
avuto?
Il tredici maggio del duemiladieci, insomma, aveva deciso di
riprendersi almeno un boccone di speranza.
Era primavera e l’aria aveva un buon odore. Dai finestrini
aperti, ti schiaffeggiava un vento quasi caldo, che asciugava le lacrime sulla
pelle senza cancellarle davvero.
Forse non voleva: ecco la verità.
Lisa l’aveva accolto muta. Ben dormiva già. Si sarebbe
svegliato con un estraneo in casa, ma, all’improvviso, quello non sembrava un
problema. Erano vivi e sarebbero stati bene. Insieme.
La primavera era un buon momento per ricominciare a vivere,
per liberarti, come un serpente, di quella vecchia usurata pelle che non ti
somigliava più.
A Cicero, Dean Winchester era diventato Dean Simmons, era
l’uomo di Lisa Braeden e lavorava come meccanico per Jeremy Weber, un omone di
due metri che aveva una risata da educanda vergine, un gran senso dell’umorismo
e che, soprattutto, offriva una paga decente.
Dopo quasi tre decenni di una vita zingara, improbabile,
costellata solo d’incompiute, Dean aveva avuto per la prima volta l’impressione
d’essere padrone del proprio destino.
Era un uomo, aveva una donna, un bambino, un lavoro; un lago
in cui andare a pescare, se ne avesse avuta voglia; amici con cui bere una
birra. Un bar, soprattutto, in cui bere birra senza scambiare informazioni che
sapessero solo della paura della notte e della polvere di una strada infinita.
Bobby, che lo conosceva come un padre e forse meglio di suo
padre, perché John era un eroe, e gli eroi non possono concedersi il lusso di
essere altro – genitori, amanti, amici – aveva rispettato la scelta che gli
aveva letto nello sguardo e non l’aveva più chiamato. Crowley gli aveva concesso
quello che nemmeno la pietà di Dio gli aveva restituito – le gambe – e ora
marciava senz’altro di nuovo per conto proprio, incontro a un orizzonte privo di
luce.
Dean evitava di pensarlo, però, perché altrimenti avrebbe
sentito il senso di colpa sbranargli di nuovo il cuore, perché nessuno gli aveva
insegnato che sopravvivere, a volte, è un esercizio di egoismo.
Quante vite aveva vissuto, Dean? Troppe. Nessuna,
però, fino a quel momento era stata la sua.
Cicero era una città decente per vivere, anche se priva di
attrattive particolari, come Lawrence, Kansas. Forse era proprio quanto, ai suoi
occhi, ne aveva fatta la tana ideale.
Tutte le mattine la sveglia suonava alle sei e mezzo in punto
– e no, non erano gli Asia, quanto un ritmico beep beep che ti trapanava il
cervello.
Allungava un braccio per esorcizzare la tortura, mentre Lisa
si volgeva sul fianco, brontolava qualcosa a mezza bocca e si riassopiva dopo
essersi tirata la trapunta fin sul capo.
Dean abbandonava il letto stordito e, sbadigliando con la
voluttà di un’otaria, raggiungeva il piano inferiore. Ben si affacciava poco
dopo, ancora mezzo addormentato. Avrebbe potuto aspettare Lisa per fare
colazione e dormire un altro po’, ma preferiva il suo, di breakfast, perché era
indigesto, grasso e buono; se ne fregava dei grassi saturi e persino del
buonsenso.
Quello era il loro rito a due. Quella era un’altra tessera
aggiunta al grande mosaico della vita e dell’appartenenza.
Ben l’aveva accolto con una naturalità che l’aveva sorpreso,
quasi fosse un arredo del paesaggio in cui era cresciuto sino a quel momento.
Quando ne aveva domandato – imbarazzato – il conto a Lisa, la risposta era stata
un capolavoro d’eloquenza.
– Gli piaci. Ha avuto un debole per te dalla prima volta in
cui ti ha incontrato. Qual è il problema? Ha chiesto per anni un padre a Babbo
Natale e ora ha una ragione in più per credere che esista. Tutto qui.
– Io non posso fare il padre! – era stata la sua replica
scandalizzata.
Non aveva la più pallida idea di cosa significasse quella
parola, perché John era stato tutto: padre, madre, mito, eroe. Più di
ogni altra cosa, un eroe. Non aveva mai provato a metterlo in discussione. Non
si era mai comportato da figlio.
Lisa aveva sorriso, in quel modo obliquo con cui le donne
imparano a prenderti in giro, a ridere delle tue debolezze senza sputartele in
faccia. Senza crudeltà, con qualcosa di simile, anzi, a un materno compatimento.
– Gli permetti di ridere di me come volto le spalle. Lo stai
già facendo: un’alleanza per soli uomini.
Forse era vero, ed era bello. Forse Dean Winchester
non era nato per fare l’eroe, perché non era fatto della stessa pasta di John,
ma possedeva un talento che a suo padre era sempre mancato: la sollecitudine
protettiva e malinconica del genitore.
Aveva passato due decenni a prendersi cura di Sam quasi fosse
figlio suo, scoprendo troppo tardi la propria vocazione e quella terribile,
ingiusta truffa. Era stato il suo Sammy a sputargliela in faccia; Sammy che
poteva guardarlo dall’alto in basso, perché era diventato un colosso, vaffanculo
a lui.
Sam se n’era andato a ventisette anni: era un uomo. Non aveva
mai avuto davvero bisogno di lui; non quanto Dean aveva sentito, viscerale, la
necessità di tenerselo accanto.
Sam aveva permesso alla propria esasperazione di chiamare la
verità per nome: ne aveva abbastanza di essere trattato come un cucciolo. Non
era un cucciolo, era un compagno. Non era un figlio.
Se Dean aveva bisogno di un figlio, quello non era Sam
Winchester.
Dean aveva davvero bisogno di un figlio? Forse sì, se quel
figlio erano anche una donna una casa una famiglia radici.
Ecco di cosa aveva davvero bisogno per vivere Dean
Winchester: di radici.
A Cicero, nella tarda primavera del duemiladieci, le aveva
trovate.
Lisa lavorava come istruttrice di yoga in una palestra della
zona est della città, lungo la Stringtown Pike. Il quartiere, tranquillo e
borghese, le assicurava una clientela di casalinghe annoiate e chiacchierone,
poco interessate al karma quanto invece sedotte dalla possibilità di guadagnare
contorcendosi la linea invidiabile della Braeden. Una di loro era la moglie del
proprietario dell’autofficina Weber, ed era stato in virtù della sua
intercessione se quel Simmons – un perfetto sconosciuto, per giunta con poche
credenziali – aveva ottenuto subito un posto da meccanico.
Dopo cacciare, lavorare con i motori era l’unica cosa che
Dean sapesse fare davvero bene. Gli riusciva, anzi, persino meglio che non
rischiare ogni volta l’osso del collo per colpa di qualcuno che era già morto,
perché provava autentico piacere nel respirare i fumi di gasolio e benzina sotto
la pancia di un bestione scarburato. Se poi arrivavano a offrirgli una bella
coupé d’epoca da molestare, poteva sentirsi l’uomo più fortunato del pianeta
Terra.
Jeremy era un datore di lavoro esigente ma generoso. Per la
prima volta, anzi, la legittima pretesa di qualcuno non si fondeva a
insindacabili ingiunzioni.
Non aveva figli e non era abbastanza vecchio da poter essere
suo padre, ma tra loro si era innescata quella complicità maschile che solo il
football, una birra e un carburatore possono assicurare. L’aveva persino
invitato a pescare con lui, la domenica, al Red Bridge Marina, località
deprimente almeno quanto affollata da virtuosi dell’amo. Non c’era ancora mai
andato, Dean, perché certi luoghi continuavano a proiettargli dentro le ombre di
avventure che avrebbe preferito dimenticare.
Gli piaceva, piuttosto, passare la domenica mattina a
respirare l’odore della pelle di Lisa, finché Ben non si affacciava a reclamare
attenzioni. Allora, se era una bella giornata, se ne andavano a fare un giro,
loro due. Velocemente, da nessuna parte, ma con la sensazione travolgente
dell’asfalto che consumi in una fuga verso l’infinito.
Ben, poi, adorava gli AC/DC: forse era il primo passeggero
che occupasse quel posto – il sacro posto alla sua destra – senza lamentarsi mai
della colonna sonora.
Faceva bene e faceva male insieme, perché a volte, in Ben,
più che un figlio rivedeva se stesso, com’era stato prima che la storia della
famiglia Winchester collassasse del tutto su se stessa; un altro ragazzino in
cerca del lupo, del capobranco, di una chance affettiva che somigliasse a un
modello.
Magari avrebbe potuto suggerirgli di scegliersene uno più
decente. Poteva anche darsi, però, che la primavera gli avesse infine portato
una vita che poteva sentirsi fiero di consegnare a qualcun altro.
E Lisa? Lisa cos’era?
Di donne ne aveva avute troppe perché un possessivo
significasse qualcosa.
Lei era un utero.
Era qualcosa di buio e caldo in cui tornava a sentirsi sicuro
e protetto. Lisa era accogliente, oltre che bellissima: di lei ricordava quello,
prima ancora dei muscoli fibrosi, delle cosce lunghe e forti che si stringevano
ai suoi fianchi.
Con Lisa aveva scopato che era poco più di un ragazzino, ma
era stata una scopata divertente, oltre che clamorosa. Era stata rasserenante.
Per quanto assurdo possa sembrare, un uomo può innamorarsi
anche solo per una carezza un sussurro un sorriso che arriva nel momento più
giusto.
Lisa avrebbe potuto incastrarlo, ma non l’aveva fatto: gli
aveva dato l’occasione di desiderare Ben, senza concederglielo davvero.
O era una strega o era la sua Mary.
Lisa, soprattutto, non gli aveva mai chiesto di Sam; sarebbe
stato quanto di più scontato potesse darsi, ma non l’aveva fatto: aveva letto
nei suoi occhi quel che desiderava sapere e aveva medicato una ferita suppurante
anziché cospargerla di sale.
Era sua perché aveva scelto di appartenerle, tutto
qui.
*
– Io vorrei proprio sapere chi è il bastardo che ha permesso
ai giapponesi di mettersi a fare pure le automobili.
Jeremy gli aveva passato il doloroso caso della Toyota rossa:
doloroso perché se ti eri fatto le ossa su una signora Impala del
Sessantasette, non ti sentivi poi del tutto a tuo agio a frugare nelle miserie
di una troietta duemilacinque.
E doloroso perché quella era la Toyota della vedova
Lafayette, una vecchia di ottomila anni che guidava quasi fosse una citazione –
quella della vecchia al volante per antonomasia.
Non erano ancora quattro mesi che lavorava per Weber, e già
aveva dovuto vedere quella maledetta macchina – che odiava – sette o otto volte.
Se non erano i freni, era la frizione.
Se non era la frizione, era saltato un fusibile che aveva
sputtanato l’impianto elettrico e se non era l’impianto elettrico…
– Oh, cazzo.
– Cos’è stavolta, Dean?
Jeremy aveva menato un colpetto alla fiancata, arretrando
tuttavia di un paio di passi come aveva sentito il ruggito della sua (tutt’altro
che discreta) bestemmia fondersi allo stridulo gnaulio di una bestia che non
avrebbe stonato all’Inferno.
– Un gatto nero, – aveva rantolato isterico, – e mi ha appena
pisciato in faccia.
Jeremy aveva cominciato a ridere come solo lui sapeva fare,
quasi davvero dovesse tirare giù il Cielo e tutti gli stronzi che lo popolavano.
Dean era riemerso furibondo, strofinandosi il viso solo per
imbrattarsi con un accanimento quasi comico.
– Ridi un cazzo. Prova a tirarla fuori tu quella bestiaccia!
Jeremy gli aveva scoccato un’occhiata che trasudava sarcasmo.
– Non ci penso proprio. Fino a prova contraria, sono io
quello che ti paga per fare il lavoro sporco.
– Ma non quello della protezione animali. Chiama la vecchia e
dille che la Toyota è posseduta. E che se proprio vuol guidare una macchina di
merda, che almeno si scelga un’utilitaria di casa nostra.
C’era un buon odore nell’aria. Profumo d’autunno, di
famiglia, di casa – quello che almeno immaginava avessero l’autunno e una
famiglia e una casa.
Il quattro luglio aveva fatto il primo barbecue decente della
propria vita. A Halloween, finalmente, forse avrebbe rubato dolcetti destinati
ai bambini senza aspettarsi di vivere l’ennesimo incubo.
– Resta il fatto che quel coso dobbiamo tirarlo fuori.
La voce di Jeremy l’aveva riscosso appena in tempo perché
cogliesse dall’altro lato della strada il profilo familiare di Ben, di ritorno
da scuola su una bmx di seconda mano che avevano trasformato nella bicicletta
più figa del circondario.
– Forse ho trovato un volontario, – aveva sogghignato,
richiamando subito dopo l’attenzione del bambino con un fischio prolungato.
– Ben, ehi! Ben, vieni un po’ qui.
Il figlio di Lisa aveva abbandonato la bicicletta in un
angolo e si era avviato, dinoccolato e guardingo come un vero duro, nella loro
direzione.
– Ciao, Dean, ciao Jerry. Niente pausa pranzo, oggi?
Dean aveva portato lo sguardo a quella maledetta macchina.
– Un osso duro, Ben.
Il figlio di Lisa aveva squadrato la Toyota con evidente
disgusto. – Ma è giapponese? Chi è che può volere…
Jeremy l’aveva fissato ironico. – Dì un po’… L’hai ordinato
su un catalogo, vero?
Dean aveva sogghignato evasivo, prima di raggiungere Ben.
– Come darti torto? Ma il problema è un altro. C’è un corpo
estraneo là dentro ed io… Be’, io non sto simpatico all’inquilino.
– Tipo?
– Un gatto.
– E tu hai paura di un gatto?
– Non ho paura di un gatto. È che… È che mi ha già pisciato
in faccia, ok?
Ben gli aveva rivolto un’occhiata che trasudava, grondava,
ululava sarcasmo.
– Lascia fare a me, – l’aveva sentito pontificare tronfio.
Meno di due minuti dopo, l’orrendo gatto – un occhio solo e
mezzo orecchio in tutto. Per giunta nero come il catrame – ronfava sicuro tra le
braccia del bambino.
– Poi glielo dici tu a mamma, vero?
– Cosa?
– Che Toyota resta con noi.
– Come l’hai chiamato?
Aveva una casa, un bambino e ora anche un gatto con un nome
di merda: era un uomo fortunato, Dean Winchester. Solo una cosa gli mancava
perché la felicità fosse perfetta, perché tutte le sue radici affondassero nel
terreno fertile dei ricordi più belli: suo fratello.
Eppure proprio Sam, precipitando nel buio, aveva scelto di
nutrire quella terra che ora calpestava da uomo libero.
Era terribile a dirsi, ma Dean non poteva fare a meno di
pensare che fosse giusto così.