I Sinclair vivevano a Hermon da tali e tante generazioni che,
ridendo, il buon vecchio Jack chiosava: “Perché? Esiste altro oltre al Maine?”
Da quando un loro illustre conterraneo – era di Bangor, il re
dell’horror, ma che importanza poteva mai avere? Erano solo un pugno di
chilometri – aveva reso celebre quella terra inospitale, dai silenzi
inquietanti, boschi neri e tetraggini disperate, un Sinclair avvertiva ancora
più forte la fierezza che gli nasceva dall’appartenenza a una schiatta rocciosa,
uomini da bosco e da lago, grandi cacciatori e robusti bevitori di idromele. Una
vita semplice, intrisa di necessità, più che di bisogni. Una vita che il suo
essere spartana rendeva anche incredibilmente libera.
Jack Sinclair gestiva lo spaccio caccia-e-pesca di Hermon.
Sua moglie Donna – Donna Smith, degli Smith di Detroit, Maine – stava alla
cassa, si occupava di beneficenza e cucinava la migliore torta di mele del
vicinato.
Si erano sposati giovanissimi, a metà degli anni Sessanta. Un
incidente di caccia, che gli aveva portato via un occhio, aveva salvato Jack
dalla chiamata che aveva decimato una generazione: niente Vietnam per un
ragazzone di quasi due metri, che la fissità inquietante di un glauco bulbo di
vetro non aveva tuttavia privato di una sua particolare, selvatica bellezza.
Un occhio in meno, – diceva Jack, – mi ha salvato tutte e due
le chiappe. Uno scambio conveniente, no?
Era anche un pescatore di talento e un eccellente cacciatore,
il vecchio Jack: gli piaceva alzarsi alle cinque del mattino, negli autunni
precoci e nebbiosi del Maine che trasformavano le rive dell’Hermon Pond in una
suggestiva ragnatela di fumi, caricare il fucile e liberare Sturm, un bracco di
cinque anni che amava come un figlio.
Di discendenti propri, Jack non ne aveva, perché Donna, come
avevano scoperto dopo fiumi di dollari e tentativi andati a vuoto, era sterile
come un deserto messicano. Ci aveva pianto fin quasi ad asciugarsi, la sua
povera moglie, né a consolarla erano bastate le impacciate rassicurazioni di un
uomo non freddo, ma tremendamente maldestro.
– Un figlio costa. Stiamo bene anche solo noi due, no?
Il tempo aveva guarito quella ferita e consolato una vecchia
frustrazione.
Nella piccola comunità di Hermon, in fondo, il concetto di
famiglia era stato secoli prima sostituito da quello di vicinato:
tutti erano i figli, i nipoti, gli zii di tutti. Donna, almeno, non aveva
mancato un solo giorno della propria vita d’essere assediata da una massa di
ragazzini uggiolanti per una fetta di dolce.
E poi c’era Eloise Scott, la fulva nipote dello sceriffo, che
lavorava come commessa nello spaccio e, negli anni, si era trasformata a tutti
gli effetti in una nipote adottiva.
Eloise mille lentiggini lo accompagnava talora a pesca,
guidava il pick-up meglio di certi viziati ragazzi di città, sapeva smontare e
lucidare alla perfezione una doppietta, e, dettaglio tutt’altro che secondario,
era legata a quei luoghi almeno quanto un Sinclair.
A dispetto delle sue coetanee che non vedevano l’ora di
abbandonare un buco in culo al mondo, Eloise era fatta della stessa sostanza del
Maine: bianca come la neve e dura come l’acciaio.
Di quando in quando Jack amava perdersi in fantasie innocue
che davano sostanza alle sue più radicate e imbarazzanti aspirazioni: si vedeva
a capo di una tribù di nipotini rossi e lentigginosi, elargiti dai lombi di
Eloise, moglie perfetta di un altrettanto perfetto – e purtroppo inesistente –
erede.
Ora che aveva superato la boa dei sessanta, che spruzzi
argentati avevano sostituito l’oro rosso di una barba folta e curata, Jack
cominciava a percepire la puntura del rammarico; ad avvertire il vuoto dove, per
oltre quarant’anni, aveva sempre intravisto il pieno perfetto di una vita di
soddisfazioni genuine.
Donna era una signora ancora piacente, ma lo costringeva a
fissare nella rovina del suo corpo anche quello che era il loro futuro a due:
una strada, ormai, quasi giunta alla fine.
Nessuno era immortale, anche se scampava a un incidente di
caccia che ti portava via un occhio, anche se salvava il culo dal Vietnam.
I loro ultimi anni sarebbero stati un reciproco spiare la
pensilina del capolinea: inevitabile e sempre più vicina.
Poi, però, era saltato fuori Brian. Era saltato fuori
qualcuno che sembrava davvero caduto dal cielo.
Jack non era mai stato un individuo religioso, né
superstizioso. Come tutti i cacciatori – quelli di una volta, almeno – credeva
in quello che chiamava ‘naturale equilibrio’. Quando venivi al mondo,
quel che c’era attorno ti faceva un po’ di spazio; quello che ti serviva, ecco:
un paio di pollici più in là ed eri già fuori misura.
Per tutta la vita, consapevole dei naturali limiti posti da
quanto ti circondava, dovevi fare attenzione al dare e al togliere.
Per ogni cosa che prendevi, dovevi restituire l’equivalente.
O, se non altro, evitare di essere ingordo.
Per Jack, Dio era un vecchio cacciatore saggio, che dosava in
modo accorto la neve come i miracoli. Non si aspettava di essere assistito, come
non si aspettava di trovarselo seduto accanto a bere idromele. Senz’altro,
soprattutto, non avrebbe mai immaginato di poter vedere esaudito quel desiderio
che nessuno – lui per primo – aveva mai verbalizzato.
Voglio un figlio.
Voglio qualcuno cui dare il mio nome, lasciare lo spaccio,
insegnare un mestiere.
Voglio qualcuno che sappia sparare e spalare la neve e
spaccare una catasta di legna senza farsi sfuggire una scoreggia nello sforzo
come capita ai signorini di città.
Voglio qualcuno con cui ubriacarmi e con cui incazzarmi e a
cui lasciare Sturm, se un malaugurato giorno dovesse prendermi un colpo.
Forse Dio c’era e aveva un udito molto fine, perché quel
desiderio che si era tenuto stretto, quasi vergognoso, in silenzio era stato
accolto e altrettanto discretamente esaudito.
*
Era il quindici maggio: i fortunati del resto del mondo erano
già impegnati a lamentarsi del caldo e del surriscaldamento globale, ma nel
Maine era forse appena primavera.
Donna aveva ordinato due casse di fragole per la confettura,
pur sapendo che, come ogni prodotto di serra, non avrebbero avuto sapore;
Gregory Norton si vantava di una gigantesca preda pescata nel Pond locale, senza
curarsi del fatto che le dimensioni del pesce, da subito incompatibili con
quella pozza, crescessero di un braccio a ogni racconto; Eloise aveva scaricato
anche il fidanzato della settimana.
Tutto normale, almeno in apparenza.
– Kenneth sta rimettendo a nuovo il rio e mi ha chiesto di
procurargli del filo da nassa, – aveva annunciato sulla soglia del negozio. –
Prendo il pick-up. Ci vediamo a pranzo.
Eloise e Donna non si erano prese la briga di rispondergli,
impegnate com’erano a servire i clienti del giorno – newyorkesi in vacanza con
una ridicola fissazione per il trekking e il foliage. Li vedevi a ogni cambio di
stagione: alla fine di agosto per le foglie, tra aprile e maggio, per il disgelo
e le nebbie.
Jack aveva liberato Sturm e permesso al bracco
d’impossessarsi del cassone come faceva in occasione di ogni loro trasferta. A
Hermon, quel furgone rosso che si annunciava prima con due rapidi colpi di
clacson, poi con un latrato caloroso e prolungato, era quasi un’attrazione
locale.
Erano le undici del mattino di una giornata limpidissima. La
commessa, a essere onesti, non gli avrebbe portato via più di un’ora, ma il lago
era una tentazione e, una volta tanto, non gli dispiaceva l’idea di lanciare la
lenza accanto a un vecchio amico.
Kenneth Sullivan era quel genere di persona che mai e poi mai
un Sinclair avrebbe creduto di poter chiamare compagno: mingherlino,
slavato come un inglese tenuto troppo a lungo a bagno nel latte, poco o nulla
avvezzo alla vita all’aria aperta.
Giornalista di un discreto successo negli anni Ottanta, era
poi diventato uno scrittore prestigioso, di quelli che ti obbligano a comprare e
a esibire il loro libro anche se fatichi a distinguerlo da un qualunque elemento
di arredo.
Si era trasferito nel Maine da Chicago perché – diceva lui –
non potevi creare dove il fracasso della vita azzerava il suono dei tuoi
pensieri. Era un intellettuale, insomma, un signorino: però era una brava
persona.
Aveva rilevato la zona attorno al Pond, abbandonata e in
malora, per restituire il vecchio porticciolo agli antichi splendori. Malgrado
l’aria fragile, si era imbarcato da solo in un lavoro titanico, fatto di
progetti, ma soprattutto muscoli e sudore. Si erano conosciuti perché, nei primi
mesi successivi al trasferimento, Kenneth era diventato la sua principale fonte
di reddito. Una chiacchiera dopo l’altra, era divenuto quasi uno di casa, per
quella legge della comunità che mira a integrare e a digerire chiunque, purché
quel qualcuno le permetta di invadergli la vita.
Sullivan si era mostrato aperto e accessibile.
Grazie alle sue migliorie, la pesca all’Hermon Pond era
tornata in auge – con ingenti rimesse per lo spaccio Sinclair – sicché Jack si
prestava anche a servigi cui nessun altro avrebbe avuto accesso, ivi compresa la
consegna a domicilio.
Quella che si era innescata tra il ruvido pescatore del Maine
e l’intellettuale di Chicago era una routine collaudata: Jack saltava sul
pick-up e si spingeva fino al confine meridionale della proprietà di Kenneth,
che lo accoglieva con un sorriso, una birra e una citazione. Jack non aveva mai
perso la speranza d’azzeccarne, prima o poi, l’autore al primo colpo. Da che
conosceva Sullivan, tuttavia, quell’evenienza non si era ancora mai verificata;
come, del resto, non era mai capitato che trovasse il cancello aperto, ma non
presidiato dallo scrittore.
– Questa mi suona nuova, – aveva borbottato, recuperando il
guinzaglio di Sturm.
Jack aveva imparato a credere nell’istinto da che era poco
più di un ragazzino e andava a caccia con suo padre, storico frequentatore dei
boschi, cacciatore per passione e contrabbandiere con il Canada, di quando in
quando, per necessità.
Era l’istinto quello che ti aiutava a non perderti e
l’istinto quanto ti salvava dalle coglionerie del neofita – tipo abbandonare un
sentiero battuto per inseguire una stupida farfalla.
L’istinto, quel bel mattino di maggio, gli diceva che c’erano
troppi dettagli fuori posto nel quadro; troppi, persino per una terra magica
come il Maine.
Poiché non era un codardo, quanto un uomo sicuro di sé e ben
determinato a far valere quella sua legge interiore persino sulla Storia,
Sinclair aveva comunque preso a inerpicarsi per il sentiero che conduceva alla
proprietà di Kenneth, fiutando l’aria né più né meno di Sturm, alla ricerca di
tracce sospette. E non ve n’erano: tutto era in perfetto ordine, quieto e
immacolato come ricordava di aver sempre visto quella zona.
– Magari ha ricevuto una telefonata all’ultimo minuto, –
aveva borbottato tra sé.
Il villino di Sullivan era una baita tanto ben tenuta da
essere inserita – e venduta – in una classe di lusso. Sorgeva vicino a una
roggia naturale, che lo scrittore si preoccupava di mantenere pulita e,
soprattutto, aveva trasformato in un pittoresco asilo per due grosse oche
aggressive quanto mastini.
Anche quel giorno, non a caso, avevano preso a starnazzare
come si era annunciato; Kenneth, per fortuna, si era affacciato poco dopo.
Non sembrava malato, né in pericolo, ma aveva l’aria stanca,
quasi non dormisse da troppe ore; soprattutto, non gli aveva offerto subito la
birra, né aveva tentato di umiliarlo con un aforisma pescato chissà dove.
– È successo qualcosa? – aveva borbottato perplesso.
– In un certo senso, sì. Se vieni dentro, ti spiego.
E nella villa di Sullivan aveva incontrato Brian.
– Tornavo da Bangor, ieri sera, quando l’ho trovato riverso
sul ciglio della strada.
A una rapida occhiata, il ragazzo aveva un’età compresa tra i
venti e i trent’anni. Molto alto, aveva il fisico di uno sportivo, o di qualcuno
abituato a una vita attiva, più che contemplativa. Il suo corpo era coperto
dalle piaghe di ustioni recenti – la più significativa, sulla spalla sinistra,
ricordava l’impronta di una mano femminile.
I documenti erano andati combusti nell’incendio in cui era
stato probabilmente coinvolto. Da quanto restava di un tesserino plastificato,
erano riusciti a risalire solo al suo nome: Brian. Il diretto interessato, a
detta di Kenneth, sembrava non ricordare proprio niente: chi fosse, cosa gli
fosse accaduto, cosa l’avesse portato fin lassù e chi, soprattutto, dovessero
interpellare perché una famiglia fosse rassicurata. Non aveva l’aria di uno
sbandato, men che mai di un tipo pericoloso: tutto lasciava piuttosto pensare a
uno studente universitario di buona famiglia, di quelli che passavano dalle loro
parti per turismo, salvo poi rimediare un due di picche da Eloise.
– Non hai pensato di avvertire lo sceriffo?
Il ragazzo dormiva come un sasso; benché non avesse l’aria di
un mollaccione, sembrava comunque esausto.
– Era molto confuso e spaventato. Sai come funziona
l’autorità… Ti si piazzano davanti e ti bombardano di domande. Ho pensato che si
sarebbe sentito ancora più disorientato. Forse persino minacciato.
– Allora cosa pensi di fare? Tenertelo come animale da
compagnia? Mi sembra un po’ troppo grosso.
Kenneth aveva tratto un profondo sospiro. – Perché credi che
abbia cercato te?
– Intendi? Io ho già Sturm, e non gradirebbe un altro
inquilino sulla sua branda.
Kenneth non si era scomposto. – Molto divertente, sul serio.
Pensavo solo che sarebbe potuto stare un po’ da te. Di solito queste amnesie
durano un paio di settimane, e tutto quel che serve al ragazzo è un posto in cui
stare in attesa di ricordare chi sia. Casa tua è abbastanza grande, mi pare.
Donna avrebbe un’altra bocca da sfamare, e potrebbe darti una mano con lo
spaccio. Non mi sembra una prospettiva così disastrosa.
– No, non direi.
Sullivan aveva annuito soddisfatto.
– Se è per eventuali costi, posso…
– Non dirlo o potrei toglierti il saluto.
Kenneth rise. – Lo accompagno da te domani mattina. Che ne
dici?
– Digli di non fare una colazione troppo abbondante. Ho come
l’impressione che Donna si metterà ai fornelli questa sera stessa.
*
Era la metà di maggio, quando Brian, il ragazzo senza
passato, era entrato nella vita di Jack Sinclair: inventargli un presente e un
futuro, all’improvviso, si era rivelato persino facile.
Cos’è un figlio, del resto, se non un vaso che riempi di
ambizioni soprattutto tue?
E quello era diventato, da un giorno all’altro, uno
sconosciuto dagli occhi tristi.
Brian non era solo forte fisicamente, ma intelligente e
sveglio. Sapeva come trattare i clienti, giocando con i suoi sorrisi assassini
come un attore consumato. Gli uomini lo trovavano affidabile; le signore, sexy.
Brian era il nuovo preferito di Donna, con scorno supremo di
chi, come Sturm, si era sempre sentito il principe di casa. Non era difficile
volergli bene, perché, a poterlo ordinare su di un catalogo, Brian era il figlio
che Jack aveva sognato da sempre.
Quanto a Eloise, malgrado una mai simulata diffidenza
iniziale, le sue barriere si erano sgretolate persino prima di quel che il
famoso istinto Sinclair avrebbe suggerito.
Era sempre stata pronta e onesta nel riconoscere le proprie
debolezze, le tentazioni della sorte come i tranelli del cuore, Eloise: perché
avrebbe dovuto chiudere gli occhi davanti a un sentimento che non poteva
nuocerle?
Brian non aveva memoria, d’accordo, ma in quell’utero caldo e
protettivo in cui l’avevano raccolto sbocciava per quello che era: un uomo
intelligente, amante della tranquillità, poco incline al vizio e al lusso,
desideroso, forse, solo di una famiglia.
Chi poteva dire cosa fosse bruciato alle sue spalle?
Il fuoco, come insegnavano i vecchi, consuma e purifica: quel
che restituisce non è mai la stessa cosa.