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Autore: Silent Night    18/09/2010    4 recensioni
In un paesino nei pressi di Genova, a due passi dal caos della città e tre dall'eccitabile distesa azzurra del Tirreno, tanti piccoli mondi s'avvicinano e s'allontanano l'uno dall'altro, come in un valzer in cui è proibito sfiorarsi, le solite routine finiscono inevitabilmente con l'intrecciare i fili di troppe vite, infrangendo così le regole di quel ballo, provando così che l'insolito non può trovarsi che in ciò che è consueto.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mia madre mi disse
Non devi giocare
Con gli zingari
Nel bosco
Mia Madre mi disse
Non devi giocare
Con gli zingari
Nel bosco.
Ma il bosco era scuro,
L'erba già verde,
Lì venne Sally 
Con un tamburello.
Ma il bosco era scuro, 
L'erba già alta,
Dite a mia madre
Che non tornerò.


destin.sep. Quel posto non le piaceva; puzzava di vecchio e di disinfettante, come fosse un’ospedale. Neanche gli ospedali le piacevano particolarmente, con le loro mura bianche ed anonime, che parevano avere l’unica utilità di ricordare a chi le osservava che in posti del genere non c’era nulla di allegro, niente di cui poter gioire o con cui rallegrarsi. Un Dio in cui non aveva la minima voglia di credere le aveva concesso di vivere tenendosi bene alla larga dagli ospedali, se non per far visita ad altri, e non aveva la minima voglia di rimediare alloggiando in un luogo che potesse anche solo lontanamente assomigliarvi.

Era una ragazza strana, Kath, notevolmente, e certo non era quello il suo nome di battesimo, – Che invece era Katerina – ma a lei questa particolare versione garbava, e perciò l’aveva data per buona, tanto che il suo vero nome quasi l’aveva dimenticato: persino i parenti oramai la chiamavano in quell’altra maniera, o Kathye, tutt’al più. Evidentemente pronunciare un nome per intero costava loro uno sforzo troppo grande.

Era appena entrata nell’appartamento che aveva affittato per due lire da un vecchio amico, che un’alito al sapor di rose la travolse come uno schiaffo in viso, facendo vacillare pericolosamente il pessimo giudizio che così affrettatamente aveva dato su quel luogo. Posata la sacca nero inchiostro sul letto dalle lenzuola grigio perla, si lasciò poi ricadere di peso accanto a quest’ultima; dietro la frangia di capelli scuri la fronte era imperlata di sudore, dopo aver trascinato a fatica per tre piani di scale due valigie stracolme di roba, tra abiti e tecnologia delle tipologie più varie; ed ancora non aveva finito con i libri. Ecco, quella era la parte più divertente, a pensarci: aveva un paio di migliaia di tomi di centinaia e centinaia di pagine l’uno, che avrebbe dovuto caricarsi in spalla per più di sessanta gradini. Allegria.

Al terzo carico di duecento libri, – tra enciclopedie di medicina e dizionari di filosofia e qualche poesia d’autore – fece la sua comparsa, accompagnato dalla chioma biondo miele che Kath sospettava amasse più della sua stessa madre, Julian, il proprietario dell’appartamento che aveva affittato- Il meglio che era riuscita ad ottenere con i soldi che guadagnava mensilmente con il lavoro che aveva; E non le era andata neanche male, visto il prezzo oscenamente basso che le era stato richiesto periodicamente dall’amico. Naturalmente aveva precedentemente valutato ogni altra possibilità, prima di accettare un favore da Jul. Non le piaceva l’idea di essere in debito con lui; – in realtà odiava l’idea di essere in debito con chiunque, ma quella di esserlo con lui in particolare la disgustava – perchè i debiti vanno saldati, e lei lo sapeva bene.

“Serve una mano? va' a riposarti, di là c’è una vasca piuttosto ampia, puoi farti un bagno mentre io finisco di portare di sopra i tuoi libri, Immagino tu sia stanca.”

L’espressione di Kathye bastò a farlo sorridere con soddisfazione: era più che conscio del fatto che in una situazione più o meno comune si sarebbe categoricamente rifiutata di accettare quella proposta, orgogliosa com’era. Troppo per ammettere d’avere anch’essa dei limiti oltre i quali pur volendo non riusciva a sconfinare.

“Grazie, non mi reggo più in piedi.”

Ammise lei, riconoscente, abbandonando le pile di libri che in seguito avrebbe provveduto a sistemare sulle varie mensole affisse alle pareti. Entrò in bagno strusciando i piedi a cui portava ancora le scarpe da trekking che aveva indossato quella stessa mattina, quando aveva iniziato a trasportare le scatole con tutto ciò che le era necessario per il trasloco. Aveva le palpebre pesanti: quella notte non aveva chiuso occhio, – La voglia di dormire l’aveva avvertita, ed anche piuttosto distintamente, ma la sua sfera emotiva era talmente monopolizzata dalla rabbia repressa che non c’era stato verso d’addormentarsi. –  dopo esser rientrata a casa alle tre ed aver discusso piuttosto animatamente con i suoi genitori. Sfilatasi le scarpe, prese stancamente a togliersi di dosso i vestiti, che accaldata com’era iniziavano a darle fastidio al solo contatto con la pelle; ed aprì il rubinetto dell’acqua fredda, versando intanto nella vasca una notevole quantità di bagnoschiuma. In genere preferiva limitarsi ad una doccia gelida, ma quella volta aveva urgentemente bisogno di qualcosa che fosse più risanante ancora. S’immerse dolcemente, adagio, in quel mucchio di schiuma, ed un brivido le corse lungo la schiena, a fior di pelle. Scivolò lentamente sulla superficie liscia ed immacolata finchè l’acqua non giunse al livello delle sue spalle, interamente ricoperta di bolle di sapone. Non che amasse di quella roba, ma era vagamente ossessionata dall’ordine e dalla pulizia, e la cosa non vedeva esonerata la sua stessa persona. Arrivava anche a far tre docce al giorno, se necessario.

Lasciò la mente libera di vagare dove fosse capitato, per quanto i suoi ragionamenti non fossero poi molto vari: possedeva un intelletto non trascurabile che teneva saldamente al guinzaglio, così da poter vivere la sua breve e vuota esistenza in maniera oscenamente materiale, sfruttandola al meglio, per come la vedeva lei. Era fermamente convinta che in quel mondo d’ipocrisia e falsità l’unico modo per non venir perpetuamente presi per il naso fosse rispondere con la stessa ipocrisia e la medesima falsità con le quali si veniva aggrediti. Tentando di contrastare un sistema infame, da quest’ultimo era stata inglobata, – Lentamente, senza rendersene conto – e da troppo tempo ormai era nulla più che l’ennesimo ingranaggio d’un colossale orologio che contava a rovescio il tempo che restava, prima che tutte quelle ingiustizie, tutti quegli inganni e quei dolori, tornassero a presentare il conto, portando il sistema stesso al collasso.

Le venne da pensare a Julian. Era un amico, un vecchio amico. Le venne da pensare a tutti quelli che con troppa naturalezza erano entrati a far parte della sua vita, e nella stessa maniera, – quando silenziosamente, quando accompagnati dal rumore di vetri rotti. –  ne erano usciti. Julian aveva da sempre un debole per lei, sin dai tempi del liceo, e già da allora Kath stentava a sopportare il senso d’oppressione che le procuravano gli spasimanti, tutti quegli zerbini senza un minimo di dignità personale. Quando Jul aveva capito che le cose stavano a quel modo, aveva provveduto a cambiare sensibilmente i suoi modi, comportandosi con più naturalezza ed in maniera decisamente meno ossequiosa nei confronti di lei, che senza neanche accorgersene aveva preso ad udire realmente quel che diceva quando apriva bocca, ad andarci d’accordo. Tuttavia non gli aveva mai concesso alcuna delle soddisfazioni in cui lui sperava tanto. Non era tipo da tali dimostrazioni di generosità, e poi non era onestamente interessata a nessuno, tantomeno ad un amico. Ecco perchè la allarmava l’idea di abitare in un appartamento le cui chiavi fossero anche in mano sua.

La porta era rimasta schiusa d’un paio di centimetri, e lei non se ne era resa conto. Trascorsa una ventina di minuti si decise a metter piede fuori dalla vasca da bagno, avvolgendosi in un asciugamano dello stesso colore delle lenzuola: grigio. La pelle di lei era d’un pallore spettrale, come di consueto, e a stonare in quel chiaro scuro di non-colori erano soltanto gli occhi di lei; Blu. Due gemme che parevano far fatica a non brillare di luce propria, come fossero l’unico dettaglio colmo di vita, in un ritratto in bianco e nero.

***

Sotto un cielo di piombo, i capelli castano chiari sfioravano appena le spalle di quel vestito grigio fumo, che con gentilezza avvolgeva la figura esile d’una donna che a ventidue anni appena aveva già dato  al mondo tutto ciò che c’era da dare. Guardava fisso davanti a sè, restando seduta su una panchina di ferro scuro. Un bimbo di appena tre anni la fissava di rimando, sorridendo spensieratamente, e dondolando le gambe dall’altalena – troppo alta per lui – su cui lei l’aveva aiutato a sedersi.

Pareva persa nei suoi pensieri, ed in effetti lo era, innegabilmente. Lei era tornata, gliel’aveva detto Julian, che come Kathye non si faceva sentire da un po’. Non aveva notizie dell’amica da quando i suoi avevano deciso di traslocare, un paio d’anni prima, andando ad abitare a Verona; e mai avrebbe immaginato che il momento che aveva tanto atteso, quello in cui la sua Kath avrebbe ottenuto la libertà che tanto bramava, finalmente s’era deciso ad arrivare. Era sicura che l’avrebbe cercata, – ci sperava con tutta l’anima – continuava a ripetersi ch’era solo una questione di tempo. Ed infatti, il giorno prima, le era giunta La telefonata: Katerina la voleva al parco pubblico di fronte a Piazza Dei Gigli, sotto casa, non appena fosse stata l’alba. Era un orario piuttosto insolito, ma con quella donna c’era da aspettarsi di tutto, e Kath indubbiamente sapeva che l’altra non avrebbe fatto storie nè opposizioni. Non si vedevano da tanto, troppo tempo.

Nonostante fosse estate inoltrata, il clima era polare; com’era prevedibile a quell’ora, e lei, come da copione, era arrivata in anticipo di un quarto d’ora abbondante, nonostante avesse impiegato più tempo del dovuto a svegliare il bambino. Onestamente s’era sentita davvero in colpa nel farlo, ma non poteva certo lasciarlo in casa da solo. Il piccolo Eli non aveva ancora trentasei mesi, e già non aveva padre. Nora era rimasta incinta quand’era ancora molto giovane, e da quando il bambino era stato concepito, nulla era più andato per il verso giusto. Nonostante ciò aveva cara la sua creatura almeno quanto la vita. Un ticchettio di passi che si faceva via via più distinto ridestò la donna dai suoi pensieri, ma più di tutto quella voce:

“È da un po’ che non ci si vede.”

Osservò Kath, con il suo tipico tono incolore, vagamente beffardo al contempo, ed un mezzo sorriso in volto, giunta ad un paio di metri scarsi da dove sedeva l’altra. Quella volta, tuttavia, il suo viso tradiva un vago senso di disagio.

“Kathye!”

Sul volto dell’altra comparve un’espressione di puro giubilo, mentre buttava le braccia al collo all’amica, subito dopo essersi alzata di slancio. Katherine assunse un’aria vagamente scocciata, sebbene forzatamente: si mostrava sempre disgustata da ogni tipo di smancerie, ma con Nora le riusciva sempre molto difficile. Era una ragazza così buona..

Appena l’altra s’accorse del vago accenno rosato comparso sulle gote in genere bianco latte dell’amica, di scostò immediatamente, unendo le mani dietro la schiena, come a scusarsi d’esser stata così poco posata, al contrario dell’amica che invece era il distacco fatto a persona. Kath accennò un sorriso, facendole cenno di prendere con sè Ely, e prese a camminare in direzione della sua auto.

“Cresce bene, ne convieni?”

Osservò pacatamente la mora, gettando una rapida occhiata in direzione del bambino. Non aveva mai sopportato i ragazzini, ma con il figlio di Nora era diverso, le aveva sempre inspiegabilmente ispirato simpatia.

“Già”

Confermò amorevolmente lei, stringendo dolcemente la mano del figlio – che continuava a sorridere a Katerina ormai da qualche minuto -, incitandolo a camminare accanto a lei, finchè non furono saliti entrambi in macchina.

“Hai già trovato lavoro?”

La voce di Nora era quella d’una persona che tenta di interagire con un’altra attraverso un muro, un muro che temeva di non riuscire ad abbattere. Voleva che tutto tornasse com’era una volta, tra loro, lo desiderava ardentemente.

“E’ lì che stiamo andando.”

Fu la risposta ermetica dell’altra, che teneva gli occhi fissi sulla strada mentre metteva in moto ed ingranava la marcia. Nora s’occupò delle cinture di sicurezza per lei e per il figlio, mentre divoravano a velocità impressionante quel paesaggio cupo d'erba secca ed asfalto, coperto da un cielo grigio che andava ormai sfumando in avorio in vista dell'alba. Era rimasta ad osservare la rosa nero petrolio impressa sul collo pallido dell’amica; la prima di tante, che le percorrevano almeno metà della schiena, legate tra loro da scuri grovigli di rovi. Era appropriato, in un certo senso; a parer suo Kath era proprio come una rosa presa in ostaggio da una prigione di spine: bisognava impegnarsi non poco per oltrepassare quell’ostacolo e raggiungere così la sua fragile e sfuggente bellezza.

Passato qualche minuto furono già nel mezzo d’un corridoio ove la luce scarseggiava, nonostante le pareti d'un bianco spettrale rendessero l’effetto contrario. Non un rumore che non fosse conseguenza del loro camminare disturbava il silenzio spettrale di quel luogo, dove 'fin i loro respiri risuonavano chiari e decisi come fossero stati strillati. Nonostante ciò, lì non c’era la quiete che ci si sarebbe aspettata da un luogo com’era ad esempio un cimitero, tutt’altro. In quel cupo obitorio l’aria era satura d’inquietudine, con un minimo di sensibilità si poteva notare anche un senso d’insoddisfazione, e tutt’altro che pace. Già non apprezzava, per l’appunto, i cimiteri; figurarsi quanto potesse sentirsi a suo agio in un posto come quello. Erano entrati in un’altra stanza, dove Nora sapeva esser tenuti i cadaveri: Non era una novità che Kath lavorasse in posti del genere.

“Mi pare d’avertelo ripetuto tante volte, no? I morti restano morti; non è necessario aver quell’aria tesa.”

Osservò distrattamente la donna più grande, avendo notato che l’amica continuava a guardarsi nervosamente attorno, come temesse di veder spuntare dal nulla uno zombie da un momento all’altro. Poggiò la propria borsa su di una scrivania di legno foderato d’un sottile strato di plastica lucida, anch’essa bianca, esatto. Kath trovava effettivamente tutto quel bianco un po’ accecante, specie per i suoi gusti, ma era l’ambiente in cui riusciva a star bene, quello: nutriva un rispetto decisamente maggiore per i morti, piuttosto che per i vivi. Nora e Katerina avevano evidentemente un modo di filtrare quello ch’era l’ambiente che le circondava del tutto diverso, Loro erano del tutto diverse, e diverso era il loro modo d’agire: L’una era semplice ed ingenua, l’altra era capricciosa e bugiarda, come acqua e fuoco; ma come due facce d'una stessa medaglia non riuscivano a far a meno l'una dell'altra per troppo tempo, sentendosi in tal caso come prive di una loro metà.

“Oh, avanti, lo sai che posti di questo genere sembra servano soltanto a sottolineare che presto o tardi toccherà anche a noi raggiungere i tuoi vivaci clienti.”

Si lamentò Nora, stringendo a sè Ely, mestamente.

“A Te, ricordano una cosa del genere.”

La corresse l’altra, sorridendo quasi con dolcezza. Aveva già indossato i guanti in lattice ed il camice bianco che utilizzava da sempre per il suo lavoro.L’altra si strinse imbarazzata nelle spalle, sentendosi decisamente stupida, e distolse lo sguardo, invitando anche il bambino a voltarsi: non aveva una gran voglia di osservare l’amica mentre frugava nelle interiora d’un morto.

“Immagino tu non abbia ripreso con l’università, sbaglio?”

L’altra scosse la testa, sedendo alla scrivania di Kath con in braccio il figlio, e tornando a spostare lo sguardo fino ad incontrar quello disinteressato dell’amica.

“No, non sbagli. Non m’andava di lasciare Ely con una baby sitter, sono già sufficientemente in pena perchè a breve dovrò lasciarlo andare in una scuola materna.”

Ammise, tormentandosi le mani, mentre il diretto interessato la osservava docilmente perplesso, poggiando il capo contro il petto della mamma. Kath s’aspettava una risposta del genere, e la condivideva, ma non lo disse; anzi:

“Tu ti preoccupi sempre troppo. Lo sai piuttosto che senza una laurea e con quel lavoro part-time da due soldi che hai non andrai molto lontano?”

Questa era invece una questione che le premeva; i soldi non crescevano sugi alberi. Nora abbassò lo sguardo; era conscia che i soldi ricavati dalla vendita dell’appartamento dove avevano vissuto lei ed il padre di suo figlio non sarebbero potuti durare per sempre, e di conseguenza aveva dovuto trovare lavoro in un pub, nonostante non le si addicesse minimamente. Inoltre non aveva intenzione alcuna di approfittare dei risparmi d’una vita della madre, presso cui abitava allora; e sperava con tutto il cuore di non rimanere senz’altre alternative. Di una cosa, tuttavia, era certa:
Kath aveva in mente qualcosa, e lei era maledettamente curiosa.

***



Salve a tutti, non mi dilungherò riguardo la storia, nè darò spiegazioni che non abbia dato durante il primo capitolo, semplicemente se v'interessa leggete il seguito o lasciate un commento, e ne sarò felice. Ci terrei soltanto a scusarmi se non aggiorno le altre storie da più d'un mese, ma non ho avuto connessione internet per parecchio tempo, di conseguenza non sono stata assente di mia volontà. Ne sono comunque molto dispiaciuta, ed appena riuscirò, inoltre, a trovare l'ispirazione perduta(?), aggiornerò ogni cosa, promesso.
   
 
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