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Autore: Yoko Hogawa    20/09/2010    5 recensioni
C’era dell’altro. Lo sentiva nell’aria, lo percepiva serpeggiare nelle vene.
Un fastidio lieve, soffice come la neve, ma che come essa ricopriva tutto, senza lasciare il minimo spiraglio di speranza.
Aveva la classica sensazione. Il “brutto presentimento” che ognuno nella propria vita prova sulla pelle, almeno una volta.
L’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Che fosse tutto l’opposto.
Che quello fosse il sogno, e l’incubo la realtà.
[SPOILER dal capitolo 574]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Monkey D. Rufy, Portuguese D. Ace
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Se fossi di umore migliore, probabilmente mi verrebbe qualcosa di più decente... o più allegro. Ma purtroppo la situazione non è quella, dunque questo sclero della tarda ora verrà pubblicato così com’è concepito ^^’’’

Non è niente di speciale, solo un altro tributo a questi due, perché dire che mi piacciono è riduttivo. Un tributo al legame fraterno che mi piacerebbe avere.

 

Desclaimer: One Piece non è roba mia, ma è tutto © di Eiichiro Oda-sensei e di chi ne ha i diritti annessi. Io mi diverto a scrivere queste cose che inducono alla depressione e al suicidio solo perché mi va, e lo faccio pure gratis.

Note: Ho messo come personaggi solo Ace e Luffy, ma ci sarà una breve comparsa anche di Trafalgar Law. È SPOILER dal capitolo 574 in poi, e ovviamente prima per chi segue l’anime.

Come avrete capito, è ambientata appena dopo Marineford.

 

A chi ne ha voglia, buona lettura <3

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Keep your Eyes Closed

 

 

C’era l’odore salmastro del mare, e il dolce cullare delle sue gentili onde.

C’era l’aria fresca del primo mattino, o della tarda sera; pungente nelle narici e carica di aspettative.

C’era lo sciabordio e lo spumeggiare. C’era, veramente lontana, la sirena di un faro... o quella che sembrava tale.

Ma più che altro, c’era il silenzio.

Il che era quasi un controsenso, dato che, fino a pochi secondi prima, avrebbe giurato di essere all’Inferno.

Dato che era questione di attimi a ritroso per ritrovare le urla, e i clangori, e gemiti di dolore. Per sentire dentro la gola l’odore pungente del sangue, sulla lingua il sapore amaro della terra sporca del campo di battaglia, per sentire sotto le dita le schegge di vecchie e nuove armi dilaniate dalla battaglia.

Gli sembrava quasi di aver sentito il dolore, poi il freddo calore di un ultimo abbraccio. Il pizzicore delle lacrime agli angoli degli occhi, la gola irritarsi per lo sfregare alle sue pareti di parole dal suono dolce, ma dalla consistenza ruvida e dal sapore amaro.

Parole d’amore che avevano bagnato labbra sporche di colpa. Parole che erano divenute pesanti macigni una volta lasciate librare nell’aria insieme al fiato ormai agli sgoccioli.

Su quali spalle si erano posate? Quale schiena aveva appesantito?

Ricordava poco oltre quel momento, forse pochi sprazzi. Il baluginare di fiamme blu, rosse e di magma incandescente. Un lampo di luce, ghiaccio e il suo nome, ripetuto fino allo stremo, da tanti toni diversi di voci tutte differenti.

Ricordava il bruciore ai polsi, la stanchezza dei muscoli... la voce profonda di... Barbabianca, possibile?

Ricordava un urlo. Un grido disperato da far tremare il cuore e l’anima, prima del corpo.

L’ultima cosa che aveva sentito.

Era stato forse...

«Luffy! » esclamò sorpreso, aprendo gli occhi di scatto.

Un sogno. Un fottutissimo sogno.

Anzi, un incubo.

Era tanto che non gli succedeva.

Cercò di calmarsi, concentrandosi per far sì che il suo cuore riprendesse un ritmo decente. Una volta che ebbe ottenuto l’effetto voluto, usò gli occhi per quello a cui servivano: guardare.

Ciò che si trovò davanti, sebbene non sapesse che significato attribuirgli, non poté non sorprenderlo.

Era adagiato, sdraiato sul fianco sinistro, su quello che aveva tutta l’aria di sembrare legno. Un legno chiaro lavorato alla buona, usato per lo più per le scialuppe.

Anzi, non poteva negare di essere esattamente su di una piccola scialuppa. Davanti al suo volto, ancora appoggiato al proprio braccio ripiegato sotto il capo, vi era proprio la paratia della piccola imbarcazione.

Cosa strana, pensò di primo acchito. La sua barca era piccola, ma non era fatta di quel legno. Anzi, non aveva nemmeno l’abitudine di dormirci, su quella piccola imbarcazione a fuoco-propulsione.

Non poté impedire alla stranezza di farsi luogo in sé, così come non fermò la successiva inquietudine che ne uscì.

Non sapeva dov’era, e il peggio non era nemmeno quel particolare, che avrebbe quasi definito di poco conto.

C’era dell’altro. Lo sentiva nell’aria, lo percepiva serpeggiare nelle vene.

Un fastidio lieve, soffice come la neve, ma che come essa ricopriva tutto, senza lasciare il minimo spiraglio di speranza.

Aveva la classica sensazione. Il “brutto presentimento” che ognuno nella propria vita prova sulla pelle, almeno una volta.

L’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Che fosse tutto l’opposto.

Che quello fosse il sogno, e l’incubo la realtà.

Scosse la testa, cercando di togliersi dalla testa quei pensieri.

« Portoguese D. Ace, pensa logicamente. Ti sei appena svegliato, quello era solo un fottutissimo incubo della malora, potesse marcire nello scrigno di Davy Jones... » borbottò, rimanendo però insoddisfatto di quella spiegazione sommari, data a se stesso solo per non pensare.

Per non riflettere sul fatto che potesse essere tutto vero.

Sbuffò, richiudendo per un attimo gli occhi. Non aveva ancora alzato lo sguardo oltre il bordo della scialuppa, dunque non vedeva altro che legno e cielo; quel cielo di quel colore stranissimo, a metà fra l’indaco del tardo tramonto e il lilla della prima aurora.

Che strano colore...

« ...Ace? ».

Riaprì gli occhi, trattenendo il respiro.

Qualcuno aveva parlato. Ed era vicino.

Sin troppo, anzi, esattamente dietro di lui, ma quello che lo preoccupava non era la voce in sé, o il fatto che avesse pronunciato il suo nome con così tanta famigliarità.

No. Era la consapevolezza bruciante di conoscere quella voce, e il relativo sentimento ad essa collegato. E, ancora, il dubbio fondamentale che nasceva in seguito a tale rivelazione.

Cosa ci fai tu, qui?

Non seppe nemmeno se pronunciare il nome che alla fine soffiò fra le labbra. « Luffy...? ».

« Ace? » ripeté allora l’altro, e Pugno di Fuoco ne fu, infine, sicuro.

Suo fratello era con lui.

E con lui, ricordo di quel grido disperato risuonato nell’aria.

In un misto di sorpresa ed inquietudine – quell’inquietudine bastarda, sbagliata, che ti si appiccica addosso come petrolio sulla pelle – si girò con attenzione, mettendosi questa volta sul fianco sinistro.

Era lì disteso, a sua volta sul fianco destro, e sembrava la cosa più indifesa ed innocente del mondo. Le mani sotto al volto, sulle quasi era appoggiato, come unico tramite fra la pelle e il legno; la bocca schiusa in respiri lunghi e rilassati, come quelli di una persona sull’orlo del sonno. Il laccetto del suo amato capello di paglia, rovesciato poco distante dalla fronte, stretto fra le dita della mano più vicina ad esso.

Sorrise. Lo fece in modo talmente spontaneo da non accorgersene nemmeno. « Luffy, cosa ci fai qui? » domandò allora, rilassandosi solo un po’.

Anche quella sgradevole sensazione, scomparve solo un po’.

Si prese del tempo, Cappello di Paglia, per rispondere alla domanda. Ma bastarono quelle parole perché quell’irrequietezza tornasse alla carica più forte, più pesante di prima.

« “Qui”, dove? » domandò il minore, gli occhi socchiusi che faticavano a stare aperti; un sorrisetto che voleva essere allegro, ma che la stanchezza rendeva più dolce che altro.

A dire la verità, Ace non seppe cosa rispondere. Trovò quelle parole insensate per puro caso nella sua mente confusa, e le disse solo perché aveva davanti proprio Luffy: il bambino puro ed ingenuo che credeva ad ogni cosa, se era Ace a dirgliela.

« Solo “qui” » disse.

E a Luffy tanto bastò. « Non lo so, Ace... io non vedo niente. Dove sei? » domandò allora, distogliendo lentamente una mano da sotto al volto per muoverla verso di lui, strisciando sul vetro.

Pugno di Fuoco aggrottò le sopracciglia, perplesso. « Non mi vedi? » chiese allora, osservando la mano. Vedendo quanto fosse stanco, quel movimento. Sfibrato. Difficile.

Il volto di Luffy, semplicemente, si mosse in un senso di diniego. « Ti sento, però. Dove sei? » ripeté, muovendo le dita alla ricerca della sua, di mano.

La bocca del maggiore si distorse prima nell’incredulità, poi nella paura. Dopo ancora, in una specie di amaro sconforto.

Per pigrizia non aveva alzato lo sguardo oltre quel parapetto, osservando quel mare di cui percepiva solo il movimento oscillatorio. Per sua scelta non voluto vedere le bende, i cerotti e i medicamenti che riempivano il corpo del fratello minore, abbandonato lì non per il sonno, ma per spossatezza.

Ed era sangue, quello che traspariva dalle bende che ricoprivano l’intero fianco destro di Luffy; odorante di disinfettante e... gomma, mista a carne, bruciata. E di ruggine, e ferro... l’odore, appunto, del sangue raffermo.

Sembrava uscito da un combattimento corpo a corpo con un gigante. Oppure...

Oppure da una battaglia.

Si morse con forza il labbro inferiore, chiudendo a pugno la mano prima che potesse afferrare quella – così debole, e fragile ora – del fratellino. Sentì il proprio cuore stringersi in una morsa, e la bocca dello stomaco chiudersi come cauterizzata.

La realtà esisteva, e non era quella lì. Non era quella barca, non era quel cielo dal colore così particolare. Era l’incubo, la realtà. Era il sogno da cui pensava di essersi svegliato ma in cui, in realtà, si era addormentato.

Semplicemente, lui non aveva voluto vedere.

« Ace? » chiamò di nuovo Luffy – Dio, un filo di voce appena udibile... – con una nota lievemente preoccupata.

Come se avesse paura che quella fosse illusione, e che non avrebbe sentito mai più la sua voce.

Si fece coraggio, Pugno di Fuoco. Raccolse ogni briciola della sua presenza mentale.

Probabilmente, entrambi sapevano cos’era realmente successo. La differenza era che mentre Ace non se ne era reso conto fino a quel momento, nonostante lo avesse vissuto anche lui come l’altro, Luffy non aveva ancora accettato l’avvenimento.

Ace era morto, in realtà. Aveva perso la vita per mano altrui, riverso nell’ultimo abbraccio del fratello minore, ringraziando lui e gli amici con parole gracchiate fra le lacrime, prima di cadere nella polvere.

Prima di sentire la vita, quel soffio caldo che accompagna il respiro – e il battito del cuore, o delle ciglia; il movimento dei muscoli, la morbidezza delle labbra e ogni singolo pensiero -, abbandonarlo.

Era così, morire. Ci si addormentava e ci si dimenticava di essere morti.

Almeno fino a quando non ci si ricordava tutto.

Sorrise amaramente, Ace. Trattenne le lacrime, Ace.

Chiese scusa, Ace.

Chiese scusa al fratello per la promessa che non avrebbe più potuto mantenere.

Non seppe cos’altro fare se non rispondergli. « Sono qui, Luffy » disse, osservandolo.

Probabilmente quella era l’ultima volta che avrebbe potuto farlo.

Non sapeva – e come poteva? – cos’era successo dopo dentro quell’Inferno, ma se le fasciature che ora vedeva sul corpo dell’altro erano reali, probabilmente era già stato portato in salvo e curato.

Era vivo.

Per fortuna era vivo.

Luffy, al sentire quella voce, sospirò.

Sì, era paura, quella. Lo sapeva.

Anche se non lo ammetteva, lo sapeva.

Non ebbe più bisogno, Ace, di alzare la testa e vedere dov’erano. Sapeva più che bene dove si stava dirigendo quella barchetta, ed era un posto in cui Luffy non poteva andare.

Ringraziò, Ace.

Chiunque fosse stato a donargli quell’ultima occasione, lo ringraziò.

« Luffy? » chiamò, sorridendo con un misto di dolcezza e rassegnazione.

« Mh? » si fece dunque sentire il ragazzo, facendogli intendere che lo stava ascoltando. Gli occhi scuri, sempre socchiusi, lottavano per aprirsi del tutto, nonostante l’estenuante battaglia affrontata e il bisogno fisiologico di riposare per riguadagnare le energie perdute.

« Luffy, tieni gli occhi chiusi » gli disse, prendendogli finalmente la mano. Sentì il calore, il tocco ruvido di quelle dita sottili ma screpolate, seppe dalla lieve stretta che anche Luffy poteva percepirlo.

« Sai dove sto andando? » domandò allora Ace, toccando l’argomento il più dolcemente possibile.

Le sopracciglia scure di Cappello di Paglia si aggrottarono in una smorfia dolorante, ma come gli era stato detto non aprì gli occhi. Si morse semplicemente il labbro, probabilmente per non piangere.

Lo sapeva.

« Non lo voglio sapere » rispose però, trattenendo il fiato alla fine della frase.

« Lo sai già, vero? » domandò allora, sempre con lo stesso tono. Trattenendosi a sua volta dal farsi sentire angosciato, o in lacrime. Da quando aveva promesso di proteggere quella testa calda del suo fratellino da tutto ciò che avrebbe potuto fargli del male, si era ripromesso di essere forte e smetterla di piangersi addosso.

Avrebbe resistito fino alla fine.

Tsk, ironico che la fine fosse proprio quella.

Solamente la sua mano tremò un istante, ma fu fermamente tenuta stretta da Luffy. Sorrise ancora al gesto, un sorriso sghembo che cercava di non lasciarsi andare ad inutili sentimentalismi.

Erano pirati. Morire era una cosa... normale.

Non aveva paura di morire. Forse un po’ di... dispiacere.

« Luffy... » provò di nuovo, incontrando ancora la ferma opposizione dell’altro, che scosse la testa.

« Non dirlo. Non lo voglio sentire » precisò, sempre ad occhi chiusi.

« Fratellino » lo chiamò dunque: « nel posto dove vado, tu non puoi venire ».

Fu il silenzio, questa volta, a rispondere. Luffy non aggiunse nulla, se non le prime di molte, silenziose lacrime.

Però, poi, sorrise. Un sorriso storto e stentato, ma pur sempre un sorriso. « Dici che ci possiamo rivedere? » domandò allora, tremando appena per tenere su quella facciata poco credibile.

Ma lui era Monkey D. Luffy. Il sorriso era l’espressione che più si addiceva a quel volto; e quel sorriso, aveva salvato Ace da se stesso così tante volte, che ormai aveva perso il conto del bene che gli aveva sempre fatto, vederlo sorridere.

Annuì con il capo, anche se Luffy aveva ancora gli occhi chiusi. « Quando sarai Re dei Pirati, e avrai vissuto la tua vita » disse allora, trattenendosi a stento.

Luffy annuì, continuando quel sorriso goffo e bagnato dalle lacrime.

Ace, con delicatezza, portò l’altra mano ad accarezzargli la guancia. « Apri gli occhi, ora. È l’alba ».

Ti voglio bene, fratellino.

Grazie per avermi salvato.

 

Trafalgar Law, seduto sulla sedia di legno accanto al letto, si risvegliò pacatamente.

Non era stata una notte di quelle da ripetere, quella. Nell’aria ancora persisteva l’odore pungente di tutto il disinfettante che aveva dovuto usare, e le garze sporche di sangue stagnavano zuppe nella bacinella dell’acqua, ormai scarlatta.

Cercò di riprendersi dalle due ore scarse – e scomode – di sonno, provando al contempo a capire cosa lo avesse svegliato.

Individuò il “disturbo” in una debole stretta alla mano, intrappolata in quella fasciata appartenente all’ospite attualmente in cura sul suo sottomarino.

Osservandolo bene, si espresse in un lieve ghigno.

« Sono felice che tu sia vivo » disse, chiudendo di nuovo gli occhi; « non preoccuparti, Capitano. Non guardo ».

Fece finta, il medico, di non aver visto le scie bagnate che rigavano le gote del ragazzino, girato verso di lui sul fianco sinistro.

Così come non ritirò la mano da quella lieve presa.

 

 

 

~ Owari

   
 
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