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Autore: Luine    22/09/2010    7 recensioni
«Beckett?»
Sentendosi chiamare, la detective esplose: «Chiudi il becco, Castle! È colpa tua se siamo in questa situazione!»
Se pensava che Castle sarebbe rimasto zitto a farsi riversare addosso tutta la frustrazione per qualcosa che si era andata a cercare, si sbagliava di grosso. Ma era più stupefatto che arrabbiato. «Colpa mia? Sei stata tu a voler prendere l'ascensore!» esclamò, infatti, indignato.

Un temporale da dimenticare, un blackout, un caso da risolvere, un ascensore bloccato e Beckett e Castle lì dentro. Ne vedremo delle belle!
Vincitrice dei premi Best Ficlet, Best Kiss, Best Scene e Best Fanfiction nel Diciottesimo Turno di Never Ending Story Awards.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Avevo detto che non sarei mai riuscita a scrivere niente più di una drabble. A quanto sembra, sono una bugiarda. XD Festeggiamo comunque la prima one-shot: finalmente riesco a scriverne una senza andare a sfociare in una long di (almeno) nove/dieci capitoli. :)

A dire la verità, questa storia era partita proprio con l'idea di dover essere una drabble che aveva come tema il “colpo di fulmine”, cosa di cui i nostri protagonisti parleranno nella prima parte, infatti. Dato che, quando avevo finito di scrivere, c'erano molte più di cento parole, mi sono detta: non ho voglia di modificarla. Vediamo che cosa potrebbe succedere se decido di allungare il brodo. Beh, questa è la risposta. Spero che la apprezzerete e che vi diverta come ha divertito me scriverla.

Un piccolo (grande) ringraziamento va a mia sorella che mi ha aiutata a trovare tutte le incongruenze del caso. Se questa storia esiste, è anche un po' merito suo. ;)

A voi, buona lettura. ^^

(Ringraziamenti ed eventuali risposte ad eventuali recensioni in fondo al capitolo). Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno inserito in preferiti e ricordate le precedenti due drabble (ne ho un'altra pronta ma la pubblicherò più avanti, non vorrei viziarvi troppo XD ) e coloro che, naturalmente, hanno lasciato un commentino. E, adesso, vi lascio davvero.



Come in quei film


Era una fredda notte di pioggia; New York sembrava essere stata sommersa, il traffico era bloccato e le auto arrancavano in mezzo alle altre quasi galleggiando. Dall'ufficio del capo in cui erano rinchiusi per via del blackout provocato da quel temporale che pareva volersi portare via l'intera città, l'unico che possedeva una luce d'emergenza abbastanza forte per vedere in tutta tranquillità senza dover sbattere il naso su qualche muro, Castle teneva gli occhi puntati sul cielo plumbeo e la bocca aperta, meravigliato.

«Castle? Che ne dici di chiudere la bocca?» lo rimproverò Beckett, guardando il suo riflesso sul vetro.

«Scusa. Era da un po' che non vedevo un fulmine così da vicino! Accidenti! È proprio come nei cartoni animati... bianco e...» fece dei segni a zigzag nell'aria, per mimare il fulmine che si era abbattuto sulla città pochi secondi prima. «A zigzag!» disse, infatti, elettrizzato.

«Sono felice che tu sappia che forma hanno i fulmini, Castle, ora ti va di sederti?»

Lui si sedette velocemente e, ammiccando, la guardò con un'espressione furba che la fece irrigidire, ma lei non ebbe il tempo di rendersi conto di cosa era successo, che Castle era tornato alla finestra, il cellulare in mano e un'espressione di gioia fanciullesca stampata in faccia. «Ah, quasi quasi, il prossimo lo filmo e lo metto su Youtube.» dichiarò.

Beckett corrugò la fronte, cercando di capire come fare per frenare quella nuova follia rendendosi conto di avere la testa vuota, proprio come per il caso: pareva che New York, con la sua pioggia, fosse riuscita a lavare via tutte le sue capacità deduttive. La verità, però, era che era in piedi da più di due giorni, ad arrovellarsi sul classico delitto della stanza chiusa: Lanie aveva detto che la vittima non si era suicidata, ma era stata uccisa con un coccio di vetro che gli si era conficcato nel petto; la scientifica aveva specificato che la porta era stata chiusa dall'interno e le finestre non erano mai state aperte, né per fare entrare, né per fare uscire eventuali assassini. I rilievi sembravano dare ragione a questa teoria.

«Se hai finito con le idiozie, possiamo continuare a lavorare al caso? Credevo che ti piacesse!» lo stuzzicò, giusto per ricordargli che era stato lui il primo ad arrivare e, saltando da un angolo all'altro dell'appartamento dentro il quale era stato trovato il corpo, aveva agguanto lei, Ryan e Esposito per far vedere loro la posizione di quello stesso corpo mai identificato.

«Certo che mi piace!» esclamò Castle, convinto. «Ma, detective, tu non senti la magia di questa notte?»

Tese l'orecchio, come se il sentire la magia implicasse doverla percepire con l'udito. Beckett lo guardò soltanto, picchiettando impaziente il cappuccio della penna contro il rapporto della scientifica. Era lì che, secondo lei, la storia non tornava. C'era qualcosa a cui nessuno aveva pensato, tutti troppo elettrizzati dall'idea di avere a che fare con quel vecchio rompicapo.

«Tu hai mai avuto il colpo di fulmine?» la domanda di Castle distolse la sua attenzione dal caso. Di nuovo.

«Come?» replicò, incerta.

«Il colpo di fulmine. È... quando vedi una persona, la guardi e capisci che sarà quella con cui vorrai passare tutto il resto della tua vita.»

«So cos'è. Comunque no.» replicò lei. «Castle... davvero... torna in te e dammi una mano!»

Castle mise su un'espressione pensierosa, anzi, a Beckett sembrava che fosse diventato pressoché triste. Lo guardò, mentre senza dire una parola si sedeva sulla sedia dall'altra parte della scrivania. Non era proprio quello che lei aveva in mente, ma era un notevole passo avanti: nessun cellulare, nessun fulmine, solo un tuono particolarmente lontano che li fece sussultare entrambi. Ma Castle non parlò neanche per fare una battutina, o per punzecchiarla. Ancora pensava al colpo di fulmine?

«Castle? Non ti sembra il caso di...» si interruppe, adesso preoccupata, vedendo che non c'erano reazioni di alcun tipo, da parte sua. «Castle?»

Castle rimase zitto. Senza la sua voce, il silenzio al distretto era pressoché totale e sembrava mancare la vita fondamentale per continuare a lavorare: il capo era andato a casa – e Beckett sperava che fosse riuscito ad arrivarci, prima dell'arrivo della tempesta – Ryan era con la sua fidanzata ed Esposito era andato a casa a dormire ancora prima che scoppiasse quell'inferno. Della squadra, quella notte, a parte i pochi del turno di notte, c'erano lei e... beh, c'era Castle.

«Neanche io ho mai avuto il colpo di fulmine...» mormorò lui, ad un tratto. «cioè... senza contare Meredith... ma lei non credo che conti... è successo persino a Derrick Storm e non a me... è piuttosto imbarazzante.»

Beckett non riuscì a trattenersi dal mostrarsi sconcertata, credendo di cominciare a capire. «E tu... sei riuscito a stare zitto per...» guardò l'orologio di suo padre, sperando di poter contare il tempo per cui era riuscito a rimanere in silenzio (e se poteva essere considerato un record personale). «cinque minuti... per ricordare tutte le tue fiamme?»

Lui arricciò le labbra, divertito. «Sì, più o meno.» rispose, al che Beckett alzò gli occhi al cielo, un po' per l'esasperazione un po' per darsi della stupida per essersi preoccupata inutilmente un'altra volta: avrebbe dovuto fare il callo alle stupidaggini di Castle, ma ci cascava puntualmente e faceva sempre la figura della stupida. Quello sì che era un record personale, pensò, scuotendo la testa rassegnata.

«Se hai finito, puoi tornare a fare la persona seria e ad aiutarmi?» chiese, quindi.

Lui annuì, corrugando la fronte e tentando di riprendere un contegno. «Okay, detective, sono pronto. Qual è la domanda?»

«La domanda è sempre la stessa: come è stato ucciso John Doe?»

Il silenzio calò di nuovo tra loro e stavolta non per contare tutte le fiamme di Castle; se fosse stato possibile, ognuno dei due avrebbe potuto sentire le rotelle dell'altro lavorare alacremente per trovare una risposta. Solo che sembrava non esserci una risposta, solo un'altra infinita serie di domande da aggiungere alle precedenti. Castle fu il primo a desistere e confermò la propria sconfitta con un sospiro esausto.

«Forse dovremmo tornare sul luogo dell'incidente.» propose per l'ennesima volta. «Ma con questa pioggia... credo che ci convenga aspettare fino a domani mattina. Ha aspettato tanto, potrà aspettare qualche altra ora...»

Era vero: il cadavere era stato lì per più di una settimana e, se non fosse stato per la puzza che aveva cominciato a dare fastidio agli inquilini del palazzo, nessuno se ne sarebbe accorto. La cosa più strana era che il morto non era il proprietario dell'appartamento: quello, il signor Joseph Kepner, era tornato dagli Hamptons quando la polizia aveva cercato di rintracciarlo e il suo alibi per il giorno dell'omicidio era talmente ferreo che nessuno era andato a cercare oltre. Avevano setacciato vecchie fiamme con cui si era lasciato nel peggiore dei modi, avevano cercato concorrenti, soci in affari, tutti quelli che conosceva – o almeno era quello che gli aveva dato ad intendere. Neanche Ryan e Esposito avevano trovato niente, neanche la più piccola macchia, una sbavatura nel curriculum del proprietario dell'appartamento. Niente di niente. Un uomo d'affari, ma un uomo per bene. Per Beckett era frustrante.

«Almeno trovassimo una macchia, un'ombra... qualcosa, diamine!» sbottò.

«Ah, appunto penso sia colpevole: è troppo perfetto... anche io ho la fedina penale sporca e posso, tutto sommato, considerarmi un bravo ragazzo...»

«Già...» borbottò Beckett, scontenta, guardando il rapporto della scientifica. Poi, rendendosi conto di ciò che Castle aveva detto, alzò lo sguardo. «Hai detto che hai la fedina penale sporca?»

«Sì...» Castle sorrise, come se la cosa lo rendesse particolarmente orgoglioso di se stesso. «Avrò avuto l'età di Alexis... ho rubato la macchina del compagno di mia madre... avevo fatto una scommessa col mio amico Ronald Parrish... che tipo... non mi ha mai potuto sopportare.»

«Ma chi? Il tuo amico?»

«No, il compagno di mia madre.»

«E' per questo che gli hai rubato la macchina?»

«No, non avevo idea che fosse la sua.»

«E com'è finita?»

«Ha ritirato la denuncia, soprattutto perché non voleva che io dicessi a mia madre che lui aveva usato quella macchina per andare dalla sua amante...» rispose lui, come se la cosa avesse dovuto essere ovvia per chiunque.

Beckett rimase interdetta a fissarlo. «E' vera questa storia?»

«Assolutamente sì!»

Beckett, sconcertata, si ritrovò ad annuire e Castle ad inclinare la testa, come se questo avesse potuto aiutarlo ad osservarla meglio.

«Sei sorpresa?»

«Tu hai il potere di lasciarmi sempre senza parole.» dichiarò lei, sincera.

Un tuono improvviso li fece sussultare per la sorpresa e disse loro che era anche tempo di lasciar perdere i discorsi stupidi e di riprendere a fare qualcosa per dare un nome e un volto ad un assassino.

«Allora scaviamo nel passato di Kepner.» tagliò corto Beckett e Castle rizzò le orecchie, i suoi occhi si illuminarono come ogni volta che veniva proposto un qualcosa di interessante per trovare un assassino o per incastrarlo. Sembrava non stare nella pelle, quando riuscivano a combinare qualcosa.

«Cerchiamo le sue auto rubate?»

«Sì, più o meno.»

«Ma come?» e si sgonfiò come un palloncino. «Neanche il telefono funziona!»

Entrambi guardarono il telefono sulla scrivania del capo e sospirarono all'unisono. Mentre lui si buttava sullo schienale, sfiduciato, lei appoggiò la guancia sul pugno chiuso, guardando, senza realmente vederlo, il rapporto della scientifica che ormai conosceva a memoria. Sarebbe stata in grado di recitarlo, se solo Castle gliel'avesse chiesto.

«La verità» disse. «è che ci siamo fissati che è il rompicapo della camera chiusa. Ci deve essere una ragione. C'è sempre!»

«Mi sembra di sentir parlare me, sai?» rispose lui, sorridendo sornione.

Lei gli scoccò un'occhiata omicida. «Togliti quel ghigno dalla faccia, Castle.»

Castle si affrettò ad ubbidire: non era mai consigliabile disobbedire, quando Beckett metteva su certe espressioni per le quali pure lui riusciva a tremare di paura.

Ma Beckett aveva già perso interesse per il battibecco: non riusciva a venire a capo di quella storia e la cosa la frustrava. Cominciò a ripetere a memoria il rapporto della scientifica, per evitare di guardare Castle che le rivolgeva un'espressione da cucciolo bastonato. Le prime righe erano stampate a fuoco nella sua mente. E fu in quel momento, mentre un altro fulmine illuminava a giorno l'ufficio del capo, che lei e lui scattarono in piedi, fissandosi intensamente come quando entrambi capivano qualcosa nello stesso momento. Ultimamente, poi, capitava sempre più spesso.

«L'appartamento era chiuso dall'interno!» esclamarono all'unisono.

«Questo significa che John Doe aveva le chiavi!» disse lei.

«E qualcuno doveva avergliele date.» rispose lui.

«E l'unico che poteva farlo era il proprietario!»

«Oppure il portiere.»

«Ma il portiere gliele avrebbe date solo se il proprietario gli avesse detto di poterle prendere.»

«Cioè il nostro uomo d'affari gli ha permesso di entrare in casa.»

«E noi in casa abbiamo trovato il mazzo di riserva.» replicò lei. Si allontanò dalla scrivania e la aggirò, ritrovandosi faccia a faccia con lui. Entrambi sorridevano e lei cominciava a sentire l'euforia tipica del momento in cui riuscivano, insieme, ad approdare a qualcosa. «Quindi il proprietario ci ha mentito, quando ha detto che non conosceva l'uomo morto in casa sua.»

«Ma che ci faceva in casa sua? Perché ci era andato?» domandò Castle.

Beckett fece marcia indietro. «E se stessimo sbagliando? Se lui fosse davvero lì senza il consenso del proprietario?»

«Potrebbe aver mentito al portiere e dato una scusa qualunque per entrare. Forse gli aveva detto di essere atteso e lui non ce l'ha detto perché non ci ha fatto caso... ricordi? John Doe era un tipo distinto, giacca e cravatta...»

«L'immagine di un uomo rispettabile.»

«Si era fatto fare le chiavi da qualcuno. In un ferramenta.»

«Un mazzo di riserva che non è un mazzo di riserva!»

«Ah, questo comincia a sembrare uno dei miei romanzi!» rispose lui, sorridendo eccitato. «Quindi il proprietario non ha mentito?»

«Non necessariamente...» rispose Beckett, lentamente. Rapida, si avviò verso la porta e, proprio mentre la apriva, un tuono spazzò via il nuovo silenzio che aveva seguito le sue parole, la luce elettrica si riaccese, illuminando a giorno il distretto, i telefoni cominciarono a squillare e tutto sembrava, improvvisamente, tornato alla normalità. «Su, Castle, andiamo!»

Castle corrugò la fronte. «Dove?»

«All'appartamento!»

«Ma... piove!»

«E allora? Muoviti, non abbiamo tutto il giorno!»

Lui si affrettò a seguirla verso l'ascensore. «Hai risolto il caso, allora? Ehm... non sarebbe il caso di prendere le scale? Sai... con questa pioggia... rischiamo di rimanere chiusi dentro.»

«No.» rispose lei, senza accennare a fermarsi. «Ci rallenterebbero e abbiamo poco tempo. Voglio vederci chiaro prima di domani mattina!»

Si fermò di fronte alle porte e premette con tutta la sua forza il pulsante di chiamata, strappando a Castle un gemito di dolore, quasi avesse colpito lui, ma lei era completamente presa dal caso e non se ne sarebbe accorta, a meno che lui non fosse stramazzato a terra e non avesse gridato la propria sofferenza. O, almeno, era quello che Castle pensava.

«Insomma, hai risolto il caso?» insistette.

«No...»
«E allora perché hai fretta?»

Non ebbe il tempo di rimuginarci sopra un attimo di più che lei lo trascinò dentro l'ascensore e con evidente piacere premette il pulsante contrassegnato col numero -1.

«Bene...» dichiarò, poco convinto, Castle. «e se si ferma?»

«La vuoi smettere di fare l'uccellaccio del malaugurio?»

Durante il tragitto, la tensione che era calata si poteva tagliare con un coltello e il fatto che lei picchiettasse un po' troppo ferocemente la punta della scarpa contro il pavimento minava all'autocontrollo di Castle che si sentiva mettere fretta. Per aiutare lei e anche un po' se stesso a calmarsi le posò una mano sulla spalla. «Detective, così non lo spingerai verso il basso. Non farà prima.»

Beckett non lo ascoltava; guardava intensamente il display con i numeri che decrescevano lentamente. Pareva quasi che avesse degli auricolari invisibili attaccati ad un iPod ancora più invisibile. Castle ci rinunciò, ma finché non gli avesse intimato di togliere quella mano, lui non l'avrebbe fatto: gli piaceva quel contatto così effimero, eppure in qualche modo tanto intimo e se lei glielo permetteva, almeno quello... che male poteva esserci ad approfittarne?

«Castle?»

Lui sospirò: era arrivato il momento e fece per togliere la mano. Beckett aprì la bocca per dirgli di farlo, quando la lampada al di sopra dell'ascensore cominciò a tremare e, infine, dopo una lenta agonia, si spense. Buio. Immobili e rigidi, entrambi trattennero il respiro come se si fossero accordati per farlo.

Castle fu il primo a riprendersi. «Ops.» commentò. Beckett non rispose, ma almeno il suo piede aveva smesso di provocare quel rumore ossessivo. Il problema era che Castle sapeva che lei era viva semplicemente perché aveva sospirato pesantemente.

«Beckett?»

Sentendosi chiamare, la detective esplose: «Chiudi il becco, Castle! È colpa tua se siamo in questa situazione!»

Se pensava che Castle sarebbe rimasto zitto a farsi riversare addosso tutta la frustrazione per qualcosa che si era andata a cercare, si sbagliava di grosso. Ma era più stupefatto che arrabbiato. «Colpa mia? Sei stata tu a voler prendere l'ascensore!» esclamò, infatti, indignato.

«Sì, ma chi continuava a piagnucolare e a dire che l'ascensore si sarebbe fermato?»

«Beh, è colpa tua comunque. Io ti avevo avvertita!»

Castle era sicuro che Beckett, potendo, gli avrebbe fatto pagare cara questa frase ed era quasi contento di non poter vedere l'occhiata-killer che lei, sicuramente gli stava rivolgendo, anche al buio. «Non si vede un palmo dal naso.» sibilò lei, contrariata. La sentì spostarsi e, inavvertitamente, pestò il piede di Castle che, per la sorpresa, più che per il dolore, gridò.

«Che c'è?» esclamò lei, allarmata.

«Niente... mi hai solo infilato il tuo tacco nel piede... sicuramente sarà da amputare!» rispose Castle, sofferente.

Beckett imprecò tra i denti, in un sibilo appena percettibile, forse solo da lui che le era accanto. Castle la sentiva armeggiare nel buio contro le porte dell'ascensore e sentiva le pareti rimbombare. Il buio amplificava i suoni e dilatava gli spazi, gli sembrava di essere in un luogo senza fine, non in quel buco d'ascensore dentro al quale aveva ascoltato Beckett picchiare la punta della scarpa contro il pavimento. Anche lei pareva essersi allontanata di molte miglia.

«Hai provato a suonare l'allarme?» domandò.

Gli parve che la sua voce fosse troppo bassa per arrivare fino a lei, ma Beckett rispose senza esitazione, fremente di rabbia. «Sì, ma non funziona. Non funziona niente, in questa notte schifosa!»

«Te l'av...»

«E non mi dire che me l'avevi detto!» sbraitò lei.

Castle si morse la lingua. «Okay.»

Calò un lungo e pesante silenzio tra loro, uno di quei silenzi pieni di rimproveri e di frasi non dette che rendeva l'aria irrespirabile. E Castle odiava quella sensazione. Doveva stemperare gli animi, se ci riusciva; punzecchiarla un po' riteneva che fosse il modo migliore per ottenere il proprio scopo. «Proviamo ad urlare?» chiese, in tono leggero. Aspettò una risposta che non arrivò mai. «Detective?»

«Sono qui.» replicò lei, gelida.

«Non ti vedo.»

«Per forza, Castle! È buio. Notoriamente, al buio non ci si vede!»

«E dai... non essere così arrabbiata! Quel che fatto è fatto e io...»

«Castle,» lo interruppe lei, ben sapendo che lui voleva semplicemente rinfacciarle che lui sapeva come sarebbe andata a finire. Beh, non proprio al buio. «perché non provi a conservare l'aria, stando zitto?»

«Ma mi annoio! Il buio è noioso!»

Lei sospirò, esasperata e non disse nient'altro. Di nuovo, aleggiò tra loro quella tensione così netta che si poteva tranquillamente tagliare con un coltello. Castle cominciava a sentirsi mancare l'aria; forse Beckett aveva avuto ragione a dirgli di fare silenzio: non era solo perché lui parlava effettivamente troppo – ma era uno scrittore, diamine! Uno scrittore deve saperci fare con le parole! – ma anche perché l'aria respirabile finiva prima o dopo... quella viziata intorpidiva la mente e rendeva le membra stanche. Castle cominciò a sentirsi effettivamente molto stanco, ma non sapeva se era perché era rimasto in piedi molto a lungo e aveva bisogno di sedersi o se era davvero il fatto di rimanere al chiuso in uno spazio angusto a renderlo tale.

«Io mi siedo.» dichiarò.

«Fallo.»

«Ti metti vicino a me?»

«Non so neanche dove sei...»

«Allunga un braccio!» esclamò lui, facendo lo stesso. Ci mise troppo entusiasmo e, quando lo tese, colpì qualcosa; Beckett protestò con un «ahi» inviperito che gli fece ritrarre il braccio, spaventato dall'idea che lei, in un impeto di rabbia, per vendetta, gli afferrasse il polso e glielo torcesse fino a spezzarglielo. Le aveva visto fare cose mirabolanti, con i malviventi, e poi praticava kick boxing... anche quello poteva valere qualcosa.

«Ups... che cos'era?» domandò, preoccupato.

«Il mio naso...» replicò lei, acre.

«Scusa.» davvero dispiaciuto, si lasciò scivolare fin sul pavimento. Di nuovo, lei protestò, stavolta quando il piede di Castle colpì un'altra parte di lei, forse un piede o una caviglia.

«Ma la vuoi smettere?»

«Non ci vedo!» si scusò lui, di nuovo. «Cos'era?»

«Il mio piede.»

«Consideralo un risarcimento per quel tacco...»

«Quello te lo sei già preso col naso!» rispose lei, scontenta.

Stava per rispondere, quando si sentì stringere i capelli e poi tirare verso l'alto. Un dolore lancinante si propagò per il suo povero cuoio capelluto. «Ahi. Ahi. Ahi. Detective, che stai... ah... bastabastabasta!» proprio mentre diceva il terzo “basta”, la presa di Beckett si annullò e lui sentì vibrare il muro mentre lei ci si accasciava contro. Sentì i suoi capelli sfiorargli la faccia, segno che anche lei si era seduta.

«Sei riuscita a trovarmi!»

«Non ci voleva tanto... respiri come un elefante...»

«Adesso siamo pari.»

Percepì il suo sorriso nel buio. «Sì, diciamo così...»

«Sei ancora arrabbiata.» constatò.

«Un po'... eravamo ad un passo così dal risolvere il caso...»

«Beh, più di un passo.» la corresse lui. «Insomma... non avevamo ancora niente, in mano. Solo un paio di congetture e niente di più.»

«Almeno potessi chiamare quelli della scientifica per dire loro di analizzare le chiavi...» sospirò lei, con evidente desiderio.

«Prendi il cellulare, no?»

«E' scarico. Posso usare il tuo?»

«Sì, cert... no! L'ho lasciato sul davanzale per registrare i fulmini! Si sarà scaricata la batteria!» batté un pugno sul palmo teso dell'altra mano. «Cavolo!»

Beckett sospirò. Anche quell'ultima possibilità era sfumata del tutto. Seduti, l'uno accanto all'altra, dentro un ascensore e un temporale coi fiocchi che era riuscito persino a mandare in blackout il distretto e un'indagine in corso, aspettavano. Non esisteva niente di peggio, per Beckett.

Sentì Castle che sospirava. «Sarebbe il momento ideale per un po' di sesso. Hai mai fatto sesso in ascensore, detective?»

Beckett si sentì cadere le braccia e mugolò, disperata: esisteva qualcosa di peggio, ed erano le battute stupide di Castle. «Perché dovevo essere chiusa con te, in un ascensore? Insomma... con le tante persone che esistono al mondo, perché proprio con te?»

Percepiva che lui si muoveva accanto a lei e, dopotutto, la cosa, per quanto la rendesse impotente di fronte al caso di omicidio, non le dispiaceva del tutto: se non fosse stato per quella situazione di emergenza in cui si era andata a cacciare con le sue stesse mani, seduta accanto a Castle, in perfetto silenzio, lontano dalla frenesia del lavoro o dalle sue battutine stupide, avrebbe pensato ad un perfetto idillio. Ma lui riusciva ad aprire sempre bocca con frasi a sproposito: «E se dovessimo morire, tu me lo daresti un bacio? Intendo... un bacio con la lingua... uno di quei baci che si vedono solo nei film e che l'eroina dà sempre al suo eroe prima di morire.»

Beckett benedì l'oscurità che impedì a lui di vedere l'espressione omicida che le era apparsa sul volto, insieme ad un leggero imbarazzo. Non poteva farle certe dichiarazioni... non su un ascensore. Non su un ascensore bloccato. Non su un ascensore bloccato dove c'erano solo loro due.

Cercò di allontanarsi, ma l'ascensore era troppo piccolo e dovunque si spostasse, lui c'era sempre: o un ginocchio, o un fianco, una mano, un braccio. Lui era lì, insieme a lei, appiccicato a lei, e la cosa cominciava a diventare soffocante.

«Non è il momento, Castle...»

«Ma se lo fosse, lo faresti?»

«Non moriremo, quindi il problema non si pone.»

«Che cosa ne sai? Magari su New York si è abbattuta la più brutta tempesta degli ultimi cento anni, magari verrà spazzata via da uno tsunami e noi moriremo soffocati qui dentro. Pensaci, non vorresti darmi un bacio prima di morire?»

Beckett girò la testa dalla parte opposta a quella in cui si trovava Castle. «A volte mi chiedo perché ti sto a sentire...»

«Perché dico solo cose interessanti.» rispose lui, solenne.

«Sì... certo.»

«Detective?»

«Eh.»

«Sei girata verso di me?»

«Che cosa hai...»

Beckett non seppe bene cosa fosse successo. Aveva solo la vaga consapevolezza che le labbra di Richard Castle si fossero posate sul suo naso nel momento stesso in cui lei si era nuovamente voltata verso di lui. Rimase paralizzata; il corpo le chiedeva di allontanarlo e di tirargli contro un pugno tanto forte da tramortirlo, ma la sorpresa le aveva tolto la capacità di farlo, così come la capacità di opporsi alle sue mani che le toccarono gentilmente il viso e che glielo tennero fermo.

«C-Castle... che... che stai...»

Tacque, quando lui posò le labbra sulle sue, come attratto dalla sua voce, desideroso di spegnerla. Le diede un bacio, un bacio appena accennato, un bacio gentile, pudico. Non era un bacio che si sarebbe aspettata da Rick Castle. Per qualche ragione, quasi per volergli dimostrare ciò che avrebbe voluto che facesse, ma più semplicemente guidata dall'istinto, Beckett lo costrinse ad aprire la bocca per dargli quel bacio con la lingua che lui le aveva chiesto poco prima, per gioco. Forse non se l'era aspettato, perché, sulle prime, era stato lui a rimanere stupefatto esattamente come lo era stata lei. Durò un attimo, il tempo di capire che poteva andare avanti.

Una vocina fastidiosa nella testa di Beckett, però, la costrinse ad aprire gli occhi e a spingerlo lontano da sé nello stesso momento in cui sentiva di perdere il lume della ragione, soggiogata dalle vertigini e dalle piacevoli sensazioni. Si alzò in piedi, ansimando, con la stessa velocità che poteva metterci un gatto nel saltare addosso ad un topo. L'unica cosa che la terrorizzava era il fatto che lui gliel'avrebbe rinfacciato da lì fino alla fine dei suoi giorni.

«Ehi! Ho un'idea!» esclamò lui, allegro. «E se aprissi il tettuccio e provassimo a risalire le funi fino al piano?»

«Eh?» domandò lei, sconvolta.

«Le funi. Sei un po' distratta?»

«N-no... per niente! Mi chiedo se tu sia stupido o... o cosa.»

«Perché? Come nei film d'azione!»

«Tu vedi troppi film!» replicò lei, brusca. Prima la baciava e poi faceva finta di niente. Avrebbe dovuto essere lei quella indifferente, e, invece, era lui che aveva aperto le danze e lui che le aveva chiuse, come una parentesi senza importanza. Ma che poteva aspettarsi da Rick Castle? Era di un donnaiolo che stava parlando... e la cosa la metteva di cattivo umore.

L'ascensore vibrò di nuovo come in risposta alle sue sensazioni. Entrambi si appiattirono contro le pareti, mentre la lampada si riaccendeva senza esitazione e l'ascensore riprendeva a muoversi verso il basso, placidamente, senza scossoni o proteste o rumori strani, come se quella parentesi e quel buio totale non fossero mai esistiti. Meglio così, pensava Beckett, ma non riusciva a guardare in faccia Castle, né lui riusciva a farlo con lei.

Uscirono dall'ascensore, con un sospiro di sollievo ciascuno, e si diressero verso la macchina di Beckett che si infilò alla guida, in silenzio. Non c'era bisogno di parlare e nessuno dei due ne aveva davvero voglia; quasi si fossero messi d'accordo, andarono entrambi ad accendere l'autoradio ed entrambi desistettero, quando le loro dita tese inavvertitamente si sfiorarono.

Castle si girò verso il finestrino, guardando fisso il vetro su cui scrosciava incessantemente la pioggia e impediva di vedere il paesaggio, mentre lei teneva lo sguardo sullo strada, il poco che poteva vedere, prima che l'acqua si abbattesse sul parabrezza.

Si avviarono verso la casa di Joseph Kepner in religioso silenzio. Niente battute, niente sciocchezze, niente chiacchiere. Persino Castle sembrava considerare buona l'idea di stare in silenzio. Forse, pensò Beckett con una punta di vergogna e rammarico, stava semplicemente spuntando una sua lista mentale e il suo non era imbarazzo.

La macchina slittava in avanti, come i suoi pensieri, scivolosi come le ruote sull'acqua alta che ricopriva la strada come se questa fosse il letto di un fiume.

L'unica cosa da fare, pensò, mentre trovava un parcheggio di fortuna in seconda fila, era fare finta di niente, esattamente come aveva fatto lui. Niente complicazioni inutili: lei non era di certo una di quelle sciacquette che strillavano per il bacio dato alla star di turno o che assillavano gli uomini con mille messaggi di gelosia per sapere dov'erano. Era stato un bacio, una sciocchezza dettata dalla paura del buio e di uno spazio angusto, tutto qui. Solo un modo per scaricare la tensione, un bacio di addio... come l'aveva chiamato lui.

Correndo per mettersi al riparo sotto la tettoia al di fuori dell'edificio che ospitava l'appartamento, si convinse che non doveva mostrarsi diversa da ciò che era sempre stata. Non avrebbe giovato al caso e non voleva che Castle, per quella sciocchezza, smettesse di aiutarla nel suo lavoro: la sua presenza era diventata una costante al distretto. Nella sua vita.

«Non potevi cercare un posto più vicino? Guarda! Sono... sono... pronto per essere strizzato!»

«Non ti lamentare, Castle! È solo acqua!»

«Mi prenderò una polmonite, lo sai questo, vero?»

«Ti spedirò un biglietto di auguri di pronta guarigione...» replicò lei ed entrò nell'edificio senza aspettarlo. Forse lo faceva un po' per scappare da lui e da quello che era successo.

Mostrò il distintivo al portiere del turno di notte e, stavolta, per evitare incidenti, prese le scale. Si fecero cinque piani a piedi, in cima ai quali Castle si fermò, posò una mano sulla milza e si piegò in avanti, ansimando. «La prossima volta, ti aspetto giù!» dichiarò.

«Sono solo cinque piani...»

«Ma tu... tu non ti senti male?»

Beckett inarcò le sopracciglia e poi sogghignò, rendendosi conto che la cosa le venne facile, quasi naturale, proprio come prima che succedesse l'incidente. «Non è colpa mia, se non hai il fisico...»

«Il fisico?» sbottò lui, rimettendosi in piedi con la stessa velocità alla quale Beckett si era allontanata da lui in quell'ascensore. «Detective, non mi hai visto nudo!»

Beckett si voltò e si sbrigò ad attraversare il corridoio per arrivare all'appartamento numero 514.

«E non ci tengo!»

Castle la inseguì a breve distanza, ma senza mai superarla. La guardava da sopra la spalla, come se volesse vedere la sua espressione, ma non avesse il coraggio di guardarla davvero. «Sei sicura?»

«Sì.»

«Io pensavo il contrario.»

«Mi pare ovvio che pensavi male!»

Si fermarono di fronte all'appartamento. Bastò tagliare il nastro e dare un calcio alla porta, per aprirla, e ritrovarono lo stesso scenario che li aveva accolti la prima volta, con la differenza che, stavolta, non c'era nessun cadavere nell'ingresso. L'aria di quella stanza disordinata, carica dell'odore della polvere, era a dir poco spettrale e la pioggia incessante che scrosciava all'esterno non aiutava a darle una prospettiva più rassicurante. Dietro di lei, Castle si era acquattato così che il suo mento sfiorasse la spalla di Beckett.

«E se ci fossero i fantasmi?» chiese, in un sussurro appena udibile, scoccando occhiate preoccupate da una parte all'altra della stanza.

«Un altro film?»

«Sì.»

«Piantala e accendi la luce.»

Un tuono seguì quelle parole, ma rese bene lo sconcerto di Castle che trovò l'interruttore e constatò che la luce non se n'era andata.

«Dev'essere un privilegio del distretto...» disse, in tono leggero.

«Che cosa?»

«Il blackout... non credo che in questa zona sia successo lo stesso che da noi.»

Beckett non gli rispose. Non era più interessata alle sue sciocchezze o a quello che era successo in ascensore: adesso c'erano lei e una scena del crimine. Girò intorno alla sagoma del cadavere un paio di volte, guardandola come se quella potesse rivelarle cosa c'era di sbagliato nel delitto della stanza chiusa, senza arrivare a niente, neanche stavolta. Perché il proprietario avrebbe dovuto dare al morto la sua chiave di riserva o farsi fare una copia da un ferramenta? Come aveva fatto a morire assassinato se era stato tutto solo, in casa?

«Magari è stato un fantasma.» disse Castle, come in risposta ai suoi pensieri. «O del gas nervino, come ne La Fuga di Storm...»

Beckett si spostò nell'altra stanza, la camera da letto. Non c'era niente che non andasse: il letto era disfatto come l'aveva lasciato la scientifica per i rilevamenti, nell'armadio continuavano ad esserci vestiti sobri del padrone di casa, le scarpe non erano sistemate con pedante pignoleria le une accanto alle altre, ma disseminate qua e là nel caos prodotto dai poliziotti. Sotto al letto continuava a non esserci altro che polvere, il bagno non aveva niente che non andasse.

«Hai mai pensato che potrebbe averlo ingerito?» domandò Castle, entrando in camera da letto con una bottiglia di vino in mano.

«Che cosa? Il gas nervino?» replicò lei, girandosi per tornare indietro.

«Ma no! La cosa che l'ha ammazzato!»

«Veleno?»

Lui alzò le spalle. «No. Pensaci bene... è l'unica ipotesi che non abbiamo vagliato...»

«Allora,» replicò lei. «ricapitoliamo: è stato ucciso da una scheggia di vetro che gli si è conficcata nel petto. Come può essere stato avvelenato?»

«Sì, beh... c'è del vetro di là, per terra.»

«Sì, lo ha rilevato la scientifica.»

«Mettiamo che lui... sia stato... diciamo avvelenato... in qualche modo... e che... per sbaglio, abbia fatto cadere un bicchiere. Era stordito e non se n'è accorto. Puf, atterra addosso alle schegge.»

«Oppure è semplicemente inciampato...» rispose lei, cominciando a seguire il filo del suo ragionamento. Lui sorrise. Si avvicinarono l'uno all'altra proprio come era successo al distretto, davanti alla scrivania del capo.

«E il pezzo di vetro, in qualche modo, gli si è conficcato in petto.»

«Uccidendolo all'istante!» concluse trionfante Beckett. Poi corrugò la fronte. «Il pezzo di vetro sarebbe il killer?»

«Sì. Era già lui il killer, prima che ci venisse in mente il delitto della camera chiusa.» le fece notare Castle.

Beckett era sicura di non aver capito niente. Indicò la bottiglia. «E che c'entra il vino?»

«Non è vino.» rispose lui, aprendo il tappo. «Volevo ricordare l'odore del Chianti. L'ho assaggiato solo una volta, quando sono andato in Italia e, per il mio secondo matrimonio, l'ho fatto arrivare appositamente dalle colline omonime. Ma quella fu una pessima annata. È per questo che non siamo mai andati molto d'accordo, io e Gina...»

«Castle...» Beckett lo richiamò alla realtà e lui, il cui sguardo si era fatto vacuo nel ricordare quell'altro episodio della sua vita, ci tornò senza fiatare. Sorrise e le indicò il letto.

«Puoi metterti lì davanti?»

«Perché?»

«Perché... se lo faccio senza che tu abbia qualcosa di morbido dietro, credimi, fa male.» rispose lui, con l'aria convinta di chi sappia cosa stia dicendo e che abbia una lunga esperienza alle spalle, in materia. «Una volta facemmo lo stesso scherzo a quel Ronald Parrish di cui ti parlavo prima... solo che, chissà come, fui io a rimanerne vittima e... ho avuto un bernoccolo per lungo, lungo tempo.»

«Di che stai...»

«Il letto, Beckett.»

«Dimmi di che si tratta!»

«Ah, con te non ci si può proprio divertire!» sbuffò lui. Le fece un cenno e la condusse di nuovo nel salotto dove, adesso, sul tavolino di cristallo al centro della stanza troneggiava un bicchiere con un liquido trasparente all'interno. Di sicuro, quando erano entrati, non c'era stato.

«Che cos'è, vodka?»

«No... cloroformio.»

«Cloro...» Beckett guardò Castle che stava sorridendo. «Non lascia traccia!» capì. «Ma cosa ci faceva il cloroformio in una bottiglia di Chianti?»

«E dov'è il Chianti?»

«E come se l'è procurato il cloroformio?»

«Direi che il caso è risolto...» dichiarò Castle, in posa solenne, tenendo la bottiglia come se fosse in attesa dell'arrivo della mezzanotte dell'anno nuovo e lui non aspettasse altro che di stapparla. «l'assassino è il cloroformio.»


La mattina dopo, esausti ma a caso risolto, Beckett e Castle erano tornati al distretto e lei aveva convocato Joseph Kepner per un colloquio. Il temporale era cessato e, pian piano, New York stava tornando alla normalità; il flusso di auto aveva ripreso a scorrere normalmente, l'acqua si stava ritirando nei tombini senza difficoltà e tutto il distretto pullulava di vita. Castle aveva recuperato il suo cellulare scarico e l'aveva riposto in tasca, carezzandolo con affetto, quindi aveva raccontato a Ryan e Esposito come era giunto alla conclusione.

«E tutto solo perché voleva farsi un goccetto!» sospirò Esposito, scuotendo la testa, accennando a Castle.

«Noi non ci saremmo mai arrivati.» annuì Ryan, rammaricato. «Noi non possiamo bere in servizio. Non vale!»

Castle ammiccò. «E' il bello di non essere un poliziotto.»

Proprio mentre finiva di parlare, arrivò Beckett con una carpetta tra le mani e un'aria sfinita.

«Allora, ha confessato?» chiese Castle.

«Il cloroformio è arrivato con Robert Randall. È il nome del nostro John Doe.»

Ryan inarcò un sopracciglio. «Il nostro Kepner lo conosceva?»

«Lo sapevo!» esclamò Castle, stringendo il pugno in segno di vittoria.

«Sì, pare che appartenessero alla stessa confraternita al college e si era fatto la copia delle chiavi senza che il proprietario ne sapesse niente. Le telecamere hanno confermato che aveva rubato la copia dalla portineria e Kepner afferma che non si vedevano da anni e che, all'inizio, non lo aveva riconosciuto. In effetti, ho visto una foto dell'annuario... è difficile credere che quel Robert Randall fosse lo stesso Robert Randall trovato morto in casa di Kepner... ma il Dna ci dirà di più, quando arriveranno i risultati.» fece sapere loro Beckett. «E ho fatto controllare la bottiglia: non ci sono impronte di Kepner, ma sono tutte di Randall e di un'altra persona... ma, se ci ho visto giusto, sono di una donna.»

Castle sembrava scontento. «Non è possibile che Kepner gli avesse dato il suo benestare per entrare in casa?»

«Se l'avesse saputo, credimi, non gli avrebbe permesso di godere di Labbra Rosse da solo. Almeno è così che si è espresso lui.»

«Labbra Rosse?» ripeté Esposito.

«Sì, una prostituta che Randall aveva... ingaggiato, diciamo così. È stato il portiere di notte a vederla entrare ed era da sola; poco dopo è scesa di nuovo borbottando contro gli idioti: erano le due e quaranta, circa un'ora dopo quella della morte. Ho interrogato anche il portiere, stamattina, ed ha confermato questa versione. Lei conferma di non aver mai visto Kepner in vita sua, ma ha visto un uomo che la seguiva, il giorno precedente. E ho chiesto alla scientifica un confronto: era Thomas Talbott, un investigatore privato del Queens.»

«Un investigatore privato?»

«L'ho convocato per oggi pomeriggio. Ne sapremo di più quando l'avrò interrogato, ma per quel che mi riguarda, il caso è chiuso.»

Esposito e Ryan scossero la testa. «Ci perdiamo sempre l'azione.» esclamò Ryan, scontento. «E' ingiusto!»

«Ma io non ho ancora capito una cosa.» si interruppe Esposito. «Che ci faceva il cloroformio nella bottiglia del Chianti?»

«La gente ormai prova di tutto.» disse Beckett, in tono neutro. Castle alzò lo sguardo su di lei, scivolando sulla schiena per poter posare il collo sullo schienale della propria sedia accanto alla scrivania.

«Altri segreti della detective che vengono a galla!» esclamò, con un sorrisetto divertito.

«Chiudi il becco, Castle! Non sono stata io a dirlo: è stata la prostituta, Labbra Rosse.»

«Ah...» rispose lui, tornando a sedere composto. Si strinse nelle spalle, deluso e amareggiato. «Però c'è ancora un'altra cosa che non mi è chiara.»

«Avanti, spara.» lo esortò Esposito.

«Perché non andare in un motel come fanno in tutti i film?» alzò di nuovo lo sguardo su Beckett. «Hai una risposta anche per questo?»

«Randall era un burlone. Un po' come il tuo amico Parrish.»

«Cioè... tutto questo solo per andare con una prostituta. Sarebbe stato più facile chiedere le chiavi a Kepner, piuttosto che rubarle...» borbottò Castle.

«Sì, beh... non sai mai come ragionate voi uomini con il cervello sotto la cintura...»

Castle abbassò la testa e tacque, pensieroso. Beckett, felice di averlo zittito, si sedette alla sua scrivania, mentre, dopo essersi complimentati per la risoluzione del caso, Ryan ed Esposito se ne tornavano al loro posto.

Beckett si piegò per accendere il computer e cominciare a redigere il rapporto da consegnare al capo; solo quando si rialzò, si rese conto dell'espressione imbronciata di Castle.

«Che succede? Non dirmi che te la sei presa per quella stupida frase!»

«No, figurati! È solo che c'è qualcosa che non mi torna.»

Beckett corrugò la fronte.

«Se fosse uno dei miei libri,» Castle accavallò le gambe. «non avrebbe di certo un finale così banale.»

«Sì, ma visto che non è un tuo libro, è plausibile.» gli ricordò Beckett.

«Oh, andiamo, Beckett!» esclamò lui, indignato. «Quale persona sana di mente userebbe il cloroformio per sballarsi?» poi, come ripensandoci, inarcò le sopracciglia. «Eccetto il sottoscritto, ovviamente...»

«Castle...» lo ammonì lei.

«Insomma, è risaputo che il cloroformio è cancerogeno e che può portare danni a reni e fegato.»

«E da quando sei così esperto?»

«Da quando Ronald Parrish mi ha quasi ammazzato con lo scherzo di cui tu già sai.»

«Okay, scusa, vai avanti.»

«La domanda è: perché volersi sballare col cloroformio?»

«Perché anche tu lo faresti!»

«Lascia perdere me!»

Beckett lo fissò con interesse. «Tu... pensi che lui non sapesse del Chianti nella bottiglia?»

Lui annuì, con un sorriso.

«Quindi, qualcuno doveva per forza averlo messo lì dentro!» continuò Beckett, improvvisamente elettrizzata. Sì, c'era qualcosa di logico in quel pensiero, qualcosa che quadrava. «Qualcuno che sapeva che lui avrebbe preso la bottiglia e che l'avrebbe usata per divertirsi.»

«Qualcuno che sapeva dove stava andando.» puntualizzò Castle.

«Qualcuno che aveva fatto pedinare una prostituta da un investigatore privato imbranato.»

Poi, come in un fulmine, gridarono, trionfanti, all'unisono: «Sua moglie!»


Ormai verso sera, Beckett si accasciò sulla propria sedia, decisa a finire il rapporto per il capo che, erroneamente, aveva pensato di poter consegnare nelle mattinate. Avevano passato le ultime ore in sala interrogatori, dove la moglie di Randall aveva confessato di aver sostituito il cloroformio al Chianti, ma che le sue vere intenzioni fossero state quelle di tramortire lui e la sua amante per coglierli sul fatto, così che potesse chiedere il divorzio e vivere felice e contenta dei grossi alimenti che avrebbe chiesto come risarcimento. Invece avrebbe passato molto tempo in galera. Era stata lei ad ingaggiare l'investigatore privato il cui vero bersaglio non era Labbra Rosse, ma Randall, naturalmente: Talbott avrebbe dovuto aiutare la signora ad ottenere il divorzio, ma non c'entrava niente con la storia del cloroformio. L'unica cosa di cui lo potevano accusare era di essere un pessimo mastino.

«Davvero un caso degno di questo nome.» Castle, sistemandosi sulla sedia accanto alla scrivania, sospirò stancamente, come se, per tutto il giorno, non avesse fatto altro che scaricare navi al porto. «E anche Joseph Kepner ha il suo scheletro nell'armadio... non poteva andare meglio.»

Beckett alzò di nuovo lo sguardo. «E sarebbe?»

«Gli piacciono le prostitute.» rispose lui, pronto e soddisfatto.

«Non è mai andato con le prostitute, a quel che ne sappiamo, Castle.»

«Sì, ma ha detto che si sarebbe fatto quella di Randall. E poi te l'ha detto come se niente fosse: è un porco.»

Stavolta lei dovette dirsi d'accordo, ricordando il momento in cui le aveva confessato che avrebbe volentieri fatto un giro con quella donna di cui lei aveva avuto solo la foto.

«Tutti hanno i loro scheletri.» commentò Castle, imperterrito. «Non è irritante?»

Beckett corrugò la fronte, fingendosi preoccupata. «Non è il caso che tu torni a casa? Credo che Alexis sia in pensiero, no?»

«Ah, ho chiesto il permesso prima che mi si scaricasse il cellulare.» poi fece una smorfia sofferente, mentre riprendeva il cellulare tra le mani. «Spero che abbia registrato i fulmini di ieri sera!»

Beckett arricciò le labbra, stavolta, ma era divertita.

«Allora buona serata, detective.»

«Buona serata, Castle.»

Castle si alzò dalla sua sedia accanto alla scrivania di Beckett e si stiracchiò, come per indugiare ancora un po' lì al distretto, quasi si stesse godendo i suoi ultimi istanti lì. Alla fine, era meglio così: Beckett credeva che, ad un giorno di distanza, quello che era successo in ascensore, non fosse così terribile come le era parso la sera prima, in mezzo a quella pioggia e a quel buio impenetrabile. L'importante era che non ricapitasse e che non se ne parlasse più. Potevano continuare a lavorare bene insieme e ad avere quello strano rapporto che, altrimenti, le sarebbe mancato.

«Comunque...» Castle la distolse dai suoi pensieri parlando e abbassando le braccia. Le puntò un dito addosso, con un sorriso sornione che non diceva niente di buono. Sembrava assaporare quel momento, per qualche motivo che lei non poteva capire.

«Sì?» lo spronò, anche se non era sicura di voler sentire quello che aveva da dire.

Il sorriso sul volto di Castle si allargò. Ammiccò. «E' stato un bel bacio.» e detto ciò se ne andò, impedendole di replicare. Con la bocca aperta per l'incredulità, Beckett lo seguì con lo sguardo finché non fu sparito nell'ascensore e poi, solo poi, si concesse un breve sorriso.


FINE




E, ora, come promesso, le... risposte alle recensioni!

Blah: come ho già detto, quando ho cominciato a scrivere non sapevo bene dove sarei andata a parare, però... il bacio ci voleva! XD Perché penso che, alla fine, si comporterebbero proprio così: prima scintille, poi un po' di freddezza e imbarazzo e poi... niente. Come fanno sempre in queste serie dove i protagonisti si girano attorno. Stai già guardando la terza stagione? Mi sembra che qui lo stiate facendo tutti e io rimango indietro! È proprio una fissazione mia quella di guardare la versione doppiata, per una questione di voci. Trovo che alcuni doppiatori siano persino più bravi degli attori, a parlare. XD Grazie infinite per la tua recensione!

23jo: grazie per i tuoi complimenti. ^^ Riuscire a far piacere una mia storia – anche a pochissimi – è, per me, un piccolo traguardo raggiunto! Grazie ancora e a presto!

LazioNelCuore 1711: felice che ti sia piaciuta e che tu abbia lasciato un commentino. ^^ Alla prossima!

Berenike: ehilà! Mi stavo quasi preoccupando! XD Scherzo, naturalmente. Come periodo è un po' incasinato davvero, anche se spero che, presto o tardi, si decidano a ricominciare le lezioni. Agitazioni in corso! XD Sono contenta, se il capitolo non è stato noioso e che sia completo: ho sempre il terrore di non aver scritto tutto o di aver dimenticato qualcosa, anche un particolare insignificante di cui, durante la stesura, mi dimentico (ho una memoria!). Va beh, a presto e grazie per la recensione!

KittyFarron_95: in effetti, gli autori non hanno capito che i fan vogliono vedere un bacio! Neanche chissà quali scene hot, un bacetto, che male ci sarà mai? Ci fanno sperare fino all'ultimo e invece rimaniamo sempre con un palmo di naso. U.U Che altro dire? Grazie per la tua recensione e per i tuoi complimenti (quelli fanno sempre piacere XD )! ^^

Ringraziamenti vari:

  • a Blah, 23jo e bambola_e_bibola per aver inserito la storia tra le loro preferite

  • a tykisgirl per averla inserita tra sue ricordate

  • a LazioNelCuore 1711 per averla inserita tra le sue seguite.





  
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