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Autore: Alkimia    17/09/2010    3 recensioni
E se Christine si innamorasse di Erik fin dall'inizio? E se i direttori del teatro assoldassero qualcuno per indagare sul Fantasma dell'Opera e stanarlo? E se, per tutti, le cose si rivelassero ancora più complicate di quanto sembrano?... Non sono una grande fan della coppia Erik/Christine, ma mi sono sempre chiesta se le cose potevano andare diversamente, questa è la risposta che mi sono data.
Genere: Azione, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ci eravamo lasciati con Christine inferma e incinta costretta a rimanere a Parigi sotto la supervisione di madame Ginette, Raoul e Madame Giry. Erik e Alexandre, olmai al corrente dell'inghippo da soap-opera che l'autrice sottoscritta ha inscenato, in fuga verso il paesino in cui sono nati e in cui la famiglia di Alexandre ha sempre vissuto prima della morte del padre. E "il buon" Bertrand acceccato dall'ira e dalla voglia di rivalsa...
 Poi è arrivato l'Orco cattivo, mi ha rapita e mi ha tenuta prigioniera nel suo castello a rammendargli i calzini e preparargli grigliate di carne di giovani vergini. Si, si è vero! E' stato l'Orco che mi ha portata via! Non è stata colpa mia!...
 No... ok, dovevo inventarmene una migliore. Mi scuso della lunga assenza e auguro buona lettura ai superstiti ^^

****

CAPITOLO VENTISETTESIMO
Le distanze incolmabili

«Dite che dovremo cominciare a prendere in considerazione l'idea di...» bisbigliò Raoul fingendo di guardare fuori dalla finestra.
«Forse dovremmo, non so se le è più nocivo starsene qui a crogiolarsi nella sua ansia o muoversi e raggiungere Erik» rispose madame Giry a voce ancora più bassa.
«Guardate che vi sento» si intromise Christine con un sospiro, spingendo via le coperte.
La ragazza era stanca. Stanca di avere attorno gente che si preoccupava per lei, aggiungendo altra ansia a quella che già provava. Stanca di starsene lì ad attendere notizie che non arrivavano. Erik e Alexandre non avevano scritto, o se lo avevano fatto, la loro missiva non era arrivata. Madame Ginette diceva che era colpa del brutto tempo che stava impazzando su tutta la Francia e che di sicuro aveva rallentato anche la rete postale, intanto lei era lì, lontana chilometri dall'uomo che amava, dal padre del figlio che portava in grembo, con un male che ancora incombeva sospeso come cielo tempestoso sopra le loro teste.
Eloise si lisciò il velluto scuro della gonna,
«Christine, mia cara, so che vorresti correre da lui» disse in tono accomodante. «So che vorresti che tutto si sistemasse, ma è alla tua salute che devi pensare prima di ogni altra cosa»
«Lo so, non fate altro che ripetermelo, ma io sto bene e sono perfettamente in grado di alzarmi e di viaggiare» protestò la ragazza con una fermezza che madame Giry non ricordava di averle mai visto in viso. Avrebbe voluto sorridere e dirle quanto era orgogliosa di vederla essere diventata donna, ma l'ansia di una madre è un metallo assai più duro di tutte le consapevolezze di una figlia.
«Devo andare, so che devo farlo» insistette Christine.
Raoul tamburellò con la punta dell'indice sul mento. Già doveva farlo, e il ragazzo aveva la netta sensazione che la sua Dolce Lottie sarebbe andata via anche in camicia da notte se avessero provato a trattenerla oltre. Forse frequentare quell'uomo era stato ancora più nocivo di quanto potesse pensare!
«Va bene, Christine, hai ragione» capitolò il visconte anche se lo sguardo duro che ricevette da madame Giry lo fece quasi spaventare.
«Mi porterai a Saint-Gaudens, Raoul?». Gli occhi di Christine erano scintille di speranza.
Il giovane visconte pensò che l'avrebbe portata anche in capo al mondo.
«Credete che sia saggio?» sbottò Eloise severa.
«Con tutto il rispetto, madame, ma credo che la saggezza, semmai io ne abbia avuta, mi ha abbandonato la sera in cui ho messo il nostro amico mascherato su una carrozza per permettergli di lasciare Parigi».

Non ci volle molto a organizzare il viaggio, non per qualcuno che disponeva di tasche così profonde come il Visconte De Chagny.
Raoul, Christine e madame Ginette partirono di buon mattino, quando gli occhi indiscreti della città di Parigi erano ancora chiusi, puntati verso il sogno.
La fanciulla aveva chiesto a madame Giry e a Meg di accompagnarla, ma Eloise aveva detto che era necessario che lei restasse in città a tenere sotto controllo la situazione e stroncare sul nascere altri eventuali problemi o pericoli. I buoni propositi di madame Giry si sarebbero comunque rivelati del tutto inutili, perché quando la carrozza che avrebbe accompagnato Christine e il suo piccolo seguito a Saint-Gaudens due ombre nere si mossero nella loro medesima direzione, e di queste due ombre soltanto una apparteneva al banco di nuvole gonfie di pioggia.

*

Il vento quasi tagliava le guance e gettava nelle narici un'aria tanto densa da bruciare nella gola e far lacrimare gli occhi. Perché Erik volle convincersi che fosse solo il vento freddo a velargli lo sguardo, quel vento che odorava di erba e di funghi e dell'acqua limpida dei ruscelli. Vento di montagna che sapeva di inverno anche nelle giornate più soleggiate.
Aveva immaginato spesso il luogo in cui era venuto al mondo, si era figurato spiazzi di terra brulla e vicoli contornati da case spoglie. Altre volte aveva immaginato grandi città immerse nel fumo delle prime industrie o villaggi fatiscenti sulla riva di laghi nebbiosi. No, un'idea così bucolica non gli aveva nemmeno sfiorato la mente, non quando era convinto che nulla di bello avrebbe mai potuto sfiorare nemmeno per sbaglio la sua esistenza.
Lui e suo fratello erano arrivati a Saint-Gaudens nel pomeriggio ma avevano atteso che facesse sera per entrare nella cittadina e raggiungere la casa dei Dubois.
Appena oltrepassata la soglia Alexandre aveva cercato i fiammiferi per accendere un lume ma Erik lo aveva fermato: non voleva guardare. Procedendo nella penombra aveva trovato un sofà, si era disteso e aveva finto di addormentarsi. In realtà non aveva chiuso occhio, era rimasto sveglio e vigile. Una parte di lui diceva che era perché non si sentiva sicuro fuori dal suo nascondiglio, ma in fondo sapeva che voleva solo prendersi altro tempo per pensare, riflettere su cosa fare quando il giorno lo avrebbe costretto a guardare in faccia quella vita che avrebbe potuto avere e che gli era stata strappata.
E il giorno arrivò, quasi in punta di piedi, strisciando quatto in sottili lame di luce che si allungavano furtive come sentinelle nemiche, facendo riaffiorare a poco a poco i colori della carta da parati, le tinte vivaci delle tappezzerie, le forme eleganti dei mobili e i quadri alle pareti.
Erik fu costretto ad aprire gli occhi su un salotto quadrato arredato in maniera un po' troppo vistosa, con quell'autocompiacimento con cui le famiglie benestanti talvolta tentano di ostentare la propria agiatezza. L'immaginazione, che per lui era sempre stata una luce fatua capace di illuminare per un attimo gli angoli bui della sua esistenza, quel mattino compì un lavoro impietoso gettando davanti ai suoi occhi scene tanto luminose da essere abbaglianti: un pranzo di Natale consumato in mezzo ad un allegro vociare proprio lì a quel tavolo, un bambino che ride trascinando un cavalluccio di legno proprio lì su quel divano, una madre che ricama sentendo il precettore elencare le doti di suo figlio e... un padre fiero di sé, di essere riuscito a sbarazzarsi della mela marcia nel suo cesto di leccornie.
«Prendila come una medicina dal sapore cattivo» disse una voce nella mente di Erik, una voce che somigliava sorprendentemente a quella di Christine. «Prendila come una medicina, all'inizio è tanto amara ma poi ti aiuterà a stare meglio».
Tanto amara... forse troppo, in un modo che non prospettava alcun tipo di benessere.
Eloise avrebbe scherzato sul suo pessimismo. Ma Eloise non era lì, come non era lì nemmeno Christine, tanto che il ricordo dolce dei suoi baci cominciava a bruciare.
Un rumore sordo giunse dalle scale accanto alla porta del salotto, Erik sobbalzò guardandosi attorno ma vide solo Alexandre che entrava zoppicando.
«C'è un'asse rialzata sull'ultimo gradino» sbuffò il giornalista. «Manco da troppo tempo per ricordarmelo»
«Grazie per avermelo fatto presente» commentò Erik in tono asciutto. «Anche io manco da troppo tempo per ricordarmelo».
Alexandre si passò una mano tra i capelli e nascose uno sbadiglio. Era spettinato, la camicia sgualcita cadeva in disordine fuori dai calzoni e i suoi occhi dicevano chiaro e tondo che anche per lui non la notte non era stata particolarmente rigenerante.
Il viaggio era stato lungo, ma a guardare l'ombra che incupiva lo sguardo del suo fratello maggiore pensò che il peggio doveva ancora venire. 
«Non metterti a fare il lagnoso!» esclamò, convinto che l'unico modo efficace di tenere testa al suo malinconico compagno fosse quello di prenderlo di petto. «Mi serve una mano».
L'uomo gli lanciò uno sguardo vagamente infastidito,
«Tua madre non ti ha insegnato a vestirti da solo?»
«Oh andiamo! Non sei curioso nemmeno un po'? Aiutami a cercare in casa, magari troveremo qualcosa su di te».
Erik rispose con uno strano singulto a metà tra un lamento e una risata di scherno, ma Alexandre lo tirò per un braccio e lo trascinò fuori al salotto portandolo al piano superiore dell'edificio.
La casa che Simon Dubois aveva acquistato per sé e la sua famiglia era una palazzina a due piani. Al pianterreno c'era il salotto dal quale era stato ricavato anche un piccolo studio, la cucina e un piccolo alloggio riservato alla domestica. Al piano superiore si trovavano invece le camere da letto e una grande stanza da bagno con una vasca di porcellana.
L'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera seguì il giornalista mentre si muoveva da una stanza all'altra, osservando i mobili come se si aspettasse che il legno delle ante cominciasse a parlare per rivelargli dove trovare ciò che stava cercando. Se Erik era incuriosito dal luogo in cui si trovava non lo diede a vedere, ma i suoi occhi stavano assorbendo ogni immagine trasformandola in pensieri gelidi come il nevischio che ricopriva le strade del paese.
Eppure l'odore di quel vento gli piaceva...

La stanza da letto patronale era ampia e quadrata, i mobili erano tutti in legno di ciliegio e decorati ognuno con i medesimi intagli, come se fossero stati costruiti tutti insieme.
Erik aveva notato che Alexandre aveva dormito in quella che doveva essere stata la sua camera, perché il letto della stanza patronale era ancora coperto dal telo che proteggeva il materasso dalla polvere e le imposte delle finestre erano ancora chiuse. Evidentemente il ragazzo conservava ancora  una certa soggezione verso i suoi genitori.
«Ma certo!» esclamò all'improvviso Alexandre indicando il grosso comò alla sinistra del letto.
Erik camminava svogliatamente dietro di lui e quasi non fece caso a suo fratello che si era diretto verso il mobile e aveva cominciato a tirare via un cassetto, facendolo scivolare fuori dal binario e posandolo sul pavimento.
Il cassetto, come probabilmente il resto dei mobili, era vuoto: la famiglia Dubois, o almeno quello che ne rimaneva, non contava di tornare tanto presto a Saint-Gaudens.
Alexandre sollevò il pannello coperto di velluto che faceva da fondo al cassetto e bussò sul piano di legno duro,
«Ha un doppio fondo, è qui che mio padre conservava i documenti più importanti. Sai lui era un notaio, aveva una cura per questo genere di cose» spiegò.
Erik si chinò ad osservare il cassetto e vide il foro di una piccola serratura nell'angolo del vano rettangolare,
«Immagino avesse anche cura di conservare la chiave in un posto difficile da trovare» commentò con un sospiro.
Alexandre sorrise divertito,
«Aprilo, avanti!» esortò.
L'uomo arricciò le labbra e finse di non capire
«Suvvia, il Signore delle Botole che difficoltà potrà mai avere nel forzare una serratura così piccola?» insistette il giornalista.
Erik scrollò le spalle. Se quel giovane sconsiderato voleva puntare alla sua vanità per convincerlo a fare qualcosa aveva sbagliato la leva da smuovere.
«Lo stai facendo per me, Alexandre? O è solo un modo di saziare la tua caparbia curiosità» sibilò l'uomo, ritrovando per un attimo lo sguardo e il tono di voce che erano appartenuti al Fantasma.
«Ho vissuto la mia vita in questa casa, all'oscuro di un segreto che ha rovinato la vita di mia madre oltre che la tua. Penso di avere il diritto di sapere, come ce l'hai tu» replicò il giovane.
«Il fatto che io abbia il diritto di sapere non implica che abbia voglia di farlo».
Il vento fece eco sbattendo conto i fianchi delle montagne, gli spifferi che penetrarono attraverso il legno delle imposte erano gelidi come la voce di Erik. Alexandre stava per replicare qualcosa, ma un'energica bussata di porta lo fece sobbalzare. Si alzò e si avvicinò alla finestra che affacciava davanti alla porta della casa, poi aprì le ante quel tanto che bastava a guardare fuori.
Erik si stupì del tuffo al cuore che aveva provato quando aveva sentito il bussare alla porta. Aveva paura che qualcuno fosse riuscito a trovarli, che da Parigi qualcuno li avesse seguiti. Dov'era finito tutto il suo sangue freddo?
«Oh, no...» sospirò Alexandre affrettandosi a chiudere gli scuri e allontanandosi dalla finestra.
«Chi è?» chiese Erik in un filo di voce.
Quando suo fratello si voltò a guardarlo aveva un'aria indecifrabile.
«Tu resta qui!» intimò il giornalista. «Non fare niente, per nessun motivo»
«Chi è?!» ripeté Erik allarmato, ma non ottenne risposta, Alexandre corse via verso le scale che portavano al pianterreno. Dal basso arrivò un'altra bussata più forte e insistente. Il Fantasma dell'Opera si chiese se non fosse il caso di tornare e sbrigare le faccende che l'uomo che ora aveva preso il suo posto non sembrava più in grado di gestire.

La porta di casa Dubois si aprì con uno scatto, cigolando sui cardini. La ragazza trovò quel cigolio piacevolmente melodioso.
«Alexandre! Che piacere rivederti!» esclamò appena vide il giovane comparire oltre il battente.
«Buona giornata, Corinne» borbottò il giornalista.
Corinne Moreau non doveva avere più di vent'anni. Setosi boccoli biondi sfuggivano alla cuffia di lana, i suoi occhi chiari scintillavano di entusiasmo.
Suo padre era un giudice molto influente ed era amico di vecchia data della famiglia Dubois. Quando Corinne era poco più di una bambina, Alexandre veniva a darle lezioni di letteratura e nel sentire il bel giovane decantare i sonetti di Shakespeare e i versi dei poeti latini, la ragazzina aveva deciso, fin dall'età di tredici anni, che avrebbe sposato quel ragazzo. Se lui fosse d'accordo o meno era un particolare su cui la fanciulla non aveva ritenuto necessario soffermarsi. Una volta raggiunta l'età da marito, la ragazza, bella e ricca, non aveva avuto difficoltà a trovare pretendenti, tuttavia i suoi genitori si erano mostrati felici quando aveva confidato loro di provare una certa tenerezza per il figlio del notaio, il padre di Corinne e Simone Dubois ne avevano discusso e avevano trovato che fosse una splendida idea far fidanzare i ragazzi. Poi però Simone era morto prima che le famiglie potessero ufficializzare la questione e Alexandre si era chiesto se non fosse un obbligo d'onore accettare quel fidanzamento tanto sperato da suo padre, malgrado il genitore non si fosse mai mostrato all'altezza dell'affetto di suo figlio. Tuttavia, l'idea di un fidanzamento con quella ragazzina capricciosa non aveva mai allettato troppo Alexandre, il quale aveva colto al volo l'occasione di trasferirsi a Parigi e porre fine alla questione.
Quello che il ragazzo non si aspettava era che Corinne lo stava ancora attendendo e nel ritrovarsela davanti quella mattina comprese quanto fosse profonda l'infatuazione della fanciulla. E la cosa non gli piaceva affatto.
«Ho saputo che eri tornato» cinguettò Corinne.
«Da chi?»
«Dalla mia cameriera, che lo ha saputo da sua figlia, che lo ha saputo da suo cognato che fa il custode notturno presso il cimitero e che ti ha visto arrivare a casa in tarda sera, insieme a un altro signore».
Alexandre alzò gli occhi al cielo, si era illuso che nessuno avesse notato Erik, ma nemmeno la notte può nascondere davvero qualcosa in un paesino come Saint-Gaudens.
«Sono davvero contenta di vederti!» aggiunse Corinne. Sì, glielo aveva già detto.
«Oh... certo... anch'io» mentì il ragazzo.
«Non vedo l'ora di sentirti raccontare di Parigi! Di sicuro lì non fa freddo come da noi, hai sentito che vento oggi? Non è proprio il caso di starsene all'aperto». Il giornalista finse di ignorare l'esclamazione della giovane e la velata richiesta che conteneva, non poteva certo farla entrare in casa.
«Infatti, non saresti dovuta uscire con questo tempo» disse Alexandre cercando di imprimere a quelle parole tutta la gentilezza che riuscì a racimolare, ma si accorse subito dell'espressione prossima al pianto che stava comparendo sul volto di bambola di Corinne quindi si affrettò ad aggiungere: «Il mio compagno di viaggio deve ripartire presto, si è fermato qui solo per una breve sosta ma è diretto altrove, appena se ne sarà andato potremo prendere un tè assieme e parlare senza orecchie e occhi indiscreti».
Lo sguardo della giovane si illuminò quando il suo cuore innamorato interpretò quelle parole come una manifestazione palese della voglia che aveva Alexandre di rimanere solo con lei. Presa dall'entusiasmo, Corinne prese una mano del giovane tra le sue e la strinse. Lui deglutì.
«Sono così contenta di rivederti!»
«Lo so, lo hai già detto...»
«Oh Alexandre, mi sei mancato» la fanciulla arrossì. «Io... tutto questo tempo non ho fatto altro che pensare a quando saresti tornato. Non ho fatto altro che chiedermi se al tuo ritorno mi avresti voluta ancora».
In quel momento la mente di Alexandre proiettò le immagini di un sogno in cui lui le gridava che non l'aveva mai voluta, che aveva per la testa cose talmente grandi che il suo cervello da gallina non avrebbe compreso nemmeno se gliele avesse spiegate con dei disegni... ma nella realtà il giovane non poté fare altro che abbozzare un sorriso e sospirare,
«Dammi il tempo di concludere i miei affari con il mio ospite, poi avrai tutte le risposte che desideri» mormorò.
Le risposte ovviamente sarebbero state negative, ma le parole di Alexandre avevano riempito il cuore della fanciulla di romantiche speranze e tanto bastò a convincerla a lasciare il ragazzo ad occuparsi delle sue faccende.
Alexandre si sentì terribilmente meschino, ma doveva affrontare già abbastanza problemi senza che si aggiungessero anche quelli dovuti all'ira di una donna rifiutata. 

Erik aveva osservato la scena nascosto dietro la finestra. Aveva scosso il capo e aveva ghignato di divertimento. Chissà quella ragazzina cosa avrebbe fatto quando, alla fine di tutto, avrebbe scoperto che Alexandre non aveva minimamente intenzione di sposarla?
Era talmente abituato a guardare da spettatore le vite degli altri che non gli era difficile comprendere le persone e ciò che provavano, ma non c'era bisogno di essere particolarmente abili per capire che l'infatuazione della giovane per Alexandre non era niente di più che un capriccio alimentato da fantasie infantili.
Cosa avrebbe fatto lui se Christine lo avesse rifiutato? Non poté fare a meno di chiederselo, ma non trovò risposta. Il Fantasma dell'Opera avrebbe scatenato l'inferno, avrebbe fatto crollare il mondo sotto il peso della sua rabbia. Ma il Fantasma dell'Opera non c'era più o, se c'era, era ben lontano da lì...
Irritato dalla voce stridula di Corinne che stava ripetendo per l'ennesima volta quanto era contenta di rivedere Alexandre, Erik si costrinse a concentrarsi su qualcosa d'altro per distrarsi e reprimere l'impulso di gettare addosso alla ragazzina un secchio di acqua gelida. Guardò la stanza nella penombra delle finestre chiuse e si ricordò del cassetto, lo raccolse da terra e lo posò sul letto. Si guardò attorno cercando qualcosa che fosse utile al suo scopo, trovò un cesto di attrezzi per il ricamo appoggiato su uno sgabello dietro a un paravento, prese uno di quei ferri sottili utili per i lavori a maglia e lo introdusse nel foro della serratura cercando la minuscola leva del meccanismo di apertura.
Come aveva previsto Alexandre, il Signore delle Botole non trovò difficoltà.
L'uomo sollevò il doppio fondo del cassetto e vide che all'interno conteneva diverse cartelle di cuoio piene di fogli, alcuni ingialliti, alcuni ancora bianchi.
Ciò che cercava stava tra i documenti più vecchi, lì dove la carta si era fatta fragile e l'inchiostro stava sbiadendo.
Per quanto sbiadite, però, le parole sul foglio che aveva trovato in fondo alla cartellina ebbero il potere di fargli sanguinare il cuore. La mente di Erik tentò di aggrapparsi ai bei ricordi del volto di Christine, al pensiero di un loro figlio in arrivo... ma non fu sufficiente.
Evidentemente non bastava un viaggio nel luogo in cui era nato per colmare le distanze tra lui e la vita che gli sarebbe spettata ma che non aveva vissuto. E adesso non voleva raccogliere gli spiccioli di quell'esistenza...
Adesso voleva solo odiare, abbandonarsi alla rabbia come solo il Fantasma dell'Opera sapeva fare.

Quando Alexandre si liberò della sua sospirosa ospite e tornò di sopra, trovò la stanza illuminata da una fioca lampada ad olio ed Erik in piedi davanti al letto con un foglio tra le mani. Mani che tremavano, vibravano come la corda dell'arco che si tende caricando il colpo.
Il ragazzo si avvicinò al fratello e senza dire nulla sbirciò il foglio. Era il certificato di morte di Erik Dubois, un bambino spirato all'età di quattro mesi.
Quattro mesi... tanto era stato il periodo di tempo in cui suo padre aveva tollerato la presenza di quello scherzo della natura in casa sua.   


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Il siparietto Alexandre vs.Corinne non era previsto, mi è scappata la penna! Era giusto per stemperare un po' la tensione.
 Lo so, sparisco per un tempo insostenibile e poi me ne esco con un capitoletto di passaggio... ma questa davvero non è colpa mia, prendetevela con le esigenze di trama.
 A presto (promesso)



Capitolo reinserito il 30\12\2011
   
 
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