Quella del Liberty Diner è una funzione prima di tutto
istituzionale. Nessuno, nei fatti, potrebbe essere tanto disperato da credere
che valga davvero la pena di entrarci per il cibo; nessuno, almeno, che tenga
alla salute delle coronarie.
Per la comunità gay di Pittsburgh, insomma, il Liberty Diner
è l’equivalente di quello che a Huzlehurst, Mississippi, era il McKenzie’s Beer:
il vero municipio. Nessun gay di Pittsburgh rinuncerebbe a quell’arena di
pettegolezzi e arbitrati di dubbio gusto ch’è la tavola calda più frocia della
città. Se lo facesse, Debbie troverebbe senz’altro il modo di fargli cambiare
idea.
Grande donna, la nostra signora Novotny: peccato che in quei
giorni neppure l’infinita saggezza delle sue t-shirt potesse darci una mano. Da
quando ero approdato a Pittsburgh, almeno, non mi era mai capitato di pensare
che potesse trovarsi a corto di slogan.
Evidentemente, Saturno aveva proprio deciso di metterci tutti
alla prova.
La notizia dell’incidente di Brian aveva fatto il giro della
comunità, procurando reazioni che andavano dal pubblico giubilo – mai calpestare
le tre c di un gay (cuore culo cazzo): te la farà pagare con gli
interessi – alla più nera costernazione.
Chi sapeva poi degli sviluppi ulteriori – sul momento una
rosa ristretta di avventori del Liberty, presenti quando Michael vi aveva fatto
irruzione sconvolto chiedendo quale fosse, dopo ‘mal di testa’, una
valida scusa per non essere inculato anche in diagonale – aggiungeva
significative oscillazioni del capo, con quel movimento regolare e ondivago che
usano i vecchi per ricordarti che il mondo fa schifo.
A una settimana dal primo, disastroso transito di Saturno,
nei fatti, tutto stagnava ancora entro i limitati confini di una pessima
sceneggiatura.
La zia Lula diceva sempre che la vita è come un biscotto alle
noci: buonissima, finché non ti accorgi che Dio ci ha lasciato cadere il
pezzetto di guscio che ti farà saltare l’otturazione. Io sono piuttosto convinto
che somigli a una ciambella: il problema è che a qualcuno spetta la pasta
soffice, mentre a qualcun altro tocca il buco.
Quello di Michael Novotny, nel caso di specie, era sotto tiro
né più né meno dell’Iraq.
Che Brian Kinney fosse un erotomane sessodipendente senza
particolari problemi di durata – ma glieli auguravano in parecchi – era una
certezza su cui chiunque, a Pittsburgh e dintorni, avrebbe scommesso persino la
madre. Da che lo conoscevo, almeno, non c’era stato un solo giorno della sua
luminosa esistenza in cui avesse rinunciato a fare sesso. Se era capitato,
dipendeva da cause non senz’altro imputabili alla sua volontà.
C’era voluto Justin Tylor per spezzare la monotonia di una
vita fatta di scopate di rapina, senza riguardo per la vittima del momento; da
che se n’era andato, però, il grande Kinney aveva ripreso a consolarsi a
modo proprio.
Dopo il non troppo felice incontro con Saturno, soprattutto,
con mezzi che minacciavano di incrinare il karma di parecchi.
Marzo si era inaugurato tra scrosci imprevisti e lame di
luce. Un paio di nevicate avevano concorso a peggiorare lo stato già drammatico
della circolazione del centro. Brian, per quel che ne sapevamo, aveva deciso di
acquistare una Maserati per il gusto di far sapere a tutti gli eterosessuali
d’America che ci voleva culo, nella vita, per far girare i milioni – in ogni
senso.
Archiviata la sua pratica con Saturno, Kinney sembrava,
infatti, passarsela benissimo, perché la sua amnesia molto ruffiana e selettiva
lo teneva al riparo dalla grottesca china che avevano preso gli eventi. Chi era
nel pieno di una totale crisi emozionale, familiare e persino esistenziale era
Michael.
Quando dico che il buon Novotny è la fidanzatina d’America,
non esagero affatto. Se gli eterosessuali avessero un po’ di fantasia, oltre a
una lettura della democrazia più decorosa e aperta delle loro mutande,
l’avrebbero già inserito in un documentario nostalgico sugli anni Cinquanta, con
tanto di gonne a campana e sorrisi al fluoro mentolato.
Michael è un romantico, sentimentale e fedele; uno di quegli
uomini che ti fa senz’altro piacere ritrovare come rientri a casa dopo una dura
giornata di lavoro se non hai già un cane che ti porta le pantofole. Uno carino,
ma non eccessivamente figo; uno che non ti crea ansie da prestazione e che non è
abbastanza intelligente da procurarti complessi d’inferiorità; uno, per farla
breve, che anche l’eterosessuale più limitato del mondo troverebbe preferibile a
una moglie emancipata: viene prima e senza obbligarti a psicanalizzarle il
coito.
Per tutte queste buone ragioni, potrei stilare una lista
lunga un chilometro di gay propensi a farsi un giro sul buon Mikey; per
tutte queste buone ragioni, ovviamente, nessuno si era davvero stupito del fatto
che Brian Kinney avesse colto l’occasione per farci il nido.
Nessuno, tranne il legittimo consorte.
La crisi coniugale esplose a una settimana esatta dalla
collisione Kinney-Saturno, e fu memorabile.
Una delle convinzioni radicate che maturano i gay sposati, è
che a loro non capiterà mai: non capiterà mai di trascurare i figli, di tradire
il partner, di bruciare il tacchino il Giorno del Ringraziamento. Non ho mai
capito, in effetti, perché i conservatori se la prendano con le checche, quando
sono le ultime creature del pianeta a credere nel valore di uno stupido
contratto. Senz’altro è istruttivo vedere una coppia gay molto allineata perdere
la bussola, perché non c’è niente di meglio di un po’ di maretta per
eterosessualizzare un rapporto.
È altrettanto evidente, dunque, che quelli della proposizione
quattordici non sono granché intelligenti: se volessero impedire ai gay di
costruirsi una famiglia, dovrebbero garantire loro proprio il matrimonio e
lasciar fare alla crisi del settimo anno.
Ma sto divagando di nuovo.
Era la classica mattina di marzo in quel di Pittsburgh:
freddo cane, neve sporca e ciambelle riciclate dal giorno prima. Un paio di
piccioni dal culo spennato becchettavano spazzatura sul marciapiede, mentre un
Avventista del Settimo Giorno teneva a ricordare a chiunque gli passasse davanti
che il mondo stava per finire.
“Magari hanno detto anche a lui di Saturno,” chiosò Hunter
mentre raggranellava un paio di dollari di mancia e vinceva eroico l’istinto di
cacciarseli nelle mutande come ogni scrupolosa marchetta.
Per essere il figlio di una coppia in cui la brava madre di
famiglia aveva abbandonato il tetto coniugale, mentre lo stoico padre meditava
di barattare l’aikido con qualche disciplina orientale estremamente
offensiva, non mi sembrava né infelice, né traumatizzato. È anche vero che se
nasci da una madre disgraziata che ti fa battere da che impari a camminare, per
traumatizzarti dovrebbero come minimo costringerti a fare sesso con Barbara
Bush.
“Come vanno le cose?” bofonchiai, mentre mi sforzavo di
decifrare la pagina sportiva che Carl continuava a sbattermi davanti al muso. Mi
rispose il classico ghigno sardonico con cui un adolescente tiene a farti sapere
che è troppo giovane per avere un cuore e, ammesso e non concesso lo possieda,
di sicuro non conosce ancora la pietà.
“Un delirio,” rispose senza il minimo filtro – al più
preoccupandosi d’essere sufficientemente lontano da Debbie per evitarne gli
sberlotti educativi. “Lo sai come si dice stronzo in tibetano?”
“Non credo che saperlo potrebbe essermi utile, ma grazie lo
stesso,” replicai, sebbene l’idea di un Ben Bruckner incazzato minacciasse di
imporsi con un buon piazzamento tra i migliori sogni erotici di sempre. Come
diceva la zia Lula, can che abbaia non morde, perché non ha ancora il tuo culo
in bocca. Il quando, però, era meno incerto del se, visto lo stato
degli eventi.
“Michael dovrebbe imparare a imporsi,” sospirò Ted,
abbandonando lo squallore della sua galletta di riso per unirsi al nostro
conciliabolo di cospiratori. “Non credo che assecondandolo la situazione
migliorerà.”
Ted è un tesoro, ma non è di sicuro la persona più adatta cui
rivolgersi se hai bisogno di un incoraggiamento. Qualcuno dovrebbe insegnargli
la differenza tra realismo e suicidio. Da quando poi va a farsi illuminare dalle
confessioni di una banda di ex-perdenti, la sua capacità di fotografare
l’ottimismo è pari a quella di un otturatore chiuso.
Hunter si appropriò senza troppi complimenti del mio muffin,
mangiucchiandolo in quel modo maleducato e poco convinto con cui gli adolescenti
mostrano il loro supremo disprezzo per tutto ciò che è morbido e dolce. Almeno:
gli adolescenti eterosessuali. Gli altri non sono così stupidi da
sprecare energia con un cupcake.
“Be’, d’accordo… Ma Brian che dice? Sei tu quello che ci
lavora insieme, no?”
Hunter ha la delicatezza di una mattonata sui coglioni. È un
ragazzo tanto poco problematico che i problemi li crea agli altri. A volte mi
chiedo se Ben non l’abbia imposto a Mikey come contrappasso per Kinney. Una
specie di lezione sul genere: ‘vedi un po’ tu che significa convivere con uno
stronzo?’
Ted, tuttavia, sarebbe una preda troppo facile per chiunque,
convengo.
“Ci lavoro, l’hai detto. Non è che uno possa mettersi a fare
domande su…”
Hunter sollevò ironico un sopracciglio, inghiottendo l’ultimo
boccone di muffin. “Guarda che per certe cose mica c’è bisogno di chiedere,”
sottolineò con fare saputo. “Basta prestare un po’ di attenzione ai dettagli!”
Il ragazzo aveva la stoffa per diventare un mangia uomini; il
Dio dei froci, però, dopo Kinney si è messo una mano sulla coscienza e ha deciso
che poteva risparmiarci almeno la piaga della Piccola Fiammiferaia Ninfomane. È
seccante, comunque, dover riconoscere a un etero certi talenti.
Nel mentre anche Debbie, vedendoci tanto assorti, decise che
le frittelle di un paio di fate commercialiste potevano raffreddarsi in
drammatica solitudine, se la conversazione valeva il disturbo di una deviazione.
“Cos’avete da parlottare tra voi, eh?” mugugnò, prima di
rifilare a Hunter una sberla preventiva – quel genere di schiaffetto, cioè, che
dai a cuor leggero, perché tu forse puoi ignorarne il fondamento, ma non chi lo
riceve.
“Niente di eccezionale, Deb,” replicai. “M’informavo sulla
triste sorte di Cappuccetto Mikey, condannato alle fauci del Lupo Brian.”
Debbie si fece una bella risata, dando dunque un saggio di
quel sano umorismo da mamma frocia che tutte le americane dovrebbero imitare per
evitare il lettino di uno psicanalista.
“Magari fosse un problema di fauci!” sghignazzò. “Brian non
morde solo con la bocca!”
E per fortuna, aggiungo io, che di coglione gliene era
rimasto uno solo.
“Stando a quello che mi racconta Mikey, adesso, se non altro,
so perché gliene serviva uno tanto più piccolo!”
Ted sbiancò al punto che neppure un centinaio di dollari in
raggi UVA avrebbe potuto evitargli di somigliare a un enorme calamaro bollito.
“Ma… Ma allora…” balbettò sconvolto, com’era ragionevole immaginare che
capitasse a chi fino a qualche anno prima consumava seghe solitarie sugli scatti
rubati alla fidanzatina d’America.
Debbie rise ancor più di gusto, mentre Hunter, indifferente,
dava un valido saggio di quell’atonia morale buona a smentire tutti i
repubblicani del mondo. Se i ragazzi crescono stronzi, cioè, è per colpa degli
ormoni nella carne, non di chi si scopa loro padre.
“No, no! Povero Michael, fin lì non ci sono arrivati!” si
preoccupò di puntualizzare Debbie.
“E allora? È una settimana che vivono insieme, no? Come ha
fatto a resistere per un’intera settimana?”
Proprio in quel momento, quasi le nostre speculazioni ai
limiti della decenza l’avessero miracolosamente invocato, si palesò il capro
designato da Saturno: trentacinque anni di amore platonico e devozione
autolesionista, Michael Novotny.
“Ma guarda un po’,” sogghignai, mentre il povero Mikey si
sforzava di ignorare le occhiate consapevoli di tutto il Liberty Diner e puntava
il figliastro con comica urgenza. “Hunter? Ho davvero bisogno del tuo aiuto!”
Se non ci fosse stata Debbie, il piccolo stronzo gli avrebbe
rifilato una stoccata sul genere: ‘Lo sapevo che prima o poi Brian me
l’avrebbe chiesto!’ Visto che c’era sua nonna, si limitò a fare la classica
faccia scocciata con cui le creature intelligenti e malvagie alzano la posta.
“Cioè?”
Mikey è troppo tenero per questo mondo. Anche la sua fame
spasmodica di supereroi merita di essere contestualizzata entro questa cornice.
Mikey, in buona sostanza, sa che il mondo è crudele ed è per questo che spera di
poter avere le spalle coperte. Poi Dio gli piazza davanti solo carogne.
“Dovresti aprire il negozio. Oggi arriva una consegna
importante ed io non posso proprio mancarla.”
“E perché non vai tu?”
“Perché Brian…”
E tra gli avventori del Liberty Diner serpeggiò un ‘Ah ah!’
corale sornione e scorretto.
“Insomma… Ho da fare e allora…”
Hunter intrecciò le braccia al petto e assunse l’espressione
corrucciata dell’adolescente ombroso-e-problematico con cui la televisione tenta
sempre di inoculare sensi di colpa a larga gittata sull’incauta generazione
generante. “Ovvio… Perché a te cosa frega, no?”
Michael sbatté perplesso le lunghe ciglia cerbiattose.
“Scusa?”
“A te cosa frega del fatto che io stia tentando di studiare
per farmi accettare almeno in un college di quart’ordine? Già, a te non frega
niente perché non ce l’hai tu lo stigma della marchetta!”
Se Mikey fosse crudele e scorretto come i soggetti con cui
gli tocca avere a che fare quotidianamente, si sarebbe fatto una bella risata.
Punto primo: gli avevano dato una casa e persino una
sorellastra cresciuta da due lesbiche. Che poteva pretendere di più?
Punto secondo: i froci sono una discreta lobby soprattutto a
livello accademico. Aveva senz’altro più probabilità di finire al college lui,
ch’era sveglio e per niente stupido, di quante non ne toccassero al figlio del
pakistano che riparava i condizionatori.
Mikey, però, già su stigma si era come bloccato,
pensando a chissà quale tremenda ripercussione dell’HIV.
Quando dico che Hunter è troppo, per lui, insomma, intendo
questo.
“Ma no! Avrei solo bisogno di… Guarda, ti do cinquanta
dollari, se…”
“Ah, certo! La dignità e il mio futuro valgono solo cinquanta
schifosissimi dollari!” esalò drammatico Hunter.
Nel mentre anche Carl aveva riposto la pagina sportiva,
perché il palleggio in atto era di sicuro più stimolante di qualunque Super
Bowl. Senz’altro più falloso.
Michael, impietosamente alle strette, sudava più dell’Uomo
Ragno sotto il passamontagna. “Cento dollari!” squittì. “Cento dollari e metto
una buona parola per l’auto, che ne dici?”
Hunter, marmoreo come un idolo dell’isola di Pasqua, se la
rideva nelle profondità del suo ego scellerato e non muoveva un solo muscolo.
“Cen-to dol-la-ri? Neppure certi clienti mi umiliavano così!”
“Duecento!” rilanciò Mikey, che di quel passo avrebbe messo
all’asta pure i boxer a tiratura limitata di Rage – ultimo colpo di coda
della sua holding artisticofrocimprenditoriale con Tylor.
Hunter raccattò il suo ego vilipeso e ferito, il suo futuro
macinato dall’indifferenza degli adulti e dai preconcetti di una società ostile,
agguantò i duecento dollari più rubati della sua carriera, ed ebbe persino il
coraggio di concludere con un: ‘Ricordati che mi devi un favore!’ che mi lasciò
ammirato.
Debbie fissò il figlio con un misto di compatimento e di
disgusto, prima di lasciarci con una pura perla di saggezza. “Se non sapessi che
a Brian Kinney la fica fa troppo schifo per infilarci l’uccello, direi che è
roba sua!”
Michael, arreso, si stravaccò sulla sedia che il suo (in)degno
figlio aveva scaldato sino a quel momento, levando gli occhi al cielo come in
attesa di un’illuminazione.
“Be’?” gli feci, mentre Ted gli offriva premuroso quel che
restava della sua orrenda galletta.
“Vorrei tanto le mestruazioni!” rantolò Mikey.
Saturno dovrebbe scegliersi con più plausibilità le sue
vittime.