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Autore: Vertigine    29/10/2005    1 recensioni
E' da un po' che non scrivo FF. E... mi piacerebbe sapere cosa ne pensate! - scritta per un concorso su di un altro archivio -
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Luna Lovegood, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(( Il vuoto e il senso ))


Quel posto era d’oro, di bronzo e da levare il respiro.







C’era da chiedersi come fosse possibile che la polvere avesse già ricoperto gli oggetti. Non era passato neanche un anno.


La luce filtrava bieca, a tratti, illuminando pezzi di anticaglie senza valore, cimeli semidistrutti dalla guerra e dalla disperazione di chi l’aveva vissuta.


Aspettavano forse che qualcuno resuscitasse per venire a reclamare una proprietà?


O che qualcuno avesse il coraggio di affrontare i ricordi che avrebbe destato l’esame di uno qualsiasi di quegli stralci di storia?


Non si rendevano conto che la guerra andava dimenticata, e in fretta, e che era tutto da bruciare?







Il deposito non sembrava una stanza, sembrava quello che era: un crudele riepilogo di tutto quello che era stato dato via negli anni della lotta, un memorandum alle ferite.


La giovane bionda sospirò, seguendo con le dita il tracciato del drappeggio delle pesanti tende di velluto, ma piano, senza che si modificasse l’equilibrio di onde e ombra nella stoffa.


Camminò fra le strisce di giorno rotto, cercando niente in particolare.







Nell’androne del Ministero della Magia qualcuno, nel vederla arrivare, aveva chinato il capo. Avevano chiuso la bocca. L'avevano osservata. Avevano aspettato che scomparisse in uno dei tanti corridoi, poi avevano incominciato a bisbigliare, a vociare, a urlare di lei, su di lei, a urlare d'ammirazione. Le sentiva quelle voci addosso.


Crescendo e guardandosi attorno, aveva imparato a capire come la gente la temesse e la rispettasse.







Ma del resto era una dei pochi.





Una sopravvissuta. Una guerriera.


Lei sì, aveva visto tante cose. Le avevano smembrato la vita e l’esistenza.


E gli unici con cui avrebbe potuto condividere il dolore delle sue perdite erano persi. Andati dietro al velo di un confine sottile, ma invalicabile. Il velo che era un confine sottile, ma invalicabile.


Si era resa conto di cosa volesse dire morire, e non una sola volta.


Si assimilava, di fatto, più a quelli che la guerra aveva preteso e masticato che ai superstiti vivi per raccontarla.


Lei sì, aveva visto tante cose. E perso tutto, anche quello che era possibile dare per scontato.







Il Pensatoio era oltre la luce, in un angolo e dietro l’anta semiaperta di un vecchio armadio. Ne colse il tenue richiamo d’argento e si avvicinò, mossa da una forza invisibile, dall’invidiabile potere dell’istinto.


Cauta, come aveva imparato ad essere, smosse con la mano coperta di cicatrici il legno che copriva di penombra il vaso pieno e color cenere.


Si rivelò il fascino dell’oggetto, che gli anni non avevano potuto compromettere.


Ne accarezzò a lungo i bordi, sottomise al tocco la curvatura fredda del cerchio d’argento. Pensò che era ingiusto che quella cosa non invecchiasse e conservasse la sua bellezza di sempre, mentre gli altri erano già terra.








Perché sei qui, Luna?








A questa domanda non sapeva rispondere. Né sapeva come si fosse permessa di tornare in quel baratro di angoscia.




Era murata viva nella stanza dei richiami.


Ovunque si voltasse c’erano i Weasley, Dolohov, Neville, Snape, Dumbledore, Hermione… Ovunque si voltasse vedeva i sorrisi e le fini di chi l’aveva preceduta, e un brivido la chiamava per la spina dorsale,


e le mani divennero fredde.


Ovunque si voltasse scopriva nuove tracce di un dolore inappellabile.








E perché sei qui, Luna?








Per sapere come mai fosse lì.


Con una sorta di rassegnazione esausta, si curvò a guardare nel Pensatoio. Ne sfiorava il bordo come avrebbe tenuto il viso di un’amante, la vera forza è blanda.


Fece in tempo a scorgere nel liquido mobile e denso come mercurio il riflesso del proprio viso sottile, gli occhi enormi e la cicatrice che le deturpava le labbra, e non si riconobbe.


Poi, come tante altre volte si era costretta a fare, smise di pensare.


E superò le nebbie.














*















Foglie buie.


La notte invadeva la foresta. Il nero sibilava fra gli sterpi e scorreva nelle vene dei rami.


La madre verde stava respirando.


Il cielo non aveva tracciato le proprie stelle e la luna si era rifiutata di guardare: s’era ammantata di una coltre di nuvole che nessuno, nemmeno Dio, sarebbe riuscito a strappare via.





La prima cosa che venne in mente a Luna è che non bisognava fare rumore. Non tanto per la paura di essere scoperta – l’esperienza le aveva insegnato che non c’era da temerlo, le memorie non ti uccidono se non metaforicamente - quanto per non distruggere il sacrale suono della notte avanzata.


Se non avesse saputo di muoversi in un ricordo, inoltre, avrebbe sentito freddo. Non fece in tempo a domandarsi di nuovo come mai, che udì un rumore dietro di sé. Si voltò lentamente, lo vide.





Qualcuno stava camminando nel bosco, senza seguire un sentiero. Solo una luce argentata, come di ghiaccio, rischiarava due mani e una bacchetta tesa. Il resto l’occultava un manto nero, drappeggiato con cura sulle spalle.


Quelle mani erano sottili, ma non muliebri. Le dita erano fredde e bianche, sembravano cesellate nel ghiaccio.


Luna aveva imparato a dimenticarsi del terrore, ma quelle sembravano le dita di un morto. E rabbrividì, fino alle ossa, la giovane donna.


Senza sapere bene come mai seguì l’uomo nella foresta per quello che le parve un tempo interminabile. Poi, all’improvviso, oltrepassati gli ultimi alberi fitti e neri, trovarono l’aria dello spazio.





Una distesa di campi e colline, bluastri sotto all’impietosa notte, s’interrompeva bruscamente contro la foresta, sagomata dalla linea scura degli alberi e, sul lato opposto, precipitava in un burrone, sul fiume.


L’unica traccia visibile dell’opera umana in quel paesaggio alienante era la curva grigia di un cavalcavia che ospitava i binari rugginosi del treno dei maghi.


Luna conosceva quel posto. L’aveva visto tante volte dal finestrino dell’Espresso di Hogwarts, quand’era ancora una bambina inviolata, schiacciando il viso contro il vetro. E le era piaciuto.


Ma così, sotto gli occhi e nei ricordi di quello spettro che non osava chiamare uomo, faceva solo paura.





Camminarono, e la direzione era proprio quella del ponte, e dello strapiombo. E infine, a poco meno di due metri dal salto, l’incappucciato si fermò, in silenzio.


Dal cielo illune trapelava una luce blanda, cattiva.


E quella luce illuminò una sagoma di donna di spalle, china verso l’infinito, coi piedi nel vuoto.


Una donna che sedeva vicino al nulla, forse da un istante, forse da sempre i capelli biondissimi che splendevano come fili di ragnatele. Avvicinandosi, Luna notò che non erano biondi. Erano candidi.





«Vieni qui».





Lo mormorò con voce suadente, lei, ma era il tipo di voce che non ammetteva repliche. Luna si trovò ad obbedire, prima ancora di rendersi conto che la richiesta, o il comando, non era per lei. L’uomo rimase fermo, in silenzio.


E allora lei si volse.





Aveva uno sguardo pieno, degli occhi grandissimi, tra il severo e il disperato. Luna, anni dopo, avrebbe giurato di non aver mai visto qualcosa di così commovente. Erano chiari, ma l’intensità li faceva sembrare di piombo. Non era una ragazza bella, quell’albina, forse per la curva inesistente delle sopracciglia e le labbra troppo sottili, la pelle così chiara che sembrava trasparente, ma in quel posto e in quel momento parve una dea.


Luna sentì la sua anima arida riempirsi dell’importanza di quello sguardo che avrebbe voluto fosse il proprio. Invece i suoi occhi erano solo bui e cupi, senza scintille.


Solo bui e cupi, dopo quel.


Dopo che.





«Vieni qui» insistette, e lui scivolò in avanti, come un’onda sola. Rimase in piedi, quieto, senza abbassare il cappuccio.


«È questo il mio momento, vero? Sei venuto per me» continuò lei, intrecciando le mani sulla veste bianca e ricamata che le nascondeva le gambe e le lasciava scoperte le spalle. Una sposa. Luna pensò che era questo. Una sposa, in un universo surreale. Restò ad osservare, mentre l’altro le rispondeva.





«Gli altri non sono riusciti» mormorò, e la voce come le mani terrorizzò Luna. Era una voce impura, bassa, ed estremamente melodiosa. Era il canto di un serpente.


L’albina scoppiò a ridere, gettando indietro il capo e offrendo la bocca alle nuvole.





«Oh, sei il solito figlio di puttana, tu e le tue scusanti. Dillo che non li hai fatti provare veramente. Lestrange non avrebbe mai potuto. È pazza, la bambina, ma la conosco. Dolohov? Non sapeva come penetrare in casa mia, tu sì. Se desideravi sul serio che mi trovasse, potevi spiegarglielo. Ma no. Volevi venire tu. Volevi essere tu».





Il sorriso si perse sulle labbra, e ad un tratto la donna bianca si fece malinconica, e cercò con lo sguardo il capo opposto del ponte, e poi oltre, dove non si vedeva. Fece una lunga pausa e poi riprese a parlare, un sospiro.





«Tempo fa, in questo posto, una ragazza chiedeva ad un ragazzo di amarla. Erano sdraiati qui, sull’erba e vicino alle rotaie, e avevano fatto l’amore, solo che non sapevano cosa volesse dire. Erano persi e presi di giovinezza, persi e presi. Per loro ancora aveva senso scappare dalla scuola per baciarsi ore ed ore ed ore nella notte, lontano da tutti, lontano dalle richieste, dagli sguardi, dai perché. Da quello che la gente si aspettava da loro. Se chiudo gli occhi vedo la tua faccia e il tuo sorriso, e mi rendo conto che c’è sempre stato qualcosa di vero e qualcosa d’impossibile. Mi ricordo di quando ti ho preso la mano e ti ho chiesto di amarmi. E tu mi hai risposto non lo so, per l’eternità non lo so, perché non eri nemmeno capace di dirmi di no, e nemmeno di sì, e non lo volevi sapere. Se chiudo gli occhi sento le tue labbra e lo so. Non sei mai stato capace di amarmi».





«Sei un’ottima attrice, Dorcas. Un’attrice consumata. La strega falsa e affascinante che ricordo e che mi piace ricordare. Hai recitato per anni e anni fingendo di ignorarmi davanti ai professori e agli studenti quando di notte venivi a bussare alla mia porta, hai recitato quando sei entrata nell’Ordine della Fenice e ti hanno chiesto se mi conoscevi. Hai recitato e mentito sempre, fino all’ultimo, non è così?».





Lei, in tutta risposta, estrasse la bacchetta da una tasca della veste. Lui non reagì, forse era pronto, forse se l’aspettava e sapeva. Ma Dorcas Meadows, sotto lo sguardo attonito di Luna, spezzò il legno con un colpo deciso.


Rise, l’altro, dell’insensatezza del suo gesto.

La sua era una risata assolutamente priva di allegria.





«Mogano, corde di cuore di drago…».





«…dodici pollici e mezzo, flessibile».





«Tom, ti ricordi…».





«Non chiamarmi Tom».





«Tom, ti ricordi com’è fatta la mia bacchetta…».





Luna permase immobile, mentre Lord Voldemort scivolava a sedere vicino alla donna che sembrava di vetro, in silenzio.





«Perché l’hai spezzata?» domandò infine, atono.





«Sei qui per uccidermi».





«Mi aspettavo che volessi combattere».





Lei alzò appena il capo, dunque allungò le mani sottili verso il cappuccio nero dell’altro. E, dolce e docile, glielo tirò sulle spalle.


Era già diverso. Il viso era ancora bello, ma gli occhi erano pervasi di una luce strana, che non sembrava di questo mondo. E la bocca sembrava intagliata in un pezzo di marmo, come immobile, capace solo di modulare smorfie orrende.


Lo guardò a lungo, e con lei lo guardò Luna, travolta dall’orrore di quell’incanto in disfacimento, la grazia chiamata dal male.





«Io non combatto contro di te».





Gli occhi strani si assottigliarono, poi lui provò a sorridere di scherno. Non riusciva bene: sembrava che l’espressione fosse dipinta da un pittore che non aveva mai osservato vera gioia.





«Tu hai sempre combattuto contro di me».





Lo sguardo di Dorcas era la risposta. Era lo sguardo di un’innamorata. E Luna si trovò, tutto ad un tratto, ad invidiarla. Lei non era mai riuscita ad amare, né a combattere per salvare qualcuno che amava. Forse perché aveva troppa paura di veder morire chi le stava vicino, si era resa impenetrabile. Si sentì donna come non si era mai sentita prima, e capì quell’albina che sedeva lì, a pochi centimetri dall’individuo più perverso e spietato della storia, che se avesse potuto avrebbe baciato, e che era lì per finirla.


E da una parte, attraverso l’amore di lei, comprese anche Voldemort. Lo stesso Voldemort che aveva sterminato le genti, ucciso, torturato, mandato gli altri ad uccidere, violentare, torturare. Quel ragazzo già contagiato dal male che mai avrebbe sofferto così tanto, come nel momento in cui qualcuno dichiarava d’amarlo, di volerlo prendere d’amore, e lui in sé solo odio.





«C’è qualcosa da salvare, in tutto questo. In te. Tu credi ancora in qualcosa che non è il potere e l’odio, solo non vuoi ammetterlo. Io lo so, te lo dimostrerò… E non diverrai il mio assassino».





«Dorcas, il tuo tentativo di salvarti adesso rasenta il patetismo. Ma l’apprezzo, sei sempre commovente. Ti propongo, come ho già fatto: unisciti a noi, unisciti a me. Ti risparmierò, se lo vorrai, se giurerai di servirmi».





«Non ho mai smesso di servirti, Tom» gli rivolse un’occhiata di finto biasimo, e un sorriso triste.


Poi tese la mano, repentinamente, al cielo nuvoloso, che si era aperto in un tratto al passaggio delle stelle.


«Guarda!» urlò quella creatura sensazionale e candida, con entusiasmo di bambina «la riconosco: è la stella che ci spiava quando mi hai insegnato ad amare!»





Lui si volse a guardare il cielo, ad occhi aperti.


Accanto, Dorcas Meadows colse il momento e si lasciò scivolare nello strapiombo, con la grazia di una falena.


Lui non la vide, né la sentì. Era volata nell’abisso come una sciarpa di seta, lasciando dietro di sé solo i pezzi della bacchetta e una nostalgia senza limiti.


Quando Voldemort abbandonò con l’attenzione il cielo vicino a lui non c’era più nessuno.


Si sporse appena a cercare nell’immensità del buio una sagoma bianca e inusuale, senza fiatare. Ma vide solo il fiume che scorreva, sciogliendosi in mulinelli d’acqua sporca tra i pilastri del cavalcavia.





Poi alzò il capo, con lentezza esasperante, e guardò verso Luna, che fissava la scena con gli occhi inondati di lacrime e la mano premuta contro la bocca. Forse non stava fissando direttamente lei, ma un qualche punto imprecisato dello spazio, e si rivolgeva a un fantasma. Ma l’impressione fu che il mago le penetrasse l’anima. Scosse il capo, e alla ragazza parve per un momento che si fosse spento il bagliore rosso degli occhi, rimasto solo un verde vuoto.





«Torna a casa, bambina» disse, piano.





Fu trascinata via.














*















Luna si specchiò di nuovo nel Pensatoio, e ci pianse dentro. Erano anni che non piangeva.





Fu così i ricordi del Signore Oscuro si confusero con le lacrime di una giovane donna, viva e forte del suo vuoto e del suo senso.











  
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