Quando il campanello di casa
sua suonò per la prima
volta, Arthur Kirkland si trovava nel bel mezzo di una complessa
ricerca
filosofica che lo aveva impegnato per più o meno un mese e
mezzo e che si
avviava faticosamente alla conclusione. Si trattava di
un’analisi
dell’irrazionale che sarebbe poi stata la tematica principale
di alcune sue
lezioni in classe; lo aveva tormentato fino a fargli vedere fatine e
fantasmi
volteggiare nel buio ogni volta che aveva chiuso gli occhi durante le
sue
innumerevoli notti insonni. Si era rivelata così complessa
che spesso si era
ritrovato a sbottare di frustrazione nel bel mezzo del silenzio in
biblioteca,
o cedere a terribili crisi di nervi nel momento in cui, leggendo e
rileggendo i
brani di riflessioni filosofiche famose, non era riuscito a trovare
ciò che gli
serviva. Molti gli avevano detto sorridendo che con il carattere
irascibile ed
impaziente che si ritrovava era il filosofo meno credibile che fosse
mai
esistito (cosa che lo aveva fatto arrabbiare ulteriormente).
Ma lui in fin dei conti non
aveva studiato per
farsi dire dagli altri cosa doveva fare, né tanto meno per
dare credito ai loro
commenti lasciandosi andare pubblicamente a scoppi d’ira
– si limitava a fare
il suo lavoro di insegnante nel migliore dei modi, godendosi quella
cattedra
che si era guadagnato con tanta fatica e dedizione.
Alzandosi dalla scrivania con
una bassa serie di
imprecazioni, poggiò attentamente la penna stilografica e
abbandonò il blocco
note pasticciato di appunti tra libri e fotocopie.
Oltre la porta, sui bassi
gradini che rialzavano
l’ingresso dal livello della strada, gli occhi azzurri e
limpidi di Alfred F.
Jones lo guardarono attraverso le lenti degli occhiali, sbattendo le
palpebre.
Aveva addosso una felpa con il cappuccio e dei jeans larghi strappati
sul
ginocchio, una borsa dall’aria pesante a tracolla e delle
cuffie ingombranti
che gli circondavano la testa come un’aureola di plastica
lucida; lasciò
scivolare queste ultime sul collo con un gesto disinvolto un attimo
prima di
dire allegramente:
« Hey!»
Come se formule più adatte come Buon
pomeriggio o Buonasera non riuscissero a
trovare posto nel suo già limitato vocabolario americano.
Arthur lo squadrò,
indeciso se sentirsi sorpreso da
quella visita o piuttosto seccato. Una cosa era certa, era appena stato
interrotto in un flusso di coscienza che lo aveva quasi condotto alla
fine
della sua ricerca – e questo non lo metteva sicuramente di
buon umore.
« Hey.»
Rispose al saluto con poco entusiasmo. « Cosa
c’è?»
Alfred si strinse nelle
spalle, regalandogli un
sorriso tranquillo:
« Niente. Ho voglia
di cenare con te.» Sollevò una
mano mostrandogli due buste gonfie fino a scoppiare su cui spiccava
Arthur squadrò le
confezioni, trattenendo appena il
respiro quando lo raggiunse l’effluvio di olio vecchio fritto
troppe volte
oltre il limite di ciò che veniva comunemente definito sano:
« Immagino che siano
hamburger.» Constatò, poco
convinto. Ebbe la risposta che cercava ancora prima che Alfred aprisse
bocca,
dalla luce deliziata e felice che gli illuminò il viso un
attimo prima di
annunciare:
« Certo che
si.»
Arthur incrociò le
braccia sul petto, chiudendo gli
occhi e sancendo con tono critico:
« Allora dubito che
lì dentro ci sia davvero
qualcosa da mangiare.»
Alfred assunse
un’espressione contrariata,
abbassando le buste lungo il fianco; sembrava che
quell’insinuazione lo avesse
colpito nell’intimo, ferendolo come un’offesa
rivolta direttamente a lui.
« Ma ho scelto anche
quello con il filetto di pesce
impanato e le patatine fritte. E anche l’insalata. Pensavo ti
sarebbe piaciuto.»
Per due secondi, la mente di
Arthur vacillò tra la
tenerezza per quella premura ed il desiderio di evitare in ogni modo
che Alfred
entrasse in casa sua; fu questa sottile incertezza a farlo esitare
– tentò di
guadagnare tempo studiando la stella bianca che decorava le cuffie di
quella
grossa minaccia americana, cercando di ignorare la sua espressione da
cane
bastonato:
« Mmh.»
Dopo una rapida analisi della situazione, realizzò
che la sua necessità primaria fosse allontanare quegli
hamburger e decise di
mentire. « Ad ogni modo ho già cenato.»
« Ah.» Gli
occhi di Alfred vagarono verso il basso
e poi tornarono sicuri a fissarsi in quelli dell’altro, dopo
neppure un secondo
e mezzo. « Tanto ho appena deciso che mi farai entrare lo
stesso.»
« No, a casa mia
decido io chi entra.»
Arthur lo disse con fermezza e severità, sollevando
il mento nel tentativo di apparire più autorevole verso quel
ragazzo che lo
superava in altezza di una buona spanna.
Alfred gli rispose con un
sorriso genuino e
tranquillo, ignorandolo deliberatamente mentre gli poggiava una mano
sulla
testa per scompigliargli i capelli:
« Con
permesso!» Lo spinse all’interno, muovendo
passi rapidi sugli scalini e poi sul tappeto dell’anticamera,
chiudendo il
portone con un piede. « E’ bello sapere che tu
apprezzi sempre e comunque la mia
compagnia!*»
Nonostante i suoi tentativi di
riaprire la porta e
di spingere Alfred di nuovo in strada, il giovane americano
riuscì facilmente
ad averla vinta: gli si aggrappò alle spalle, prendendolo da
dietro e poggiando
con aria allegra il mento sulla sua testa spettinata. E mentre si
lasciava
condurre in cucina, senza rinunciare a tentativi energici di
divincolarsi,
Arthur Kirkland pensò che in fin dei conti poteva sforzarsi
di sopportare
quella visita, rimandando il lavoro al giorno dopo. Per un breve
istante mentre
si vedeva costretto ad apparecchiare sul suo tavolo tondo,
osò addirittura
convincersi che quella serata si sarebbe conclusa rapidamente ed in
maniera
indolore – avrebbe mangiato con Alfred e poi avrebbe
rifiutato qualsiasi sua
proposta di vedere un film dell’orrore e poi dormire assieme
(dalla borsa
pesante che aveva con sé sembrava proprio che quelle fossero
le sue
intenzioni), chiamando un taxi e spingendocelo dentro a forza pur di
levarselo
di torno.
Ne fu convinto e se ne
sentì rincuorato, perché in
fin dei conti poteva sopportare Alfred con facilità, se ci
metteva tutto il suo
impegno (lo riprese con tono irritato dopo averlo colto in flagrante
nella sua
ricerca nel freezer di coppette di gelato, lo sgridò quando
si sedette e per
protesta mise entrambi i piedi sul tavolo, si arrabbiò molto quando gli chiese se avesse almeno
una bottiglia di Coca Cola
dopo aver inspiegabilmente giocato con i piatti di ceramica rischiando
di farli
cadere per terra).
Ma stava per sedersi a tavola,
con Alfred che
sfilava dalle buste il suo panino a base di pesce e la propria mezza
dozzina di
hamburger, quando il campanello di casa sua suonò di nuovo.
Lo fece più di una
volta, componendo un motivetto
irritante che fece girare Arthur su sé stesso, con gli occhi
spalancati e le
terminazioni nervose in allarme.
Ebbe un sospetto terribile.
Quando aprì la
porta, e stavolta lo fece con un
gesto nervoso e decisamente seccato, Arthur fu investito da un forte e
denso
profumo di cioccolato fondente.
« Bon
soir!»
Francis Bonnefoy fece la sua teatrale ed elegante apparizione avvolto
in un
impermeabile blu scuro lungo fino alle ginocchia; aveva i capelli
legati che
gli ricadevano sulla spalla, sfiorandogli il collo in onde morbide. Lo
salutò
con un sorriso, mostrando la fila di denti bianchi e dritti –
Arthur a quella
vista ebbe l’impulso folle di spaccarglieli tutti con un
pugno in bocca. Ma non
fece in tempo a mandare il corretto segnale ai muscoli delle braccia,
perché
l’inaspettato francese fece un passo sugli scalini
piazzandogli sotto il naso
un ampio pacco rettangolare, accuratamente avvolto in quella che
sembrava una
costosa carta da regalo avorio. Arthur fissò con diffidenza
il fiocco dorato
che si ergeva sulla scatola ed i perfetti riccioli del nastrino sottile
che
ricadevano oltre gli spigoli: gli sembrava quasi di vedere –
con vero e sincero
disappunto, se non addirittura sdegno – le mani di Francis
che premevano con
disinvoltura il nastro sulle lame della forbice, ripiegando
delicatamente i
lembi di carta. Una pura e fine dimostrazione di impegno e dedizione
nella
ricerca del bello che Arthur Kirkland onorò con un piatto:
« Cosa ci fai
qui?»
Francis batté le
palpebre, senza sentirsi affatto
ferito da quella mancanza di entusiasmo – era evidentemente
più che abituato a
quel genere di reazioni:
« Ti ho portato una
torta» spiegò con gentilezza,
un attimo prima di muovere un altro passo verso l’ingresso.
« Fatta dalle mie
mani apposta perché tu l’assaggi. Mi fai entrare, oui?»
E anche se la sua era
evidentemente una domanda, si
mosse senza attendere la tagliente risposta che gorgogliava nella gola
di
Arthur; il sorriso del francese divenne più profondo mentre
si infilava tra il
padrone di casa e la porta aperta, stampandogli un bacio lieve sulla
fronte e
scansandolo con un movimento fluido.
A quel punto, Arthur (o
più precisamente il suo
cervello confuso e rintronato dall’odore di cioccolato
mescolato in maniera
inopportuna con l’odore acre dell’olio fritto sulle
patatine) andò
momentaneamente in stand by. Ci
mise
almeno un minuto a rendersi conto della situazione, rimanendo fermo
davanti
all’ingresso aperto e vuoto a fissare gli scalini, il
marciapiede e la strada
su cui rotolavano silenziose le foglie secche dell’autunno,
sospinte dal vento.
Quando realizzò di aver appena fatto entrare in casa, insieme, entrambe le persone che non
riusciva a sopportare neppure singolarmente e
di essersi cacciato da
solo in quella che con grande probabilità sarebbe diventata
la peggiore serata
della sua vita, deglutì appena, lasciandosi sfuggire un
sospiro strozzato.
Si ricordò con un
ritardo di oltre sessanta secondi
del bruciore lasciato sulla fronte dal bacio di Francis; si rivolse a
lui con
le parole che erano diventate la risposta standard a quelle sue
inopportune
manifestazioni di…mah, affetto?, nonostante lo sentisse
ormai distante, a
vagare da qualche parte in casa sua:
« Stammi
lontano!» Sbottò con voce alta e
gracchiante, mentre chiudeva con frustrazione il portone di casa.
Li trovò in cucina,
seguendo le risate assordanti
di Alfred e le morbide esclamazioni in francese che scivolavano dalle
labbra di
Francis.
Li guardò,
istupidito, mentre Alfred iniziava
distrattamente a mangiare patatine e il francese si sfilava
l’impermeabile,
ripiegandolo con cura un attimo prima di spostare una sedia per
accomodarsi con
le gambe accavallate.
E rimanendo immobile sulla
soglia della stanza, si
chiese con impeto disperato perché?
Perché
insieme, nello stesso dannato posto, con lui, la stessa sera,
alla stessa ora, con quell’assurda
sincronia e precisione da orologio svizzero? Perché
quell’improvvisa,
inspiegabile e irrefrenabile necessità di cenare con lui?
PERCHE’
INSIEME?
Possibile che fosse successo per un
maledettissimo caso?
Arthur Kirkland non aveva mai
trovato il tempo
necessario a per pensare all’amore. Era sempre vissuto nel
suo universo di
fogli e favole, nei suoi sogni ad occhi aperti, nelle notti insonni
passate a
leggere libri e a scrivere pagine e pagine che non avrebbe mai fatto
leggere a
nessuno. C’erano state delle ragazze, durante gli anni della
scuola superiore,
ma non si era mai trattato di storie serie –
l’unico vero amore che avesse mai
provato era rivolto alla letteratura. Per molti anni era andato fiero
della
propria refrattarietà all’amore, della propria
capacità innata di essere
integro e perfetto in qualsiasi cosa facesse, della propria
superiorità
intellettuale e degli sguardi ammirati che gli venivano rivolti,
nascondendo il
timore restio che gli altri provavano nell’avvicinarlo.
Andava fiero del
proprio essere solo, tranquillo, in pace con sé stesso,
completamente padrone
della propria vita.
Ne era andato fiero, davvero. Fino a che non erano arrivati
quei due dementi, ed era catastroficamente
finito a letto con entrambi.
Conosceva Francis Bonnefoy fin
dai tempi dell’università,
quando lui si era trasferito in Inghilterra per studiare e si erano
incontrati
per puro e sfortunato caso alla cerimonia di inizio anno. Ed era stato
ancora
più angosciante scoprire di condividere con lui
più o meno tre quarti dei
corsi, dopo che in seguito alle prime ed elementari presentazioni
Arthur lo
aveva catalogato come la creatura più asfissiante e
fastidiosamente melensa (e
inoltre francese ben oltre i suoi
limiti di sopportazione) che avesse mai incontrato. Francis amava la
storia
dell’arte, sapeva tenere con eleganza il pennello e la
tavolozza, era capace di
rimanere fermo ed immobile per lunghi minuti nel contemplare un dipinto
di Van
Gogh o una scultura di Canova; Arthur era legato al fascino
dell’inchiostro e
della pagina scritta, del frusciare dei libri stampati e dalla poesia
insita
nella lingua degli uomini. Anche se le loro aspirazioni erano diverse e
si
consideravano l’un l’altro l’unica vera
piaga che infettava il mondo, erano riusciti a frequentare le
lezioni seguendo
la rigida legge della sopportazione. Qualche volta Francis si era
offerto di
studiare assieme, ma la sua natura straniera e la sua poco piacevole
tendenza a
toccare le cose altrui – cose di qualsiasi
natura e genere – erano state le principali
motivazioni che avevano spinto
l’inglese a rifiutare.
Inoltre, Francis Bonnefoy
profumava sempre di
dolci. A volte aveva odore di crema pasticceria, trascinava dietro di
sé
l’aroma dei croissant appena sfornati, della marmellata e
delle brioche calde. Sin
da quando studiava all’università lavorava come
aiuto pasticcere alla Maison Bertaux, la
più popolare e antica
patisserie francese di Londra. Oltre
a farsi invidiare da almeno la metà degli studenti di arte
del suo corso per la
freschezza e la naturalezza con cui mescolava i colori ad olio sulla
tela, si
vantava di essere anche abbastanza bravo con gli impasti. Arthur non lo
aveva
mai ammesso apertamente, senza mai concedergli uno straccio di
complimento, ma non
c’era davvero modo di dargli torto.
E forse era stato a causa di
quella sua abilità con
i dolci che quella notte invernale era riuscito ad aprire una
minuscola,
pericolosissima falla nell’integerrimo contegno di Arthur,
mettendo a dura
prova non solo il suo Orgoglio Inglese, ma anche la sua illimitata
stima di sé
stesso. Francis quella notte emanava un forte odore di caramello.
Bastava un
semplice gesto, una mano tra i capelli ondulati, qualsiasi piccola
variazione
della sua postura sulla sedia perché il profumo di
cremè caramel arrivasse ad
Arthur forte e delizioso come se gli fosse stato appena servito un
enorme
vassoio traboccante di budini.
Quella notte Arthur Kirkland
aveva fatto l’errore
madornale di accettare l’invito di Francis a studiare
assieme; Arthur non era
un amante dei dolci, ma quella notte Francis Bonnefoy profumava
dell’unico
dessert di cui Arthur fosse mai andato pazzo. Ed era bastato davvero
poco, un avanche ridicola che non
avrebbe
incastrato neppure la più ingenua e sprovveduta delle
femminucce.
La mattina seguente, quando si
era avvolto nella
coperta desiderando ardentemente di morire, aveva rivisitato brevemente
e con
orrore i propri ricordi sbiaditi delle cinque o sei ore che erano
appena
passate. E la testa gli si era riempita di brevi e sommessi mormorii
nella
notte, della sensazione dolorosa di due ampie mani premute sulle sue
cosce e della
testiera di ferro battuto conficcata nella spina dorsale. E quel
profumo
mielato e quasi nauseante dell’unico dolce che lo avesse mai
fatto impazzire, quell’odore
che aveva annebbiato e saturato il suo mondo per una notte intera.
Inutile aggiungere che dopo
quella che fu per lui
la più umiliante delle disavventure, non ebbe mai
più il coraggio di mangiare qualsiasi
derivato della crema inglese.
L’incontro con
Alfred era stato stupido e
incredibilmente assurdo, ma data la persona in questione non avrebbe
potuto
aspettarsi niente di diverso. Lo aveva conosciuto durante quello stage negli Stati Uniti a cui aveva
partecipato di malavoglia e che ricordava come il peggiore mese e mezzo
della
sua vita – quando ancora studiava con i suoi colleghi di
corso per sostenere
l’ultimo esame prima di diventare ufficialmente Bachelor of Arts.
Avevano affittato tutti
insieme un appartamento nel
cuore di Manhattan, a qualche isolato da Wall Strett, – una
sistemazione che
Arthur era riuscito a sopportare solo grazie alla dignitosa stanza
singola che
gli spettò per sorteggio ed alla decisione presa di comune
accordo di dividere
equamente il prezzo che dovevano al proprietario. L’argomento
delle lezioni non
lo entusiasmava, il professore che se ne occupava aveva la fastidiosa
abitudine
di ascoltare le domande degli studenti premendo la lingua contro i
denti e la
guancia; inoltre non aveva trovato
un
solo distributore di bevande che
facesse un thé decente oltre a quel disgustoso
caffé americano.
Malauguratamente costretto a
dormire e vivere così
a lungo nella città più frenetica e rumorosa del
mondo, aveva trovato unico conforto
nel momento della colazione: svegliandosi all’alba riusciva
ad allontanarsi
dagli altri, racimolando a forza il tempo necessario per sé
stesso senza dover
pensare a nessun’altro. Il cibo americano era per lo
più grasso e nauseante, ma
la colazione da Starbuck’s o in alcuni Delikatessen era
diventata il suo
momento speciale, il silenzio e la pace prima di ributtarsi nel rumore
terribile di New York al mattino – i dolci ed il
thè poco saporito non
incontravano completamente il suo gusto, ma riusciva perlomeno a
mandare giù
qualcosa, storcendo il naso.
Di solito quando si chiudeva
in sé stesso per
sfuggire a qualcosa che detestava e doveva subire e sopportare
nonostante la
propria volontà, Arthur Kirkland diventava un uomo taciturno
e cupo più del
solito; quelle mattine gli era capitato molte volte di chiudersi nella
lettura di
Oscar Wilde, James Joyce e talvolta Kant e Nietszche, quando la
frustrazione
oltrepassava il limite del sopportabile.
O almeno, era riuscito a
leggere fino al giorno in
cui un enorme ragazzone con gli occhiali non si era seduto al suo
stretto
tavolino senza neppure chiedere il permesso, sbattendo il proprio
vassoio di
fronte al portatile aperto su cui Arthur prendeva appunti mano a mano
che
leggeva.
Alfred gli era piombato nella
vita con impulsività
ed un’invadenza senza pari: si era presentato ed aveva
iniziato ad occupare con
futili discorsi ad alta voce il suo sacrosanto silenzio mattutino,
ovvero
l’unica cosa che aveva permesso ad Arthur di non impazzire a
New York durante
le prime settimane. E avevano continuato a fare colazione assieme tutte
le
mattine, anche se Alfred sembrava solo in cerca di una persona da
imbottire di stupidaggini
e l’accento americano rendeva incomprensibili alcune parole
elementari
all’orecchio di Arthur. Poi si salutavano, e uno se ne andava
mettendosi alle
orecchie delle enormi cuffie mentre si avviava verso una scuola
superiore che a
detta sua odiava con tutto il cuore (per quanto Arthur avesse
desiderato terribilmente di
zittirlo e di poter
leggere in santa pace, aveva ascoltato molti dei suoi soliloqui senza
fine);
l’altro si rituffava di malavoglia nella terribile scacchiera
degli isolati di
Manhattan.
E poi Arthur aveva fatto il
secondo errore più
fatale della sua vita, ovvero ubriacarsi con i suoi colleghi la notte
prima di
prendere l’aereo per l’Inghilterra.
L’euforia per il ritorno imminente nella
sua amata patria lo aveva esaltato fin troppo ed aveva esagerato con
l’alcol.
E il giorno dopo, senza avere
la più pallida idea
di come e perché, si era risvegliato nel suo letto
– e sarebbe stato tutto
esattamente al proprio posto se tra quelle lenzuola non ci fosse stato
nessun
altro, e la testa di Arthur non rimbombasse come l’interno di
un barile vuoto
ad ogni movimento.
Non aveva mai capito il motivo
per cui avesse
accettato la compagnia di Alfred con così tanta
facilità, nonostante i
brontolii e le lamentele silenziose che si era ripetuto ogni volta che
lo aveva
visto avvicinarsi al suo tavolo, ogni maledetta mattina. Non sapeva
neppure
come e perché si fossero notati l’un
l’altro o perché alla fine avessero
iniziato a conoscersi in quello stupido locale di Starbuck’s
dove facevano un
caffé orribile – non sapeva neppure come avesse
potuto accettare la
trasformazione di quel posto, il suo
santuario di silenzio, nel covo delle chiacchiere frivole.
Ad ogni modo, quella mattina
si era svegliato nelle
braccia di Alfred F. Jones, che non era altro che un moccioso di cinque
anni
più giovane – e il suo corpo gridava che era
successo l’irreparabile, anche se
la sua testa davvero non riusciva a ottenere le informazioni necessarie
a
spiegargli COME.
Si era illuso di poter mettere
la parola fine a
quella terrificante avventura americana non appena avesse rimesso piede
nella
sua adorata Inghilterra, nonostante Alfred gli avesse estorto il numero
di
cellulare un istante prima della partenza. Se ne era beatamente illuso
per due
o tre anni, finché Alfred non gli aveva fatto la sorpresa
orribile di chiamarlo
al telefono, informandolo del fatto che si era appena trasferito a
Londra con
sua madre per entrare all’università. Come se
improvvisamente l’Inghilterra
fosse diventata il luogo perfetto per i laureandi o qualcosa del
genere, il
ricettacolo di qualsiasi studente mediocre, americano o francese che
fosse,
solo per il semplice fatto che la presenza di tali individui potesse
dare
fastidio a lui.
Arthur Kirkland, in quella
occasione in cui si
sentì sperduto ogni oltre dire, rimase in silenzio con il
telefono in mano,
mentre la risata ebete di Alfred lo rintronava all’infinito.
Rimase immobile e si
chiese disperatamente perché.
Ad ogni modo, non era ancora
minimamente riuscito a
farsi un’idea di cosa Alfted studiasse di preciso. Gli
chiedeva spesso delle
ripetizioni di filosofia, ma Arthur sospettava che Alfred non avesse mai davvero ascoltato con
serietà ciò
che gli veniva spiegato. L’americano rispondeva sempre con
mugolii poco
coinvolti, non prendeva appunti, non aveva mai tirato fuori un singolo libro di filosofia dal suo
mono-spalla
Converse – si limitava a
guardarlo
mentre parlava, spesso coordinando a quegli sguardi fissi un sostenuto
masticare; Arthur aveva solo
intravisto qualche grosso e pesante volume di diritto, che inoltre a
dirla
tutta, sembrava fin troppo ben tenuto e perfetto perchè
potesse venire il
sospetto che quel ragazzo disordinato ed irruente lo avesse sfogliato
più di
una volta o due. Inoltre l’idea che qualcuno potesse affidare
il proprio
destino ad un avvocato di nome Alfred F. Jones (sempre che fosse davvero legge ciò che
studiava) lo
raccapricciava e inquietava come poche altre cose al mondo.
E nonostante i suoi seri dubbi
sulla carriera
universitaria di Alfred, non si era mai rifiutato di dargli ripetizioni
di
filosofia, senza tirarsi indietro neppure quando la serata si
trasformava in
un’occasione per cambiare argomento e mangiare assieme, o
sorbirsi film
dell’orrore da quattro soldi. Lo faceva per pura e semplice
magnanimità,
compassione e per il suo istinto di insegnante. Ovviamente.
E poi era tutto degenerato
oltre ogni dire quando
Francis e Alfred si erano incontrati: e la cosa più
drammatica era che Arthur
aveva cercato in tutti i modi possibili di evitare che accadesse.
Era successo per puro caso,
mentre Arthur si
illudeva che conversare con Alfred del pensiero di Schopehauer e
Kierkegaard
potesse davvero servirgli a qualcosa e stava seduto con lui su di una
panchina
a St. James Park. In fondo avrebbe dovuto capire che
quell’uscita era stata una
cattiva idea dal modo in cui Alfred aveva iniziato a lanciare le
molliche del
suo panino ai piccioni che tubavano attorno ai loro piedi.
Francis era passato davanti a
loro con un
blocchetto degli schizzi sotto braccio ed una matita infilata di
traverso
dietro l’orecchio, tra i capelli biondi – e
nonostante Arthur avesse sentito la
pelle d’oca pizzicargli la nuca lanciandogli avvertimenti
frenetici, tutte le
sue speranze che abbassare lo sguardo potesse bastare a passare
inosservato si
erano rivelate del tutto vane.
E quel pomeriggio che nelle
intenzioni di Arthur
doveva essere una seduta di ripetizioni all’aperto, in quelle
di Alfred
un’occasione per perdere tempo con una materia che non gli
serviva e in quelle
di Francis una ricerca di ispirazione, si era trasformato in
un’allegra uscita
a tre – e fu allegra,
perché il più
inglese di loro fu perlopiù ignorato nel suo scorbutico e
teso rifiutarsi di
partecipare a qualsiasi cosa (e costretto a prendervi parte in ogni
caso).
La cosa più
terrificante fu constatare come quei
due idioti che teoricamente avrebbero dovuto odiarsi per il semplice
fatto di
essere andati a letto con lo stesso uomo, riuscissero ad andare
d’accordo e
accettarsi in maniera naturale e disarmante. Anzi, in quelle prime e
lunghe ore
che passarono insieme, fu probabilmente Arthur
Kirkland a diventare il maledetto terzo incomodo, con il suo
seccato e
continuo tentativo di rovinare la festa.
C’erano
però anche i rari momenti in cui quei due
sembravano ricordarsi di essere rivali o qualcosa del genere: purtroppo
per
Arthur, l’istante in cui Francis tentò di
imboccarlo con la forchetta che
grondava panna montata fu uno di quelli. E non poteva che essere il meno opportuno, per il bene del suo
stomaco.
Quando l’inglese
decise di accettare e aprì la
bocca per accogliere il boccone, corrugando le sopracciglia come se la
cosa
fosse umiliante e dolorosa come girare nudo tutt’intorno a
Trafalgar Square, lo
sguardo di Alfred dall’altra parte del tavolo si fece cupo e
leggermente
contrariato, mentre il suo moto mandibolare si interrompeva di colpo ed
un
grosso pezzo di hamburger veniva deglutito senza il minimo sforzo.
La panna di Francis era la
cosa più dannatamente
buona sulla faccia di
quella maledetta terra ed il cioccolato era morbido, si scioglieva in
bocca e
lasciava un retrogusto leggermente amaro sulla lingua. Arthur avrebbe
semplicemente voluto prendere quella fetta di torta che aveva
cocciutamente
rifiutato e mettersela in bocca tutta intera, mentre con
l’altra mano ne
tagliava un altro pezzo più grande. Ma il suo Orgoglio lo
aiutò a masticare
tranquillamente e a non fare nessuna di quelle cose. Anzi, quando
Francis
allontanò la forchetta e gli chiese gioiosamente se fosse
buona, aggrappandosi
al proprio stoico essere inglese Arthur riuscì a rispondere
nel modo più
opportuno:
« Fa
schifo.» Suonò credibile e senza esitazioni; il
francese sembrò non comprendere appieno il significato di
quelle parole, perché
sorrise come se fossero il migliore dei complimenti – ma
durò un istante,
perché subito dopo che ebbe posato la forchetta sul bordo
del piattino, puntò
il gomito sul tavolo e poggiò il mento su di una mano:
« Mon
Dieu,
il senso del gusto ti abbandona di giorno in giorno.» Gli
rivolse un gesto
disattento, mostrandogli una smorfia che lo derideva. « Certo, d’altronde cosa vuoi che sia
questa
raffinata e perfetta panna montata a mano in confronto
all’impareggiabile e
delizioso aroma di bruciato che
impreziosisce
i tuoi squisiti stones?»
Arthur ebbe un fremito
ricordando i piccoli
fallimenti di pasta annerita che erano emersi dal forno quando lo aveva
lasciato riscaldare ad una temperature troppo alta e si era dimenticato
di
avere il timer rotto. Francis si era rifiutato categoricamente anche
solo di
avvicinarsi al piatto su cui erano accatastati, dopo averne addentato
uno ed
aver iniziato a fare strani e poco divertenti giochi di parole.
« Osa dire anche
solo un’altra parola contro i miei
biscotti e giuro che ti mando via a calci!» Lo
minacciò l’inglese, avvampando,
mentre afferrava la forchetta e gliela puntava come a volerlo
infilzare. Alfred
quasi soffocò mandando giù l’ultimo
boccone del suo terzo panino. Si sentì
probabilmente in dovere di intervenire, perché
batté forte la mano sul tavolo,
scoppiando forte a ridere:
« Non puoi dargli
torto, Arthur, quei biscotti
erano terribili.» Mosse una mano davanti al volto in un gesto
divertito. «
Facevano rivoltare lo stomaco e spaccavano i denti ad ogni
morso!»
Arthur si voltò di
scatto, paonazzo, con la posata
sporca di cioccolato che trovava repentinamente un nuovo obiettivo:
« E mando via anche
te, razza di moccioso sfrontato!» Ringhiò,
sdegnato. « Non puoi dire una cosa del
genere dopo averli spazzolati
via tutti come fossero caramelle al miele!»
Alfred F. Jones aveva
assaggiato i biscotti di sua
spontanea volontà, nonostante il loro aspetto decisamente
poco appetitoso,
mangiandoli l’uno dopo l’altro senza fare un solo
commento. Era stato talmente
veloce che Arthur non aveva neppure fatto in tempo ad accorgersene, in
quel
breve intervallo di tempo nel quale Alfred era stato lasciato da solo
in
cucina. Gli scones erano
semplicemente spariti, e quando Arthur era tornato con in mano qualche
tomo su
Hegel, aveva incontrato solo lo sguardo innocente di Alfred che lo
aspettava.
E il vassoio vuoto. Era
bastato quel semplice gesto
perché il cuore di Arthur si riempisse repentinamente di un
amore
incondizionato nei confronti dello stomaco senza fondo di quello
stupido americano,
nella convinzione deliziosa e rincuorante che avesse mangiato quei
biscotti
perché gli erano piaciuti nonostante tutto.
Ma Alfred gli fece
l’occhiolino tirando in alto il
pollice dal pugno chiuso:
« Gli eroi come me
hanno il dovere di fare del bene
alla gente!» Annunciò con voce stentorea e sicura.
«Eliminare quelle schifezze
avrebbe senza dubbio fatto un favore all’umanità
intera!*»
Bastarono quelle poche parole
senza senso perché
l’ingenuo sogno inglese di essere stato apprezzato
s’infrangesse, trasformando
l’amore verso Alfred in puro e semplice istinto omicida.
« Ti
odio!» Sbottò con la voce rotta, lanciando la
forchetta sul tavolo con un gesto secco. « Idiota! Vi odio
tutti e due! E la tua
torta fa schifo! Fa schifo da morire!» Aggiunse, tremando,
rivolgendosi al
maledetto francese che rideva alla sua sinistra.
Senza dubbio sarebbe stato
più credibile se dopo
qualche istante la sua lingua non avesse reclamato un altro
po’ di cioccolato,
e Arthur non avesse preso compostamente il piattino con le dita per
trascinarlo
davanti a sé, conficcando con apparente disattenzione un
altro pezzetto di
torta.
…ma avrebbe
mangiato solo quella.
Francis lo osservò
in silenzio, con una sorta di
strana e morbida soddisfazione negli occhi blu; quando aprì
di nuovo bocca, la
sua disgustosa erre moscia e il suo accento francese erano diventati
ancora più
pronunciati:
« La prossima volta
ti porterò una teglia di zuppa
inglese, oui?»
La risposta di Arthur fu
immediata e secca, quasi
strozzata:
« No.»
Ebbe un guizzo nello sguardo mentre lanciava a Francis
un’occhiataccia e poi
tornava al suo piatto. «Niente crema inglese neppure tra cent’anni.»
E fu più o meno
alla fine di quello scambio che
Alfred fece raschiare violentemente la sedia sul pavimento, provocando
un
frastuono che stupì appena il francese e fece sobbalzare
Arthur.
L’americano si
sporse sulla tovaglia, lanciandosi
sul ripiano con tale irruenza da far tintinnare i piatti e quasi
rovesciare un
bicchiere: in mano teneva un hamburger a tre strati appena
frettolosamente
scartato.
« Art!»
Disse agitando il braccio teso, fino a
che quasi il panino non arrivò a sfiorare il naso
dell’inglese ed i lembi della
sua felpa non finirono dritti nella panna montata e tra le fragole
della fetta
di torta. « Assaggia!»
La voglia di mettere in bocca
quell’esplosione di
grasso, ketchup e altre salse non meglio identificate era
più o meno pari allo
zero assoluto, mentre ancora sentiva il dolce pizzicargli il palato; ma
bastò
guardare l’espressione concentrata di Alfred e la sua
speranza tenera perché il
desiderio di panini untuosi di McDonald’s crescesse almeno di
un buon trenta
per cento.
Si tese per dare un morso, minuscolo, addentando il primo ed il
secondo strato di pane morbido
e carne – inutile sottolineare come l’espressione
di Alfred divenne luminosa
mentre lo osservava masticare lentamente.
« Scommetto che ti
piace.» Commentò, pieno di
entusiasmo, mentre si sporgeva ancora per offrirgli un altro pezzo.
Arthur non
ebbe il coraggio di rispondere mentre mordeva ancora e mandava
giù il secondo
boccone, sentendo in gola un miscuglio di sapori a dir poco vomitevole;
mugolò
solo qualcosa di incomprensibile mentre masticava, arricciando il naso
in una
smorfia.
Alfred sembrava molto soddisfatto di quel successo, e spostò la sedia per farsi più vicino, mentre Francis faceva lo stesso, come in una sorta di riflesso incondizionato. E Arthur continuò a mangiare fino a che il suo stomaco non iniziò a piangere e chiedere pietà, mentre il suo palato diventava a poco a poco sempre meno disposto a distinguere il cioccolato e la panna dalla maionese e il cetriolo.
Nota
dell'autrice:
Si, sto scrivendo
decisamente troppo. Dovrei smetterla. Soprattutto quando
si tratta di
roba pucci da vomito, perchè è ormai chiara la
mia incapacità nel settore.
Cronache di una serata stupida farcita di anedotti di vita reale,
compresse in due capitoli. E' stata scritta (ed il seguito
verrà scritto) per Juju e Angi <3 a cui la regalo e_e
spero che possano gradirla!
E chiunque abbia letto fin qui mi farà un grande regalo a lasciare la propria opinione in merito! ;D
*a causa della mia incapacità e della mia pigrizia che non mi permettono di gestire a dovere Nvu, gli asterischi censurano le stelline che inserisco spesso nella parlata di Alfred. Odio Nvu, e forse un giorno mi impegnerò e troverò il modo per lasciare intatte le battute di America.