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Autore: 365feelings    23/09/2010    5 recensioni
Si amarono nuovamente lì, sul pavimento, e alle prime luci dell’alba insieme se ne andarono a dormire, uniti per l’eternità, sentendosi più vivi di quanto in vita non lo fossero mai stati. [Quarta classifica pari merito al Wicked and...lovely, incantevole e pericoloso]
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Autore: Amaranth93
Frase sorteggiata: “E se l’amore è astratto perché lo senti sulla pelle, dentro e fuori, perché spacca il cuore?” (Anonimo)
Titolo: The Dark Knight
Personaggi: Sasuke Uchiha, Sakura Haruno, Madara Uchiha, Karin
Pairing: Sasuke-Sakura
Genere: Dark, Mistero, Romantico
Rating: Arancione
Avvertimenti: OneShot, AU
Breve introduzione alla storia: Si amarono nuovamente lì, sul pavimento, e alle prime luci dell’alba insieme se ne andarono a dormire, uniti per l’eternità, sentendosi più vivi di quanto in vita non lo fossero mai stati.
Note dell’autore: “Wicked and Lovely”…il contest adatto a questa storia e a questo paring, altroché. Da tempo avevo il progetto di scrivere una SasuSaku che avesse come protagonista almeno un vampiro e ora ho finalmente avuto l’occasione che cercavo. In questo caso è Sasuke a essere un non morto, spero di averlo reso bene senza essere caduta nell’OOC. Le ambientazioni notturne sono dovute, si capisce, dal fatto che il vampiro in questione è un vampiro all’antica, di quelli che con il sole si riducono in cenere, non di quelli che al contrario brillano come un faro. Ho scelto l’Irlanda perché è il primo paese che mi è venuto in mente che nei tempi antichi abbia subito un’invasione. Certo, la scelta è ampia, ma io volevo che qualcosa che si adattasse al contesto e che si collocasse all’inizio del medioevo. L’invasione è accaduta veramente ad opera degli Inglesi capitanati dal re Enrico II a partire proprio dal 1171. Il titolo è puramente casuale, non ha nulla a che fare con l’omonimo film di Batman (che comunque mi piace molto). Buona lettura.

 

 

The Dark Knight

 

Irlanda, 1171

 

Le leggende popolari del mio villaggio parlavano tutte di un giovane cavaliere dall’anima nera.
Chiunque, infante, adulto e vecchio che fosse, conosceva la sua storia e le madri spesso la usavano per mandare a letto noi bambini, restii ad ubbidire.
Da tempo immemore si raccontava che la sua dimora si trovasse nelle rovine di un antico castello nel punto più profondo e oscuro della Foresta Nera, a un giorno di cavallo dal nostro villaggio.
Lì aveva sempre condotto la sua vita dannata in completa solitudine, tormentandosi per le azioni commesse.
Si diceva avesse ucciso il fratello maggiore, per vendicare il clan da quest’ultimo sterminato in una notte di luna piena. Ma per riuscire nel suo intento, conscio di non essere abbastanza
forte, aveva venduto l’anima al diavolo ed ora scontava la sua pena: il suo eterno tormento.
Dannato per l’eternità, raccontavano non potesse vedere la luce del sole senza rimanerne ucciso e così se ne stava rinchiuso, segregato, quasi fosse imprigionato, in quel suo castello durante il giorno.
A otto anni credevo fermamente nella sua esistenza, ma invece di esserne terrorizzata, come gli altri bambini della mia età, provavo nei suoi confronti un timore reverenziale smorzato dalla compassione che di solito si prova per le persone che hanno alle spalle una triste e travagliata storia familiare.
Inoltre ne ero stranamente affascinata: la mia infantile immaginazione trovava nelle storie che lo vedevano come protagonista un campo fertile su cui germogliare.
Il prete del villaggio evitava volentieri l’argomento, ammonendo tutti di stare lontano dalla Foresta e soprattutto da lui, figlio del diavolo, destinato all’inferno, un temibile e immondo demone che il nostro Dio combatteva.
Ma dov’era questo tanto acclamato Dio quando giunsero i veri demoni?
Era l’inverno dei miei otto anni e gli inglesi cavalcavano il loro possenti destrieri razziando con la ferocia dei vincitori. Il fumo degli altri villaggi distrutti oscurava il cielo presagendo la nostra stessa inevitabile fine.
Prima che fossero passati tre giorni sarebbero sicuramente arrivati e io, folle bambina legata al suo piccolo villaggio, presi la mia decisione: sarei andata a chiedere i servigi di quel cavaliere e in cambio avrei dato il mio sangue.


Correva, più veloce che poteva, la paura e l’adrenalina che la spingevano a non fermarsi neanche per un secondo in quella selva oscura popolata da belve feroci.

La Foresta Nera non era un luogo per bambini, tantomeno di notte, quando ogni cosa si trasformava, ma non poteva fare altrimenti, per il bene del suo villaggio. Questo continuava a ripetersi.

Un gufo lanciò il suo richiamo e un piccolo animale sentendola arrivare scappò.

Gli arbusti si impigliavano sulla sua veste e tra i suoi capelli, le graffiavano il volto, scricchiolavano al suo passaggio, schiacciati dalle sue calzature invernali.

Ansimava, cercando avidamente l’ossigeno per poter continuare mentre le sembrava che il petto volesse scoppiare.

Nelle orecchie sentiva tambureggiare il cuore dal ritmo frenetico, tutto intento a pompare sangue che raggiungesse il resto del corpo, ormai prossimo allo svenimento.

Le iridi smeraldine lasciarono che il pianto le inondasse il volto, offuscandole la vista tanto che si trovò costretta più volte ad asciugarsi il volto con la manica del suo vecchio vestito.

La gola le bruciava per la sete e le labbra si erano screpolate per il vento e per il freddo, inutile era cercare di deglutire saliva.

Da quant’era che stava correndo a perdifiato? Minuti, ore o una vita intera?

Quel groviglio di tronchi nodosi si estendeva senza sosta davanti e dietro di lei: la Foresta Nera, priva di sentieri, sembrava volerla inghiottire nel gelo della notte e nel buio delle sue fronde.

Le parve di sentire un ululato in lontananza, ma si volle illudere che fosse solo una sua immaginazione e chiedendo un ulteriore sforzo ai muscoli cercò di aumentare la sua andatura, arrivando al limite estremo.

Troppo spaventata per vedere realmente e con lucidità ciò che la circondava mise inavvertitamente un piede in fallo: rovinò a terra e iniziò a rotolare, il terreno che improvvisamente aveva iniziato a declinare verso il basso.

Non credendo di sopravvivere alla caduta si stupì assai, quando riuscì a rialzarsi, di vedere davanti a se un piccolo lago scuro su cui si riflettevano i lembi estremi della maledetta foresta e in centro le rovine di un antico castello dalle merlature sbeccate, logorate dal tempo e su cui l’edera cresceva rigogliosa.

Il cielo, finalmente visibile, aveva iniziato a rischiarasi tanto che sopravvivevano solo le ultime stelle lontane, mentre piano piano il pallore del sole invernale volgeva al suo ciclo.

Sospirò e per la stanchezza si addormentò subito, lì sulle sponde del lago, avvolgendosi nel suo scialle di lana per proteggersi dal freddo.

Dormì un sonno profondo, privo di sogni e ristoratore, dimentica di tutto, volutamente ignorando i pericoli nei quali sarebbe potuta incappare restando così all’aperto: dagli animali ai malanni.

Tuttavia niente e nessuno andò a disturbarla, fino a quando, tramontato il sole, lei stessa non si svegliò e davanti a lei, mentre si stropicciava gli occhi, non vide il motivo della sua follia.

Neri i vestiti, semplici ma di evidente buona fattura, neri gli occhi e neri capelli, nera la sua anima dannata, nera la sua vita.

Spiccava, in così tanto scuro colore, la carnagione diafana del viso perfetto e delle mani curate.

Riprendendosi dallo stupore iniziale ricordò le buone maniere e come conveniva fece un inchino, un po’ troppo profondo, tanto che perse l’equilibrio e finì a terra.

Le gote si arrossarono e timidamente si rialzò, sentendo lo sguardo indagatore del cavaliere fisso su di sé.

-Chi sei?-, chiese rompendo il silenzio con la sua voce bassa e tuttavia melodiosa, vellutata.

-Sakura Signore! Sakura Haruno.-, rispose prontamente la bambina.

-Cosa vuoi?-

-I tuoi servigi Signor Cavaliere.-

-Sai chi sono?-, chiese quasi sprezzante.

-S-Si! Voi siete il cavaliere…-, iniziò, la voce tremolante.

-Vattene.-, concluse semplicemente, la voce fredda e perentoria, dirigendosi verso il suo castello.

Imperterrita la bambina con le sue corte gambe indolenzite lo raggiunse correndo e attraversò anche lei il lago come prima aveva fatto il giovane cavaliere, cioè saltando da una parte all’altra di ciò che rimaneva di un vecchio ponte di pietra, logorato dal tempo e dalle intemperie.

Al secondo balzo si rese conto che la distanza tra le piccole gambe e l’altra parte delle struttura era troppa per lei, tuttavia proseguì, finendo inevitabilmente nell’acqua scura.

Urlò e si dimenò cercando di stare a galla, mentre la morsa gelida dei flutti la trascinavano verso il fondo. Non credeva di poter sentire così tanto freddo in vita sua, il gelo era penetrato in lei fino alle ossa.

Inaspettatamente sentì una ferrea presa sul suo braccio estrarla dall’acqua e in un attimo si trovò dinnanzi un camino acceso all’interno del castello.

Non ebbe tempo di riordinare i pensieri che sentì su di sé una calda e morbida coperta.

Dietro di sé il giovane Cavaliere si sedette su una poltrona e iniziò a leggere un antico manoscritto, ignorandola del tutto.

Non appena si fu un po’ asciugata, nonostante i vestiti rimanessero umidi, decise di riprovare e nuovamente richiese i servigi del proprietario del castello.

Fallì un’altra volta: sembrava che questo non volesse sentirne parlare di soccorrere una bambina.

Vana passò un’altra notte e un nuovo giorno apparve all’orizzonte, minaccioso, segnando il confine tra la vita del giovane e la vita della bambina: il Cavaliere sparì nei meandri della sua dimora e più non si fece vedere fino alla notte seguente, non appena le tenebre erano nuovamente calate.

-Sei ancora qui.-, esordì seccato, trovando l’indesiderata ospite seduta sul cornicione di un terrazzo, le corte gambe che si agitavano nell’aria, mentre sotto la nera acqua placida inghiottiva ogni colore.

-Non me ne andrò fino a che lei non mi aiuterà.-, rispose con semplicità Sakura, per nulla impaurita.

-Allora resterai per l’eternità.-, disse con non curanza, per nulla impietosito dalle richieste.

-Siete senza cuore.-, lo rimbeccò la bambina, voltando il capo verso il suo interlocutore, il volto imbronciato.

-Probabile.-

-Ma insomma! Possibile che non ci sia nulla che possa fare per convincervi ad aiutarmi?!-

-No.-

-La prego.-, disse dopo un po’ di silenzio, -Salvi me, la mia famiglia e il mio villaggio. In cambio le darò il mio sangue, però la scongiuro, non lasci che quei mostri distruggano tutto.-, concluse supplice con le lacrime che rigavano il volto candido, perdendosi sul bordo della coperta che ancora portava con sé.

Come già sperimentato, non provocò nessuna reazione nel giovane, tuttavia decise di insistere ancora e scesa dal cornicione trotterellò accanto a lui.

Gli prese l’orlo della giacca, tirandola appena, e costrinse il penetrante sguardo d’ossidiana del Cavaliere nel proprio, smeraldino, un prato senza fine in cui le lacrime brillavano luminose e cristalline.

-La prego.-, disse solo, poi l’altra mano andò a scoprire il collo su cui pulsava azzurrognola la vena, chiaro invito a servirsi di lei.

Il giovane strinse la mascella e chiuse gli occhi, irrigidendosi: alla fine la prese in braccio, avvicinandola a sé e tuffò il volto nell’incavo del suo collo.

Resistette un attimo prima di morderla, poi il tepore, la morbidezza e il profumo della pelle lo vinsero: i canini perforarono la tenera carne e il sangue denso e scarlatto riempì la sua bocca.

Sakura gemette, dapprima per la sorpresa, poi per il dolore.

Candidamente si appoggiò a lui, aggrappandosi al suo collo con un braccio, e iniziò piano piano a perdere la propria forza, sentendo la vita che sempre più velocemente veniva risucchiata via.

Avere un corpo umano tra le sua braccia dopo tanto tempo lo spinse fino quasi ad ucciderla, deliziato dalla linfa vitale che fluiva dentro di lui conferendogli nuova forza, bramoso di ancora più sangue.

Ma qualcosa, qualcosa che non seppe nemmeno lui come identificare, lo fermò, giusto in tempo.

Il battito era debole, ma c’era ancora e la bambina nel vederlo in forma sorrise debolmente.

-Grazie.-, sussurrò con un filo di voce.

-Domani notte.-, rispose semplicemente lui, portandola all’interno del castello e facendola sdraiare su un letto.

-Riposa.-, le ordinò, poi sparì fino all’imbrunire seguente.

Senza dire una parola prese in braccio Sakura e in un attimo entrambi furono fuori del castello.

Avanzò qualche passo verso la Foresta Nera e sentì che la bambina si stringeva maggiormente a lui, intimorita da quella selva oscura che si estendeva dinnanzi a loro.

Chiuse gli occhi e diede il consenso al giovane per attraversarla.

Sentì le gote sferzate da un forte vento, che come era iniziato improvvisamente cessò.

Riaprì gli occhi e in un lampo erano arrivati al piccolo ponticello di pietra che portava al suo villaggio.

-Vai a letto-, le ordinò e lei ubbidiente lo ascoltò.

Pochi istanti dopo un cupo rumore di cavalli al galoppo riempirono l’aria e fecero tremare il suolo.

Un piccolo reggimento armato si arrestò dinnanzi al giovane Cavaliere.

Le nere iridi di ossidiana si tinsero dello scarlatto del sangue e in attimo, prima ancora che i soldati inglesi potessero reagire, tutto finì.

Sul ponte tinto di rosso rimasero i cadaveri senza vita, illuminati dall’argentea luce della luna, pallida testimone del massacro.

 

 

Irlanda, 1181

 

Erano passati dieci anni.
La vita al villaggio era trascorsa serena, senza più la minaccia dei cavalieri inglese, e io da quella volta, da quell’inverno dei miei otto anni, non l’avevo più rivisto.
C’erano dei momenti in cui mi chiedevo se non fosse stato tutto frutto della mia immaginazione, poi però guardavo il collo e i miei occhi, che sapevano dove cercare, vedevano quella cicatrice, unica testimonianza della mia follia.
Allora la memoria riportava alla luce i tratti del suo volto e il suono della sua voce.
Credevo comunque che ormai la mia avventura riguardasse il passato, che giunta a quell’età senza mai aver avuto sue notizie fossi destinata a non incontrarlo mai più. Mi ero messa il cuore in pace, mi ripetevo con insistenza che la sua ossessione per lui era finita.
Poi però il villaggio era caduto vittima di una contagiosa e mortale febbre, una punizione divina, diceva il prete, un flagello che in poco tempo aveva ucciso tutti.
Venni contagiata anch’io, ma per miracolo mi salvai: la vita aveva in riserbo per me altre strade, più oscure e travagliate, più pericolose, che vincevano la morte e andavano oltre, verso l’infinito, verso l’eterno.
Ma rimasi la sola.
Gli altri sopravvissuti, così pochi che si potevano contare sulle dita delle mani, se ne andarono tutti, nessuno interessato a me, tutti presi dalla smania di fuggire via, lontano, e mi lasciarono lì, in quel lugubre e desolato villaggio una volta pieno di vita.
La mia mente si rivolse automaticamente a lui, a quell’eternamente giovane e dannato Cavaliere a cui già una volta avevo chiesto aiuto e che già una volta mi aveva salvata.

La giovane, alle prime luci dell’alba, prese con sé i suoi averi, ben poca cosa, e li avvolse in un panno, mentre in un altro riponeva con cura il cibo che era riuscita a procurarsi, affinché non andasse a male: il viaggio che la attendeva era duro e lungo.

In groppa ad un asino, che una volta era stato di proprietà del panettiere, si avviò verso la Foresta Nera.

La verde pianura irlandese l’accompagnava nel suo tragitto: l’erba scintillante scossa dal vento che si scontrava con il cielo plumbeo inghiottiva alle sue spalle il villaggio, che si faceva sempre più piccolo a mano a mano che questa se ne allontanava fino poi a scomparire del tutto per lasciar spazio solo all’immensa distesa smeraldina che davanti a sé verso nord trovava la sua fine nella temuta Foresta Nera.

Priva di ogni cognizione del tempo, le nuvole sopra al suo capo non l’aiutavano, decise di fermarsi per pranzare dopo quelle che le erano sembrate ore e ore di viaggio.

Scese dall’asino, libero di riposarsi, e si sedette su un masso che spiccava a lato del sentiero.

Presto si radunarono attorno a lei un piccolo stormo di uccelli che volentieri becchettavano le briciole di pane avanzate.

Un frusciare più intenso spaventò però gli animali che subito se ne volarono via e da dietro il masso spruzzato di muschio sbucò il muso di una volpe curiosa.

Senza timore Sakura allungò la mano verso questa, porgendole un po’ del suo cibo: l’animale annusò prudente e poi si decise a fidarsi.

Finito il pranzo si rimise in viaggio, seguita dalla volpe.

All’imbrunire giunse in vista della Foresta, tuttavia memore della sua precedente avventura decise di trascorrere la notte fuori dalla temuta selva e di riprendere il viaggio all’alba.

Il cielo sopra la sua testa si riempì presto di stelle e piano piano, con accanto l’animale, si addormentò.

L’indomani, svegliata da un pallido raggio di sole, riprese il viaggio: alle soglie della Foresta, tuttavia, la volpe cercò di fermarla, guardandola con i suoi grandi occhi che avevano un qualcosa di vagamente umano, si ritrovò a pensare guardandoli bene.

-Mi dispiace piccola, ma io devo andare proprio in quella direzione. Lì c’è qualcuno che conosco che ha già fatto molto per me e a cui devo chiedere ancora aiuto.-, disse accarezzando il muso dell’animale che sembrò comprendere e dopo un po’ se ne andò correndo verso l’infinito verde, libero, senza costrizioni, senza preoccupazioni.

Sospirando entrò nella selva, conducendo con sé l’asino restio a procedere, tanto che dopo neanche mezz’ora di cammino si vide costretta, non senza disappunto, ad abbandonarlo sussurandogli all’orecchio un aspro e accusatorio “Fifone.”

Proseguì da sola, camminando spedita e intimorita.

Anche se era giorno la Foresta Nera era un luogo lugubre, la luce a stento filtrava dall’alto tra le folte chiome degli alberi dalle sagome spaventose.

Il vento che soffiava sembrava parlarle, sussurri senza voce che le accarezzavano la schiena e sfioravano il suo orecchio in una folata gelida che la faceva rabbrividire, di freddo e di paura.

Quel luogo era troppo inquietante; chi una volta diceva che era maledetto e stregato, forse aveva ragione, si disse, stringendosi nel suo vecchio scialle di lana bianca a cui foglie secche e ramoscelli si erano impigliati.

Ricordava la scorsa avventura come una corsa senza fine e pur frugando con minuziosità tra i suoi ricordi non riuscì a trovare tra questi alcun indizio che le indicasse la strada precisa o il tempo impiegato in precedenza, tanto che le sembrava di camminare a vuoto.

Rassegnata continuò verso quello che lei credeva e sperava essere il nord.

Ormai stanca e affamata, oltre che infreddolita, notò che il terreno aveva iniziato lievemente ad inclinarsi: ciò le diede nuove speranze tanto che iniziò a correre, anche per poter uscire dalla Foresta.

Da un ramo si alzò in volo gracchiando un corvo dallo splendido piumaggio, spaventandola appena, e uno scarno scoiattolo si allontanò velocemente.

Poco dopo il castello apparve ai suoi occhi.

Era tutto esattamente come ricordava, non una cosa in più, non una cosa in meno: le finestre, le porte, i merli, l‘edera, il lago.

Il cielo all’imbrunire regalava alla dimora una sfumatura rossastra alle pietre logorate dal tempo e allungava le ombre nella Foresta.

A gran voce iniziò a chiamare il proprietario del castello, sperando che questo apparisse come l’altra volta e la portasse con sé all’interno del rudere.

Il suo richiamo, “Signor Cavaliere”, riecheggiò lugubre a lungo nella foresta facendola rabbrividire.

Poi all’improvviso, come seccato dal troppo rumore, apparve, impeccabile nei suoi abiti neri e uguale a otto anni fa.

-Signor Cavaliere!-, esclamò stordita dalla velocità dell’altro, ma comunque lieta.

-Cosa vuoi?-, le chiese lapidario.

-Sono Sakura, Sakura Haruno…-

-Ti ho chiesto cosa vuoi, non chi sei.-, ribadì, seccato di doversi ripetere e lasciando intendere di ricordarsi di lei.

-Ecco…vede…-, iniziò titubante e un imbarazzata, però poi riprese con maggior decisione,- Sono qui perché al villaggio tutti sono morti e io non ho un posto dove stare. Per cui ho pensato a lei.-

-Non c’è posto per te.-, le disse chiaramente, senza mezze misure.

-Non dica così, il castello è grande e lei è tutto solo. Prometto che non darò fastidio. Anzi, inizierò a pulirlo per renderlo più presentabile.-, disse vergognandosi della sua sfacciataggine, ma costretta ad insistere per poter continuare a vivere.

-No è no.-, scandì lentamente, con calma, senza tradire emozioni ma comunque con un tono deciso.

-Anche quel suo più volte ripetuto no, quella volta è diventato un si.-, fece notare con decisione.

Senza dire niente la prese brusco per la vita e la trasportò dall’altra parte della sponda del lago; la condusse poi all’interno del castello verso una stanza dalla porta chiusa.

Aprì l’uscio e le indicò di entrare, poi se ne andò.

Ancora rossa in volto per il contatto ravvicinato avuto, richiuse subito alle proprie spalle la porta e si gettò sull’ampio letto a baldacchino che troneggiava nella stanza.

Rabbrividendo si spogliò per rimanere con solo la sottoveste di ruvido tessuto bianco e andò sotto le coperte, addormentandosi subito, stanca per il viaggio.

Quando si risvegliò dalla finestra filtrava leggera la pallida luce di un troppo debole sole invernale e i vestiti che la sera prima aveva bellamente lasciato per terra erano scomparsi.

Uscendo di mala voglia dal tepore delle coperte guardò dentro l’armadio di legno scuro che faceva bella mostra di sé vicino alla porta.

All’interno vi trovò, appesi ordinatamente, alcuni vestiti di buona fattura e inoltre i suoi vecchi abiti, tutti logori.

Esitante allungò la mano verso un bell’abito smeraldino, che si intonava al colore dei suoi occhi, e infreddolita lo indossò.

Silenziosa uscì dalla stanza e si avventurò per i corridoi del castello in cerca della cucina: le riuscì di trovarla a mattina inoltrata, dopo aver girovagato per sale e stanze.

Incredibilmente nella dispensa trovò del cibo fresco: sorrise appena, conscia che quello, insieme ai vestiti, era indubbiamente opera del Cavaliere.

Trascorse la giornata a gironzolare senza precisa meta, curiosando qua e là. Sapeva bene che ciò era altamente scortese, ma la curiosità era davvero troppa.

Scoprì che al piano terra c’era la grande cucina e alcuni ripostigli, oltre che la sala d’ingresso da cui una scala saliva verso l’alto, verso il primo piano su cui si trovavano numerose altre sale, di piccole e medie dimensioni, occupate da del vecchio mobilio. Salendo ancora c’era la biblioteca, grande, enorme, possente, vicino alla quale c’erano salette più piccole, alcune aperte, altre chiuse. Al terzo piano iniziavano le camere da letto: ve n’erano davvero molte, la più grande era ovviamente quella padronale. La sua stanza si trovava su una torretta, un po’ isolata e ad oriente. Quando poi arrivò al quarto piano la scala concludeva il suo percorso, arrestandosi davanti a una porta: senza pensarci l’aprì e si ritrovò all’esterno, in cima al castello dove imponenti sorgevano i merli. Il vento freddo la fece rabbrividire, per cui se ne tornò dentro, ad occuparsi di quelle che chiamava faccende domestiche.

Quanto tramontò il sole il giovane Cavaliere apparve alle sue spalle, mentre lei, armata di una scopa, era intenta a spazzare il pavimento di pietra.

Quando lo sentì pronunciare il suo nome dal nulla prese paura e sussultò visibilmente.

-Mi scusi, non mi ero accorta della sua presenza, mi ha spaventata.-, gli disse appena si riprese e lui annuì solamente, andandosene.

Un po’ delusa, finì di pulire, poi andò nella biblioteca, spinta dalla convinzione che lui fosse lì: e così fu.

Lo trovò seduto su una poltrona a leggere un grande tomo nero e polveroso, tenuto tra le mani bianche e dinoccolate.

Camminando piano, senza far rumore, gli si avvicinò alle spalle, ben conscia che lui poteva sentirla benissimo, ma ugualmente convinta a fargliela pagare.

-Cosa state leggendo di bello?-, irruppe rompendo il silenzio.

-Un libro.-, fu l’atona risposta che ottenne.

-Poteva almeno fare finta!-, esclamò Sakura imbronciata, sprofondando nella poltrona vicina, alludendo al suo vano e infantile tentativo di vendetta.

Dal canto suo il giovane Cavaliere non staccò gli occhi dalle pagine e lei si chiuse in un silenzio di disappunto, imitandolo con un libro di dimensioni più piccole.

Non seppe definire quando, ma a un certo punto si addormentò. Questo il mattino successivo se lo ricordava molto bene, solo non ricordava di essere tornata in camera sua. Ancora una volta pensò al proprietario del castello e sorrise, scendendo allegra per le scale, iniziando a spolverare le stanze.

Un’impresa folle la sua, ma per passare il tempo non aveva di meglio da fare, per cui quello era ciò che poteva fare per riempire non solo quella giornata, ma anche quelle future. Quando arrivò la sera era assai stanca e impolverata e l’unica cosa che le riuscì di fare fu di chiedere al Cavaliere se per caso poteva lavarsi.

Il giovane, guardandola dall’alto al basso, soffermando lo sguardo sui rosei capelli arruffati, annuì e sparì.

Dopo neanche cinque minuti le si presentò davanti, facendo cenno di seguirlo: la condusse in una piccola stanza dove al centro troneggiava una grande tinozza di legno piena di acqua fumante.

Lo ringraziò e poi vi si chiuse dentro.

Si spogliò dei suoi abiti, ancora più logori dopo il lavoro della giornata, e si immerse nell’acqua, restando a mollo per lungo tempo.

Quando si sentì pulita uscì dalla tinozza e si avvolse in un grande panno bianco, poi indossò la sottoveste che si era portata con sé.

Uscì dalla stanza che si sentiva rigenerata e andò a cercare il suo coinquilino, trovandolo ancora una volta in biblioteca.

-La ringrazio molto.-, disse e lui distolse l’attenzione dal libro per posarla su di lei e sul suo corpo, le cui forme risultavano vagamente visibili, poco nascoste dalla sottoveste.

Sentendo quello sguardo su di sé non riuscì ad impedirsi di arrossire, lo sguardo perso negli occhi d’antracite.

Le fiamme delle candele che illuminavano parte della biblioteca crepitarono riportandola con i piedi per terra.

Fu allora che si accorse di una macchia scura sul volto candido del giovane: la mente svuotata di ogni pensiero, gli si avvicinò, si chinò su di lui e allungò la mano per pulirlo. Non appena le sue dita, calde, sfiorarono il volto dell’altro, all’altezza della macchia, sentì una ferrea presa sul suo polso e si accorse all’improvviso di cosa stesse facendo, ma anche che la macchia non era altro che qualche goccia di sangue traditrice rimasta a testimoniare un recente banchetto.

Sgranò involontariamente gli occhi e aprì la bocca a formare una piccola “o”.

Guardò le iridi del Cavaliere: era scure, profonde, cupe, dure.

Le sembrò di infrangersi contro uno scoglio, contro un muro invalicabile.

Poi lui la lasciò andare e lei piano piano, passo dopo passo, si allontanò all’indietro, facendo in modo che tra loro due vi fosse una distanza. Non voleva dirlo, non voleva pensarlo, ma la sua mente elaborò immediatamente, come un riflesso involontario, il concetto di distanza di sicurezza.

Infine se ne tornò rapida nella sua stanza, chiudendo la porta alle sue spalle anche se sapeva che quelle misere assai di legno non l’avrebbero di certo fermato se avesse voluto ucciderla.

Si gettò sul letto e si abbandonò con fatica al sonno: un unico pensiero nella sua testa: quel ragazzo era terribilmente incantevole quanto incredibilmente pericoloso e questa era una cosa che la tormentava.

La sera dopo non scese e rimase chiusa in camera, così anche per le due notti seguenti. Proprio non ce la faceva a vederlo, ad affrontare la verità, a fare i conti con il suo comportamento. Scappare e nascondersi sembrava così facile.

Ma oltre alla paura c’era qualcos’altro e si rese lentamente conto di non farcela più. Aveva bisogno di vederlo. Aveva bisogno di constatare che veramente esistesse. Aveva bisogno di scusarsi. Aveva bisogno di stargli accanto.

Era una necessità assoluta, che andava ben oltre il semplice istinto di sopravvivenza. Era una necessità assoluta e irrazionale, che non poteva attendere oltre.

Non lo trovò che non sul tetto del castello quando la mezza notte era da poco scoccata.

Si avvolse in uno scialle di lana e lo raggiunse in silenzio, ponendosi vicino a lui.

Stava guardando il cielo, ammirando le stelle a luna che pallida illuminava il suo volto scolpito nel freddo marmo.

Il cuore aumentò di qualche battito nell’essergli così vicina, non per paura questa volta. Era qualcos’altro, di più profondo e forse più primordiale della paura stessa.

C’era attrazione, e quella riusciva a coglierla e riconoscerla chiaramente, ma c’era anche dell’altro, che non si fermava alla mera superficialità, alla perfezione fisica.

-Porgo le mie scuse.-, disse tutto d’un fiato, imbarazzata.

-Non ne vedo il motivo.-, le rispose dopo un po’ lui, senza staccare gli occhi dalla volta.

-Mi sono comportata in modo estremamente vile e maleducato.-

-La tua è stata una semplice reazione umana.-

Calcò bene sull‘ultima parola, quasi a voler distinguere per bene le loro razze, facendola sentire terribilmente lontana da lui, ma anche terribilmente in colpa.

-Non va bene lo stesso.-, gli disse con il cuore che batteva sempre più forte, ben conscia che lui lo poteva sentire.

-Non ci faccio caso.-

-Io si-

-Non ti capisco.-

-Non mi reputo così complicata.-

-Non sai quanto.-, controbatté lui enigmatico.

La conversazione cadde nel silenzio spegnendosi in esso.

In lontananza un gufo si librò in aria e l’ululato di un lupo si perse nel buio della notte.

Il Cavaliere rientrò, ben sapendo che la ragazza lo avrebbe seguito, e così fu.

Si rintanarono nella biblioteca, nell’intimità donata dall’ambiente ormai familiare e dalle candele.

-Mi insegnate il latino?-, chiese titubante e imbarazzata Sakura, lasciando un po’ stupito il giovane che dalla libreria prese un libro.

-Questa è una grammatica, se c’è qualcosa che non capisci dimmelo.-

Il suo insegnamento si limitò al prestito di tomi impolverati e dizionari, solo ogni tanto veniva interpellato dalla ragazza, la cui mente, sveglia e pronta ad imparare, immagazzinava velocemente tutte le nozioni e le regole base. Era intelligente, non v’era alcuno dubbio.

La notte passò in un lampo e quando a levante il cielo iniziò a schiarirsi, un lieve cambiamento cromatico che nessun occhio umano sarebbe stato in grado di cogliere, il giovane si alzò.

-Dovete andare?-, chiese Sakura stropicciandosi gli occhi sentendo la stanchezza vincere sulle sue membra.

-È quasi l’alba, devi riposare.-, rispose invece lui e cogliendo un suo sbadiglio come un tacito invito, la prese in braccio.

-Cos-?-, cercò di chiedergli, stupefatta per l’accaduto e imbarazzata per la vicinanza: ora il volto dell’altro era a pochi centimetri dal suo. Nonostante il sonno osservò con attenzione i lineamenti delicati e diafani, simili a fine porcellana. Avrebbe giurato che al tatto la pelle sarebbe risultata fredda.

-Ti porto in camera.-

Presto detto, in un lampo la fanciulla si ritrovò sul suo morbido letto, quasi tra le braccia di Morfeo.

Nonostante però lo stato in cui si trovava, gli occhi semichiusi e il corpo molle, non poté non cogliere le piccole attenzioni che il Cavaliere le prestò nel metterla a dormire, comprenderla con la coperta.

Era certa che avesse fatto così anche la volta precedente e questo pensiero le occupò tutto il pomeriggio successivo.

Trascorsero altre due notti, poi all’improvviso il giovane la costrinse a chiudersi in camera sua.

-Che succede?-, provò a chiedergli senza ottenere risposte.

-Non aprire a nessuno. Non fare niente, non parlare, non affacciarti alla finestra.-

-Ma…-

-Chiaro?-

-Si, ma…-

-Resta dentro.-

Queste furono le sue ultime sbrigative parole, poi la porta della sua stanza si chiuse intrappolandola dentro.

Non capiva cosa stesse accadendo e lui non le aveva spiegato nulla, ma intuì che c’era qualcosa che turbava il giovane nonostante l’abituale freddo distacco di questo. Un qualcosa che sconvolgeva la loro tranquillità.

Alcuni corvi gracchiarono posandosi sui merli del castello e chiaramente sentì il portone aprirsi, poi più nulla, solo il silenzio.

-Mio giovane Uchiha.-, salutò bonariamente un uomo entrando nel salone, seguito da una giovane donna.

-Madara.-, rispose freddamente il Cavaliere, dimostrandosi fin da subito ostile.

-Abbassa pure la guardia mio caro, non sono qui per turbare la tua noiosa vita. È solo una visita di piacere. Che c’è, non ti rallegra rincontrare dopo qualche secolo il tuo capofamiglia?-

-Cosa vuoi?-

-Riposarmi un po’. Tutto qui. Karin è molto stanca.-, disse accennando alla sua compagna di viaggio dalla fiammante chioma rossa lasciata sciolta sulle spalle ammantate di bianco.

Era incredibilmente bella, il volto di porcellana e il corpo perfetto, ma il giovane non riusciva a non trovare in lei un qualcosa di volgare che non gli piaceva. Dopo anni era giunto alla conclusione che era proprio quel particolare a far sì che la donna fosse al fianco di Madara.

-Hai un po’ di sangue che non sia di qualche animale?-, chiese l’uomo, sputando quasi l’ultima parola, mettendoci tutto il disgusto possibile.

-No.-, rispose atono il giovane, facendo finta di non cogliere la tacita critica ai suoi gusti alimentari, dettati tra l’altro più per la zona in cui aveva scelto di vivere che dalla personale inclinazione.

Karin non trattenne una smorfia che mise in bella mostra i canini bianchi e perfetti.

-De gustibus…-, commentò sarcasticamente Madara, rimanendo avvolto nel suo lungo mantello nero e non accennando a togliersi la maschera di un arancione un po’ scolorito dal volto.

Aveva sempre creduto che il suo antenato avesse dei gusti assai strani e che fosse divenuto più pazzo di quanto non lo fosse in vita. Proprio per questo si asteneva sempre, e questa era una sua categorica regola, dal contraddirlo apertamente, dal mentirgli, dal prendersi gioco di lui, dal parlargli più del necessario. Pazzo e pericoloso. Era una combinazione letale, che gli faceva venire spontanea la domanda su come Karin avesse ancora la testa al proprio posto.

-Non c’è ciò che cercate. Andatevi a trovare qualche villaggio.-

-Come hai fretta mio caro di cacciarmi dalla tua dimora. Sembra quasi che tu voglia nascondere qualcosa.-

Il Cavaliere non mutò espressione.

Civettuola Karin gli si avvicinò, più di quanto le fosse lecito, strusciandosi senza pudore su di lui, e iniziò a baciargli il profilo della mandibola, mentre le sue mani vagavano lascive sul suo petto.

All’improvviso si fermò da sola.

Prese ad annusare, con attenzione.

La cosa non gli piacque per nulla.

-Madara, non senti anche tu un odore familiare?-, chiese all’uomo alle sue spalle ghignando.

-Ora che me lo fai notare…-

-Proprio quello che cerchiamo.-

-Sembra che sia passato un umano da queste parti…-

-Ha un profumo delizioso.-, commentò la donna.

-Non si fa così mio caro, non si nasconde così il cibo. Ai parenti e agli amici di vecchia data si dovrebbe offrire tutto ciò che si ha.-

Non gli lasciò il tempo di controbattere che sparì in direzione della camera nella torretta, seguendo la scia dell’ odore.

Con un solo colpo spalancò la porta e la trovò.

Sakura sedeva sul suo letto con lo sguardo perso fuori dalla finestra, nel buio della notte.

Il corpo snello di donna appena sbocciata era fasciato da un abito nero, di seta, privo di troppi decori e con una scollatura che metteva in risalto il collo e l’attaccatura del seno.

L’intrusione le fece voltare di scatto il volto mentre i capelli rosei raccolti in una treccia frustavano l’aria.

La vana speranza che l’intruso fosse il Cavaliere svanì ancor prima di vedere chi troneggiava davanti l’uscio, perché conscia che non era nello stile del suo coinquilino irrompere così.

-Chi siete?-, domandò con un tono di voce più austero del voluto, perentorio e per nulla spaventato, sebbene in realtà lo fosse.

L’uomo rise. Una risata fragorosa.

-Lo stesso abito di Mikoto, lo stesso suo atteggiamento.-, commentò.

Giunse poi una giovane donna in un lampo bianco e rosso di bellezza immortale.

Infine fece la sua comparsa colui che voleva vedere.

-Mio caro piccolo Sasuke! Volevi nasconderci questo così prelibato e bel bocconcino? Sei perdonato perché immagino che qui dove vivi tu non siano in molti a farsi vivi.-

-Madara…un assaggio ti prego, solo uno!-, supplicò Karin, il bel volto stravolto dalla fame e dal desiderio.

-Non è a me che devi chiederlo.-, rispose Madara indicando il suo giovane parente.

-No.-, disse inchiodando con lo sguardo la donna.

-Prometto che non la finisco, che te la lascio poi!-

-No.-, ribadì, odiando doversi ripetere e temendo intimamente per l’incolumità della sua ospite, impietrita.

Ma Karin non volle saperne e si avventò su Sakura.

Sasuke scattò di riflesso, fulmineo, placcando la nemica e scaraventandola contro il muro.

Madara rise.

La donna si rialzò mettendo in mostra i canini affilati e si lanciò sul giovane.

Sakura trattenne un urlo portandosi le mani alla bocca e l’uomo sulla soglia la prese per la vita, portandola lontana dallo scontro.

Le unghie di Karin incontrarono la carne del volto di Sasuke: stille di sangue uscirono zampillando, poi la ferita si rimarginò subito e il giovane mostrò anche lui i canini.

Quando vide che la situazione si stava mettendo male per la compagna di viaggio, Madara intervenì. In una poderosa morsa bloccò il braccio di Karin, spezzandoglielo, mentre con l’unico occhio non nascosto dalla bizzarra maschera inchiodò Sasuke, che crollò a terra.

-Di certo Karin l’ho scelta per la sua bellezza, non per la sua intelligenza.-, commentò aspramente l’uomo.

-Andatevene.-, comandò ansimando Sasuke, -Andatevene.-, ripeté, sperando che il tono perentorio convincesse i due ad ascoltarlo. La revoca dell’invito non valeva nulla se a pronunciarla fosse lui, un essere della loro stessa specie, ma restava comunque il fatto che quella era casa sua e che decideva da solo chi restava o meno. Era pronto a lottare nel caso non gli avessero dato retta.

Riprendendosi dallo stupore e dalla paura, recuperando la sua lucidità Sakura azzardò a fare una cosa che aveva sentito dire dal parroco del villaggio, sperando vivamente che funzionasse.

-Madara, Karin…-, iniziò titubante, poi però acquistò sicurezza, -Revoco l’invito da questo castello e da questa foresta!-

Il volto della donna si contorse in una smorfia che non seppe definire, mentre l’uomo rise.

-Spero che in un prossimo futuro ci incontreremo ancora.-

Poi entrambi scomparirono risucchiati da una forza invisibile, ma il giovane Cavaliere, pur senza rivelare apertamente la sua ira, era furioso.

Sotto la pressione della sua forza una delle colonnine del letto si schiantò, facendo precipitare il baldacchino. Le schegge di legno si sparsero ovunque.

Com’era comparso se ne andò, lasciando Sakura da sola, la quale decise di seguirlo.

Respirando a fondo si dedicò alla sua ricerca: prese un candelabro e si avventurò per i corridoi, quasi certa di trovarlo nella biblioteca.

Sedeva su una delle poltrone con in mano un bicchiere colmo di liquido scarlatto.

Non si fece impressionare e avanzò, posandogli una mano sulla spalla.

-Vattene.-

Le parole furono fredde e taglienti, le colpirono il cuore, lo fecero sanguinare, le lacrime le pizzicarono gli occhi. Tuttavia resistette.

-No.-

-Vattene ti ho detto.-

-E io ti ho detto di no.-

Silenzio.

-Perché ti ostini a non capire?-

-Cosa dovrei capire, sentiamo?-

-Tu sei un’umana. Io un mostro.-

-Non è quello che io credo.-

Lasciò andare il bicchiere, che si infranse al suolo spargendo il sangue, per prenderla per le spalle e scuoterla.

-Quello che tu credi turba la mia non vita.-

-Perché ti ostini così tanto? Hai paura di farmi male? Di non riuscire a fermarti? È questo?-

In uno scatto d’ira la prese per il collo e la spinse contro il muro soffiandole all’orecchio che lui avrebbe potuto ucciderla in qualsiasi momento e che non era sano da parte sua non avere paura.

-Non lo faresti mai.-, rispose senza lasciar intendere che stava letteralmente morendo per la paura.

-Sono un mostro, ho ucciso la mia famiglia.-, rispose con spietata freddezza.

-Sei più umano di quanto tu non creda nel dolerti per ciò che hai fatto.-, gli disse, cercando di accarezzargli il volto, sebbene le sue mani sul suo collo la stessero quasi soffocando.

Aveva finalmente dato un nome a quell’attrazione profonda guardando attentamente i suoi occhi color della notte più buia: amore.

Improvvisamente la lasciò andare, ritirandosi a sedere sulla poltrona e prendendosi la testa fra le mani.

Riprese fiato e poi gli si avvicinò ancora.

Lo cinse dolcemente in abbraccio caldo che sapeva di fiori, poi chinò il capo per giungere al suo orecchio.

-Donami la vita eterna, Sasuke.-, gli sussurrò.

-Sakura…-, provò a ribattere senza successo.

-Ti prego.-

Non ce la fece più, non riusciva più a resisterle, la vicinanza era troppa.

Le cinse la vita possessivo e si immerse nell’incavo del suo collo: ma non la morse, sebbene il suo istinto primario era quello, anzi, la baciò. Dapprima castamente, poi sempre più avidamente, facendola sospirare.

Le mani corsero in alto, una rimase dietro la schiena, l’altra andò a posarsi sul collo.

-È un si?-, chiese lei.

-Sei noiosa, parli troppo.-, le rispose tra un bacio e l’altro, decidendosi a impedirle di parlare.

La lingua entrò nella sua bocca e fu ben accolta, mentre il bacio diventava sempre più impetuoso e passionale.

Gli piacque quando sentì la ragazza alzare la gonna quanto bastava per permetterle di sedersi sulla sue gambe.

Si staccò da lei per farle riprendere fiato, iniziando a baciarle l’incavo tra i seni e facendole inarcare la schiena.

Questione di un attimo e si ritrovò distesa su un soffice letto dalle lenzuola cremisi.

Si baciarono ancora voraci, vogliosi l’uno dell’altro.

La luna filtrava pallida dalla finestra, illuminando con la sua argentea luce le due figure e l’abito nero che lentamente scivolava via, lasciandole le spalle e poi l’intero corpo scoperti, seguito dagli indumenti del ragazzo.

Sentì una mano accarezzarle la gamba, risalire fino la coscia e aprirle le gambe.

Presto l’arto fu sostituito dalla bocca, che baciava vogliosa ogni centimetro di pelle nuda.

La lingua l’accarezzò tra le gambe, facendola gemere: strinse con le mani il lenzuolo mentre lui la stuzzicava e sentendola umida dischiuse le labbra, pronto a giocare per qualche istante con lei, con il suo desiderio.

Quando la sentì pronta penetrò la sua femminilità.

Dolore.

Piacere.

Estasi.

Gridò di piacere, inarcò il corpo scosso da tremiti proiettandosi lontano, dischiuse ancora di più le gambe.

Aprì le palpebre, le iridi smeraldine vennero alla luce orlate dal pizzo delle ciglia, guardò il giovane immortale sopra di lei, lo guardò negli occhi, si perse nelle sue iridi d’ossidiana, ora liquide e specchio del desiderio.

Le loro lingue si intrecciarono nuovamente e stettero così per il resto della notte, abbracciati tra le coperte, pulsanti di desiderio.

-Chi è Mikoto?-, chiese rompendo il silenzio, non sapendo se essere curiosa o gelosa.

-Mia madre.-, le rispose sorprendendola.

-Anche gli altri vestiti che hai messo nel mio armadio erano suoi.-

-Si.-

-Perché l’hai fatto?-

-Non lo so.-

Gli accarezzò il profilo della mandibola con mani di farfalle, leggere e candide.

-Posso stare con te?-, chi chiese guardandolo negli occhi.

-Si.-

-Per sempre?-

-Devo proteggerti da ciò che tu vuoi.-

-Per piacere, sei tutto ciò che ho, che mi rimane.-

-Sei davvero pronta a rinunciare la tua umanità per me?-

-Per stare con te farei qualsiasi cosa.-

-Sii seria.-

-Lo sono Sasuke, lo sono, fin troppo.-, gli rispose, senza nemmeno rendersi conto di aver abbandonato già da un pezzo la forma di cortesia.

Lo sentì sospirare appena e lo vide portarsi una mano all’altezza delle tempie per massaggiarsele.

-Domani notte.-, disse infine.

-Promesso?-

-Ora riposa.-, concluse lui, baciandola e poi andandosene, seguito dal sorgere del sole.

Velocemente si addormentò serena, ma il sonno che dormì fu agitato, per nulla riposante, pieno di ansia e preoccupazione. Un incubo.

Sognava il giovane che la ringraziava e se ne andava, abbandonandola in quel castello.

Quando si svegliò, sudata e terrorizzata, corse giù dal letto, drappeggiando le lenzuola rosse attorno al corpo nudo, e si fiondò nei corridoi, con in mano un candelabro, correndo veloce, rischiando più volte di cadere incespicando nel lungo strascico cremisi.

Provò in tutti i luoghi, non lo trovò da nessuna parte.

L’ansia cresceva.

Disperata rovinò a terra, la realtà era ancora peggio del sogno.

Iniziò a piangere, l’unica cosa che le riusciva fare.

Quando sentì una mano fredda sulla spalla nuda si voltò di scatto e senza pensarci mollò un ceffone al volto del giovane dietro a lei. Poi gli tempestò di pugni il petto, per finire lo abbracciò singhiozzando.

-Sei un perfetto idiota!-

-Sakura?-

-Credevo te ne fossi andato.-

La strinse a sé, per consolarla, ma non disse nulla.

Non che non ci avesse pensato, in realtà, di andarsene, di lasciarla lì, di farle vivere una vita normale, ma alla fine aveva desistito. Il suo egoismo era troppo, il suo desiderio implacabile: la voleva, la voleva con sé ed era disposto a concederle ciò che voleva, pur di poterla stringere a sé. Indubbiamente la faceva sentire bene, stranamente in pace, vagamente felice dopo secoli, dimentico di tutto e di tutti se non di loro stessi.

-Ti amo.-, gli sussurrò all’orecchio, mentre le lacrime si calmavano, e lui la baciò possessivo.

Non aveva più un cuore da tempo, l’organo rosso e pulsante che con quel nome veniva definito era morto e si era cristallizzato nel petto, senza vera funzione. Però poteva giurare di sentire uno insolito dolore all’altezza del petto nel momento stesso in cui pensava di lasciarla.

Era giunta da lui che era ancora una bambina e gli aveva offerto il suo sangue in cambio di servigi di morte, se n’era andata e poi era ritornata, adulta, bella e innamorata.

-E se l’amore è astratto perché lo senti sulla pelle, dentro e fuori, perché spacca il cuore?-, recitò Sakura, citando le parole di un anonimo che aveva trovato nella biblioteca, quasi leggendo nei suoi pensieri, -Perché Sasuke? Perché fa così male?-, concluse aggrappandosi al suo petto. Faceva così male la paura di essere abbandonata.

-Non mi lasciare, morirei.-, sussurrò infine chiudendo gli occhi e regolarizzando il respiro.

La luna era piena, a metà del suo corso, limpida e grande. Un buon auspicio. Un auspicio di forza per la ventura vampira.

Scese a baciarle il collo, poi la morse, bevendo avidamente il suo sangue.

La portò fino al limite estremo della vita, a un passo dalla morte, sul ciglio del baratro.

Poi, facendo forza su se stesso si staccò e con gli occhi scarlatti guardò il corpo esanime della giovane tra le sue braccia, il sangue che scivolava lungo il collo, la bellezza che neanche il quel momento svaniva.

Chiuse gli occhi e si morse il polso, porgendolo poi a Sakura che iniziò a bere, dapprima piano, poi sempre più avidamente, tanto che faticò a staccarsi.

La ferita si rimarginò immediatamente, mentre gli occhi della compagna si chiudevano per poi riaprirsi, lo splendore del verde delle sue iridi risaltato dalla morte.

Con uno sguardo nuovo riprese possesso del suo corpo, sentendo tutte le percezioni incrementate notevolmente.

Lo guardò inclinando il capo e si avventò sulla sua bocca, per baciarlo e leccargli via il liquido scarlatto. Si morsero a vicenda le labbra, assaporando il sapore del proprio sangue.

Languido scese a leccarle il collo, andando a raccogliere le ultime gocce cremisi nell’incavo del suo seno.

Si amarono nuovamente lì, sul pavimento, e alle prime luci dell’alba insieme se ne andarono a dormire, uniti per l’eternità, sentendosi più vivi di quanto in vita non lo fossero mai stati.

 

Londra, 1886

 

Le dame danzavano con i lori cavalieri nei loro ampi vestiti colorati, volteggiando leggere nel centro del grande salone, mentre a lato nobildonne corpulente scuotevano con civetteria i loro ventagli.

Lo sguardo smeraldino si posò distratto sul bicchiere di punch che la mano fasciata di nero reggeva con grazia. Il fine cristallo non era ancora stato sporcato dal rosso del suo rossetto e probabilmente mai lo sarebbe stato.

Con l’altra mano agitò anche lei il suo ventaglio di pizzo dai colori coordinati a quelli del meraviglioso vestito di mussolina, seta e taffettà: quella sera aveva scelto di indossare i colori dell’antico e nobiliare clan degli Uchiha, il rosso e il nero.

Un campanello di giovani donne l’accerchiava, annoiandola con le loro chiacchiere superficiali e scontate.

Tutte, nessuna esclusa, iniziarono a sospirare quando videro il bel tenebroso della serata avanzare sensuale verso di loro, sognanti di potersi unire a lui con rapporti più o meno leciti e casti, pur sapendo che la sua attenzione era catturata solo da una di loro, l’affascinante, bella e misteriosa Miss Sakura Haruno.

-Mi concedete l’onore di questo ballo?-, le chiese inchinandosi e baciandole la mano, senza nascondere uno sguardo penetrante e voglioso.

-Con piacere.-

Leggiadri e incredibilmente abili si unirono alle coppie danzanti, volteggiando per il salone illuminato e decorato a festa.

Si strinse più di quanto fosse concesso al petto del suo Cavaliere e gli sorrise.

N/A
Brevissimamente due parole.
Innanzi tutto voglio ringraziare -ancora- ro-chan che si è offerta come sostituto giudice e ha realizzato dei banner bellissimi (*-*) e congratularmi con le altre per le postazioni.
Il giudizio era chiarissimo e giusto, quello che ci voleva per aiurarmi a migliorare u.u

   
 
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