Se
fossi di umore migliore, probabilmente mi verrebbe qualcosa di più decente... o
più allegro. Ma purtroppo la situazione non è quella, dunque questo sclero della tarda ora verrà pubblicato così com’è
concepito ^^’’’
Non
è niente di speciale, solo un altro tributo a questi due, perché dire che mi
piacciono è riduttivo. Un tributo al legame fraterno che mi piacerebbe avere.
Desclaimer: One Piece
non è roba mia, ma è tutto © di Eiichiro Oda-sensei e di chi ne ha i diritti annessi. Io mi diverto
a scrivere queste cose che inducono alla depressione e al suicidio solo perché
mi va, e lo faccio pure gratis.
Note: Ho messo come
personaggi solo Ace e Luffy, ma ci sarà una breve comparsa
anche di Trafalgar Law. È SPOILER dal capitolo
574 in poi, e ovviamente prima per chi segue l’anime.
Come
avrete capito, è ambientata appena dopo Marineford.
A
chi ne ha voglia, buona lettura <3
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Keep your
Eyes Closed
C’era l’odore
salmastro del mare, e il dolce cullare delle sue gentili onde.
C’era
l’aria fresca del primo mattino, o della tarda sera; pungente nelle narici e
carica di aspettative.
C’era lo
sciabordio e lo spumeggiare. C’era, veramente lontana, la sirena di un faro...
o quella che sembrava tale.
Ma più
che altro, c’era il silenzio.
Il che
era quasi un controsenso, dato che, fino a pochi secondi prima, avrebbe giurato
di essere all’Inferno.
Dato che
era questione di attimi a ritroso per ritrovare le urla, e i clangori, e gemiti
di dolore. Per sentire dentro la gola l’odore pungente del sangue, sulla lingua
il sapore amaro della terra sporca del campo di battaglia, per sentire sotto le
dita le schegge di vecchie e nuove armi dilaniate dalla battaglia.
Gli
sembrava quasi di aver sentito il dolore, poi il freddo calore di un ultimo
abbraccio. Il pizzicore delle lacrime agli angoli degli occhi, la gola
irritarsi per lo sfregare alle sue pareti di parole dal suono dolce, ma dalla
consistenza ruvida e dal sapore amaro.
Parole
d’amore che avevano bagnato labbra sporche di colpa. Parole che erano divenute
pesanti macigni una volta lasciate librare nell’aria insieme al fiato ormai
agli sgoccioli.
Su quali
spalle si erano posate? Quale schiena aveva appesantito?
Ricordava
poco oltre quel momento, forse pochi sprazzi. Il baluginare di fiamme blu,
rosse e di magma incandescente. Un lampo di luce, ghiaccio e il suo nome,
ripetuto fino allo stremo, da tanti toni diversi di voci tutte differenti.
Ricordava
il bruciore ai polsi, la stanchezza dei muscoli... la voce profonda di... Barbabianca, possibile?
Ricordava
un urlo. Un grido disperato da far tremare il cuore e l’anima, prima del corpo.
L’ultima
cosa che aveva sentito.
Era
stato forse...
«Luffy! » esclamò sorpreso, aprendo gli occhi di scatto.
Un
sogno. Un fottutissimo sogno.
Anzi, un
incubo.
Era
tanto che non gli succedeva.
Cercò di
calmarsi, concentrandosi per far sì che il suo cuore riprendesse un ritmo
decente. Una volta che ebbe ottenuto l’effetto voluto, usò gli occhi per quello
a cui servivano: guardare.
Ciò che
si trovò davanti, sebbene non sapesse che significato attribuirgli, non poté
non sorprenderlo.
Era adagiato,
sdraiato sul fianco sinistro, su quello che aveva tutta l’aria di sembrare
legno. Un legno chiaro lavorato alla buona, usato per lo più per le scialuppe.
Anzi,
non poteva negare di essere esattamente su di una piccola scialuppa. Davanti al
suo volto, ancora appoggiato al proprio braccio ripiegato sotto il capo, vi era
proprio la paratia della piccola imbarcazione.
Cosa
strana, pensò di primo acchito. La sua barca era piccola, ma non era fatta di
quel legno. Anzi, non aveva nemmeno l’abitudine di dormirci, su quella piccola
imbarcazione a fuoco-propulsione.
Non poté
impedire alla stranezza di farsi luogo in sé, così come non fermò la successiva
inquietudine che ne uscì.
Non
sapeva dov’era, e il peggio non era nemmeno quel particolare, che avrebbe quasi
definito di poco conto.
C’era
dell’altro. Lo sentiva nell’aria, lo percepiva serpeggiare nelle vene.
Un
fastidio lieve, soffice come la neve, ma che come essa ricopriva tutto, senza
lasciare il minimo spiraglio di speranza.
Aveva la
classica sensazione. Il “brutto presentimento” che ognuno nella propria vita
prova sulla pelle, almeno una volta.
L’impressione
che ci fosse qualcosa di sbagliato. Che fosse tutto l’opposto.
Che quello fosse il sogno, e
l’incubo la realtà.
Scosse
la testa, cercando di togliersi dalla testa quei pensieri.
« Portoguese D. Ace, pensa logicamente. Ti sei appena
svegliato, quello era solo un fottutissimo incubo della malora, potesse marcire
nello scrigno di Davy Jones... » borbottò, rimanendo
però insoddisfatto di quella spiegazione sommari, data a se stesso solo per non
pensare.
Per non riflettere sul fatto che
potesse essere tutto vero.
Sbuffò,
richiudendo per un attimo gli occhi. Non aveva ancora alzato lo sguardo oltre
il bordo della scialuppa, dunque non vedeva altro che legno e cielo; quel cielo
di quel colore stranissimo, a metà fra l’indaco del tardo tramonto e il lilla
della prima aurora.
Che
strano colore...
«
...Ace? ».
Riaprì
gli occhi, trattenendo il respiro.
Qualcuno
aveva parlato. Ed era vicino.
Sin
troppo, anzi, esattamente dietro di lui, ma quello che lo preoccupava non era
la voce in sé, o il fatto che avesse pronunciato il suo nome con così tanta
famigliarità.
No. Era
la consapevolezza bruciante di conoscere quella voce, e il relativo sentimento
ad essa collegato. E, ancora, il dubbio fondamentale che nasceva in seguito a
tale rivelazione.
Cosa ci fai tu, qui?
Non
seppe nemmeno se pronunciare il nome che alla fine soffiò fra le labbra. « Luffy...? ».
« Ace? »
ripeté allora l’altro, e Pugno di Fuoco ne fu, infine, sicuro.
Suo
fratello era con lui.
E con lui, ricordo di quel grido disperato risuonato
nell’aria.
In un
misto di sorpresa ed inquietudine – quell’inquietudine bastarda, sbagliata, che
ti si appiccica addosso come petrolio sulla pelle – si girò con attenzione,
mettendosi questa volta sul fianco sinistro.
Era lì
disteso, a sua volta sul fianco destro, e sembrava la cosa più indifesa ed
innocente del mondo. Le mani sotto al volto, sulle quasi era appoggiato, come
unico tramite fra la pelle e il legno; la bocca schiusa in respiri lunghi e
rilassati, come quelli di una persona sull’orlo del sonno. Il laccetto del suo
amato capello di paglia, rovesciato poco distante dalla fronte, stretto fra le
dita della mano più vicina ad esso.
Sorrise.
Lo fece in modo talmente spontaneo da non accorgersene nemmeno. « Luffy, cosa ci fai qui? » domandò allora, rilassandosi solo
un po’.
Anche quella sgradevole
sensazione, scomparve solo un po’.
Si prese
del tempo, Cappello di Paglia, per rispondere alla domanda. Ma bastarono quelle parole perché
quell’irrequietezza tornasse alla carica più forte, più pesante di prima.
« “Qui”,
dove? » domandò il minore, gli occhi socchiusi che faticavano a stare aperti;
un sorrisetto che voleva essere allegro, ma che la stanchezza rendeva più dolce
che altro.
A dire
la verità, Ace non seppe cosa rispondere. Trovò quelle parole insensate per
puro caso nella sua mente confusa, e le disse solo perché aveva davanti proprio
Luffy: il bambino puro ed ingenuo che credeva ad ogni
cosa, se era Ace a dirgliela.
« Solo
“qui” » disse.
E a Luffy tanto bastò. « Non lo so, Ace... io non vedo niente.
Dove sei? » domandò allora, distogliendo lentamente una mano da sotto al volto
per muoverla verso di lui, strisciando sul vetro.
Pugno di
Fuoco aggrottò le sopracciglia, perplesso. « Non mi vedi? » chiese allora, osservando
la mano. Vedendo quanto fosse stanco,
quel movimento. Sfibrato. Difficile.
Il volto
di Luffy, semplicemente, si mosse in un senso di
diniego. « Ti sento, però. Dove sei? » ripeté, muovendo le dita alla ricerca
della sua, di mano.
La bocca
del maggiore si distorse prima nell’incredulità, poi nella paura. Dopo ancora,
in una specie di amaro sconforto.
Per
pigrizia non aveva alzato lo sguardo oltre quel parapetto, osservando quel mare
di cui percepiva solo il movimento oscillatorio. Per sua scelta non voluto
vedere le bende, i cerotti e i medicamenti che riempivano il corpo del fratello
minore, abbandonato lì non per il sonno, ma per spossatezza.
Ed era
sangue, quello che traspariva dalle bende che ricoprivano l’intero fianco
destro di Luffy; odorante di disinfettante e...
gomma, mista a carne, bruciata. E di ruggine, e ferro... l’odore, appunto, del
sangue raffermo.
Sembrava
uscito da un combattimento corpo a corpo con un gigante. Oppure...
Oppure da una battaglia.
Si morse
con forza il labbro inferiore, chiudendo a pugno la mano prima che potesse
afferrare quella – così debole, e fragile ora – del fratellino. Sentì il
proprio cuore stringersi in una morsa, e la bocca dello stomaco chiudersi come
cauterizzata.
La
realtà esisteva, e non era quella lì. Non era quella barca, non era quel cielo
dal colore così particolare. Era l’incubo, la realtà. Era il sogno da cui
pensava di essersi svegliato ma in cui, in realtà, si era addormentato.
Semplicemente, lui non aveva
voluto vedere.
« Ace? »
chiamò di nuovo Luffy – Dio, un filo di voce appena
udibile... – con una nota lievemente preoccupata.
Come se avesse paura che quella
fosse illusione, e che non avrebbe sentito mai più la sua voce.
Si fece
coraggio, Pugno di Fuoco. Raccolse ogni briciola della sua presenza mentale.
Probabilmente,
entrambi sapevano cos’era realmente successo. La differenza era che mentre Ace
non se ne era reso conto fino a quel momento, nonostante lo avesse vissuto
anche lui come l’altro, Luffy non aveva ancora
accettato l’avvenimento.
Ace era
morto, in realtà. Aveva perso la vita per mano altrui, riverso nell’ultimo
abbraccio del fratello minore, ringraziando lui e gli amici con parole
gracchiate fra le lacrime, prima di cadere nella polvere.
Prima di
sentire la vita, quel soffio caldo che accompagna il respiro – e il battito del
cuore, o delle ciglia; il movimento dei muscoli, la morbidezza delle labbra e
ogni singolo pensiero -, abbandonarlo.
Era
così, morire. Ci si addormentava e ci si dimenticava di essere morti.
Almeno
fino a quando non ci si ricordava tutto.
Sorrise
amaramente, Ace. Trattenne le lacrime, Ace.
Chiese scusa, Ace.
Chiese scusa al fratello per la
promessa che non avrebbe più potuto mantenere.
Non
seppe cos’altro fare se non rispondergli. « Sono qui, Luffy
» disse, osservandolo.
Probabilmente
quella era l’ultima volta che avrebbe potuto farlo.
Non
sapeva – e come poteva? – cos’era successo dopo dentro quell’Inferno, ma se le
fasciature che ora vedeva sul corpo dell’altro erano reali, probabilmente era
già stato portato in salvo e curato.
Era
vivo.
Per fortuna era vivo.
Luffy, al sentire quella voce,
sospirò.
Sì, era paura, quella. Lo sapeva.
Anche se non lo ammetteva, lo
sapeva.
Non ebbe
più bisogno, Ace, di alzare la testa e vedere dov’erano. Sapeva più che bene
dove si stava dirigendo quella barchetta, ed era un posto in cui Luffy non poteva andare.
Ringraziò, Ace.
Chiunque fosse stato a donargli
quell’ultima occasione, lo ringraziò.
« Luffy? » chiamò, sorridendo con un misto di dolcezza e
rassegnazione.
« Mh? » si fece dunque sentire il ragazzo, facendogli
intendere che lo stava ascoltando. Gli occhi scuri, sempre socchiusi, lottavano
per aprirsi del tutto, nonostante l’estenuante battaglia affrontata e il
bisogno fisiologico di riposare per riguadagnare le energie perdute.
« Luffy, tieni gli occhi chiusi » gli disse, prendendogli
finalmente la mano. Sentì il calore, il tocco ruvido di quelle dita sottili ma
screpolate, seppe dalla lieve stretta che anche Luffy
poteva percepirlo.
« Sai
dove sto andando? » domandò allora Ace, toccando l’argomento il più dolcemente
possibile.
Le
sopracciglia scure di Cappello di Paglia si aggrottarono in una smorfia
dolorante, ma come gli era stato detto non aprì gli occhi. Si morse
semplicemente il labbro, probabilmente per non piangere.
Lo sapeva.
« Non lo
voglio sapere » rispose però, trattenendo il fiato alla fine della frase.
« Lo sai
già, vero? » domandò allora, sempre con lo stesso tono. Trattenendosi a sua
volta dal farsi sentire angosciato, o in lacrime. Da quando aveva promesso di
proteggere quella testa calda del suo fratellino da tutto ciò che avrebbe
potuto fargli del male, si era ripromesso di essere forte e smetterla di
piangersi addosso.
Avrebbe
resistito fino alla fine.
Tsk,
ironico che la fine fosse proprio quella.
Solamente
la sua mano tremò un istante, ma fu fermamente tenuta stretta da Luffy. Sorrise ancora al gesto, un sorriso sghembo che
cercava di non lasciarsi andare ad inutili sentimentalismi.
Erano
pirati. Morire era una cosa... normale.
Non
aveva paura di morire. Forse un po’ di... dispiacere.
« Luffy... » provò di nuovo, incontrando ancora la ferma
opposizione dell’altro, che scosse la testa.
« Non
dirlo. Non lo voglio sentire » precisò, sempre ad occhi chiusi.
«
Fratellino » lo chiamò dunque: « nel posto dove vado, tu non puoi venire ».
Fu il
silenzio, questa volta, a rispondere. Luffy non
aggiunse nulla, se non le prime di molte, silenziose lacrime.
Però,
poi, sorrise. Un sorriso storto e stentato, ma pur sempre un sorriso. « Dici
che ci possiamo rivedere? » domandò allora, tremando appena per tenere su
quella facciata poco credibile.
Ma lui
era Monkey D. Luffy. Il
sorriso era l’espressione che più si addiceva a quel volto; e quel sorriso,
aveva salvato Ace da se stesso così tante volte, che ormai aveva perso il conto
del bene che gli aveva sempre fatto, vederlo sorridere.
Annuì
con il capo, anche se Luffy aveva ancora gli occhi
chiusi. « Quando sarai Re dei Pirati, e avrai vissuto la tua vita » disse
allora, trattenendosi a stento.
Luffy annuì, continuando quel sorriso
goffo e bagnato dalle lacrime.
Ace, con
delicatezza, portò l’altra mano ad accarezzargli la guancia. « Apri gli occhi,
ora. È l’alba ».
Ti voglio bene, fratellino.
Grazie per avermi salvato.
Trafalgar
Law, seduto sulla sedia di legno accanto al letto, si
risvegliò pacatamente.
Non era
stata una notte di quelle da ripetere, quella. Nell’aria ancora persisteva
l’odore pungente di tutto il disinfettante che aveva dovuto usare, e le garze
sporche di sangue stagnavano zuppe nella bacinella dell’acqua, ormai scarlatta.
Cercò di
riprendersi dalle due ore scarse – e scomode – di sonno, provando al contempo
a capire cosa lo avesse svegliato.
Individuò
il “disturbo” in una debole stretta alla mano, intrappolata in quella fasciata
appartenente all’ospite attualmente in cura sul suo sottomarino.
Osservandolo
bene, si espresse in un lieve ghigno.
« Sono
felice che tu sia vivo » disse, chiudendo di nuovo gli occhi; « non preoccuparti,
Capitano. Non guardo ».
Fece
finta, il medico, di non aver visto le scie bagnate che rigavano le gote del
ragazzino, girato verso di lui sul fianco sinistro.
Così
come non ritirò la mano da quella lieve presa.
~ Owari