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Autore: Callie_Stephanides    24/09/2010    2 recensioni
Il duemilasei è appena iniziato, quando Marilyn, la transgender veggente della Liberty Avenue oracola di terribili, imminenti sventure: Saturno in transito negativo, infatti, promette cambiamenti tutt'altro che rosei. Brian Kinney, scettico come ci si aspetta dalla sua maschera più collaudata, sarà nondimeno il primo a fare i conti con il Signore del Karma.
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quella del Liberty Diner è una funzione prima di tutto istituzionale. Nessuno, nei fatti, potrebbe essere tanto disperato da credere che valga davvero la pena di entrarci per il cibo; nessuno, almeno, che tenga alla salute delle coronarie.
Per la comunità gay di Pittsburgh, insomma, il Liberty Diner è l’equivalente di quello che a Huzlehurst, Mississippi, era il McKenzie’s Beer: il vero municipio. Nessun gay di Pittsburgh rinuncerebbe a quell’arena di pettegolezzi e arbitrati di dubbio gusto ch’è la tavola calda più frocia della città. Se lo facesse, Debbie troverebbe senz’altro il modo di fargli cambiare idea.
Grande donna, la nostra signora Novotny: peccato che in quei giorni neppure l’infinita saggezza delle sue t-shirt potesse darci una mano. Da quando ero approdato a Pittsburgh, almeno, non mi era mai capitato di pensare che potesse trovarsi a corto di slogan.
Evidentemente, Saturno aveva proprio deciso di metterci tutti alla prova.

La notizia dell’incidente di Brian aveva fatto il giro della comunità, procurando reazioni che andavano dal pubblico giubilo – mai calpestare le tre c di un gay (cuore culo cazzo): te la farà pagare con gli interessi – alla più nera costernazione.
Chi sapeva poi degli sviluppi ulteriori – sul momento una rosa ristretta di avventori del Liberty, presenti quando Michael vi aveva fatto irruzione sconvolto chiedendo quale fosse, dopo ‘mal di testa’, una valida scusa per non essere inculato anche in diagonale – aggiungeva significative oscillazioni del capo, con quel movimento regolare e ondivago che usano i vecchi per ricordarti che il mondo fa schifo.
A una settimana dal primo, disastroso transito di Saturno, nei fatti, tutto stagnava ancora entro i limitati confini di una pessima sceneggiatura.
La zia Lula diceva sempre che la vita è come un biscotto alle noci: buonissima, finché non ti accorgi che Dio ci ha lasciato cadere il pezzetto di guscio che ti farà saltare l’otturazione. Io sono piuttosto convinto che somigli a una ciambella: il problema è che a qualcuno spetta la pasta soffice, mentre a qualcun altro tocca il buco.
Quello di Michael Novotny, nel caso di specie, era sotto tiro né più né meno dell’Iraq.
Che Brian Kinney fosse un erotomane sessodipendente senza particolari problemi di durata – ma glieli auguravano in parecchi – era una certezza su cui chiunque, a Pittsburgh e dintorni, avrebbe scommesso persino la madre. Da che lo conoscevo, almeno, non c’era stato un solo giorno della sua luminosa esistenza in cui avesse rinunciato a fare sesso. Se era capitato, dipendeva da cause non senz’altro imputabili alla sua volontà.
C’era voluto Justin Tylor per spezzare la monotonia di una vita fatta di scopate di rapina, senza riguardo per la vittima del momento; da che se n’era andato, però, il grande Kinney aveva ripreso a consolarsi a modo proprio.
Dopo il non troppo felice incontro con Saturno, soprattutto, con mezzi che minacciavano di incrinare il karma di parecchi.

Marzo si era inaugurato tra scrosci imprevisti e lame di luce. Un paio di nevicate avevano concorso a peggiorare lo stato già drammatico della circolazione del centro. Brian, per quel che ne sapevamo, aveva deciso di acquistare una Maserati per il gusto di far sapere a tutti gli eterosessuali d’America che ci voleva culo, nella vita, per far girare i milioni – in ogni senso.
Archiviata la sua pratica con Saturno, Kinney sembrava, infatti, passarsela benissimo, perché la sua amnesia molto ruffiana e selettiva lo teneva al riparo dalla grottesca china che avevano preso gli eventi. Chi era nel pieno di una totale crisi emozionale, familiare e persino esistenziale era Michael.
Quando dico che il buon Novotny è la fidanzatina d’America, non esagero affatto. Se gli eterosessuali avessero un po’ di fantasia, oltre a una lettura della democrazia più decorosa e aperta delle loro mutande, l’avrebbero già inserito in un documentario nostalgico sugli anni Cinquanta, con tanto di gonne a campana e sorrisi al fluoro mentolato.
Michael è un romantico, sentimentale e fedele; uno di quegli uomini che ti fa senz’altro piacere ritrovare come rientri a casa dopo una dura giornata di lavoro se non hai già un cane che ti porta le pantofole. Uno carino, ma non eccessivamente figo; uno che non ti crea ansie da prestazione e che non è abbastanza intelligente da procurarti complessi d’inferiorità; uno, per farla breve, che anche l’eterosessuale più limitato del mondo troverebbe preferibile a una moglie emancipata: viene prima e senza obbligarti a psicanalizzarle il coito.
Per tutte queste buone ragioni, potrei stilare una lista lunga un chilometro di gay propensi a farsi un giro sul buon Mikey; per tutte queste buone ragioni, ovviamente, nessuno si era davvero stupito del fatto che Brian Kinney avesse colto l’occasione per farci il nido.
Nessuno, tranne il legittimo consorte.

La crisi coniugale esplose a una settimana esatta dalla collisione Kinney-Saturno, e fu memorabile.
Una delle convinzioni radicate che maturano i gay sposati, è che a loro non capiterà mai: non capiterà mai di trascurare i figli, di tradire il partner, di bruciare il tacchino il Giorno del Ringraziamento. Non ho mai capito, in effetti, perché i conservatori se la prendano con le checche, quando sono le ultime creature del pianeta a credere nel valore di uno stupido contratto. Senz’altro è istruttivo vedere una coppia gay molto allineata perdere la bussola, perché non c’è niente di meglio di un po’ di maretta per eterosessualizzare un rapporto.
È altrettanto evidente, dunque, che quelli della proposizione quattordici non sono granché intelligenti: se volessero impedire ai gay di costruirsi una famiglia, dovrebbero garantire loro proprio il matrimonio e lasciar fare alla crisi del settimo anno.
Ma sto divagando di nuovo.

Era la classica mattina di marzo in quel di Pittsburgh: freddo cane, neve sporca e ciambelle riciclate dal giorno prima. Un paio di piccioni dal culo spennato becchettavano spazzatura sul marciapiede, mentre un Avventista del Settimo Giorno teneva a ricordare a chiunque gli passasse davanti che il mondo stava per finire.
“Magari hanno detto anche a lui di Saturno,” chiosò Hunter mentre raggranellava un paio di dollari di mancia e vinceva eroico l’istinto di cacciarseli nelle mutande come ogni scrupolosa marchetta.
Per essere il figlio di una coppia in cui la brava madre di famiglia aveva abbandonato il tetto coniugale, mentre lo stoico padre meditava di barattare l’aikido con qualche disciplina orientale estremamente offensiva, non mi sembrava né infelice, né traumatizzato. È anche vero che se nasci da una madre disgraziata che ti fa battere da che impari a camminare, per traumatizzarti dovrebbero come minimo costringerti a fare sesso con Barbara Bush.
“Come vanno le cose?” bofonchiai, mentre mi sforzavo di decifrare la pagina sportiva che Carl continuava a sbattermi davanti al muso. Mi rispose il classico ghigno sardonico con cui un adolescente tiene a farti sapere che è troppo giovane per avere un cuore e, ammesso e non concesso lo possieda, di sicuro non conosce ancora la pietà.
“Un delirio,” rispose senza il minimo filtro – al più preoccupandosi d’essere sufficientemente lontano da Debbie per evitarne gli sberlotti educativi. “Lo sai come si dice stronzo in tibetano?”
“Non credo che saperlo potrebbe essermi utile, ma grazie lo stesso,” replicai, sebbene l’idea di un Ben Bruckner incazzato minacciasse di imporsi con un buon piazzamento tra i migliori sogni erotici di sempre. Come diceva la zia Lula, can che abbaia non morde, perché non ha ancora il tuo culo in bocca. Il quando, però, era meno incerto del se, visto lo stato degli eventi.
“Michael dovrebbe imparare a imporsi,” sospirò Ted, abbandonando lo squallore della sua galletta di riso per unirsi al nostro conciliabolo di cospiratori. “Non credo che assecondandolo la situazione migliorerà.”
Ted è un tesoro, ma non è di sicuro la persona più adatta cui rivolgersi se hai bisogno di un incoraggiamento. Qualcuno dovrebbe insegnargli la differenza tra realismo e suicidio. Da quando poi va a farsi illuminare dalle confessioni di una banda di ex-perdenti, la sua capacità di fotografare l’ottimismo è pari a quella di un otturatore chiuso.
Hunter si appropriò senza troppi complimenti del mio muffin, mangiucchiandolo in quel modo maleducato e poco convinto con cui gli adolescenti mostrano il loro supremo disprezzo per tutto ciò che è morbido e dolce. Almeno: gli adolescenti eterosessuali. Gli altri non sono così stupidi da sprecare energia con un cupcake.
“Be’, d’accordo… Ma Brian che dice? Sei tu quello che ci lavora insieme, no?”
Hunter ha la delicatezza di una mattonata sui coglioni. È un ragazzo tanto poco problematico che i problemi li crea agli altri. A volte mi chiedo se Ben non l’abbia imposto a Mikey come contrappasso per Kinney. Una specie di lezione sul genere: ‘vedi un po’ tu che significa convivere con uno stronzo?
Ted, tuttavia, sarebbe una preda troppo facile per chiunque, convengo.
“Ci lavoro, l’hai detto. Non è che uno possa mettersi a fare domande su…”
Hunter sollevò ironico un sopracciglio, inghiottendo l’ultimo boccone di muffin. “Guarda che per certe cose mica c’è bisogno di chiedere,” sottolineò con fare saputo. “Basta prestare un po’ di attenzione ai dettagli!”
Il ragazzo aveva la stoffa per diventare un mangia uomini; il Dio dei froci, però, dopo Kinney si è messo una mano sulla coscienza e ha deciso che poteva risparmiarci almeno la piaga della Piccola Fiammiferaia Ninfomane. È seccante, comunque, dover riconoscere a un etero certi talenti.
Nel mentre anche Debbie, vedendoci tanto assorti, decise che le frittelle di un paio di fate commercialiste potevano raffreddarsi in drammatica solitudine, se la conversazione valeva il disturbo di una deviazione.
“Cos’avete da parlottare tra voi, eh?” mugugnò, prima di rifilare a Hunter una sberla preventiva – quel genere di schiaffetto, cioè, che dai a cuor leggero, perché tu forse puoi ignorarne il fondamento, ma non chi lo riceve.
“Niente di eccezionale, Deb,” replicai. “M’informavo sulla triste sorte di Cappuccetto Mikey, condannato alle fauci del Lupo Brian.”
Debbie si fece una bella risata, dando dunque un saggio di quel sano umorismo da mamma frocia che tutte le americane dovrebbero imitare per evitare il lettino di uno psicanalista.
“Magari fosse un problema di fauci!” sghignazzò. “Brian non morde solo con la bocca!”
E per fortuna, aggiungo io, che di coglione gliene era rimasto uno solo.
“Stando a quello che mi racconta Mikey, adesso, se non altro, so perché gliene serviva uno tanto più piccolo!”
Ted sbiancò al punto che neppure un centinaio di dollari in raggi UVA avrebbe potuto evitargli di somigliare a un enorme calamaro bollito. “Ma… Ma allora…” balbettò sconvolto, com’era ragionevole immaginare che capitasse a chi fino a qualche anno prima consumava seghe solitarie sugli scatti rubati alla fidanzatina d’America.
Debbie rise ancor più di gusto, mentre Hunter, indifferente, dava un valido saggio di quell’atonia morale buona a smentire tutti i repubblicani del mondo. Se i ragazzi crescono stronzi, cioè, è per colpa degli ormoni nella carne, non di chi si scopa loro padre.
“No, no! Povero Michael, fin lì non ci sono arrivati!” si preoccupò di puntualizzare Debbie.
“E allora? È una settimana che vivono insieme, no? Come ha fatto a resistere per un’intera settimana?”
Proprio in quel momento, quasi le nostre speculazioni ai limiti della decenza l’avessero miracolosamente invocato, si palesò il capro designato da Saturno: trentacinque anni di amore platonico e devozione autolesionista, Michael Novotny.
“Ma guarda un po’,” sogghignai, mentre il povero Mikey si sforzava di ignorare le occhiate consapevoli di tutto il Liberty Diner e puntava il figliastro con comica urgenza. “Hunter? Ho davvero bisogno del tuo aiuto!”
Se non ci fosse stata Debbie, il piccolo stronzo gli avrebbe rifilato una stoccata sul genere: ‘Lo sapevo che prima o poi Brian me l’avrebbe chiesto!’ Visto che c’era sua nonna, si limitò a fare la classica faccia scocciata con cui le creature intelligenti e malvagie alzano la posta.
“Cioè?”
Mikey è troppo tenero per questo mondo. Anche la sua fame spasmodica di supereroi merita di essere contestualizzata entro questa cornice. Mikey, in buona sostanza, sa che il mondo è crudele ed è per questo che spera di poter avere le spalle coperte. Poi Dio gli piazza davanti solo carogne.
“Dovresti aprire il negozio. Oggi arriva una consegna importante ed io non posso proprio mancarla.”
“E perché non vai tu?”
“Perché Brian…”
E tra gli avventori del Liberty Diner serpeggiò un ‘Ah ah!’ corale sornione e scorretto.
“Insomma… Ho da fare e allora…”
Hunter intrecciò le braccia al petto e assunse l’espressione corrucciata dell’adolescente ombroso-e-problematico con cui la televisione tenta sempre di inoculare sensi di colpa a larga gittata sull’incauta generazione generante. “Ovvio… Perché a te cosa frega, no?”
Michael sbatté perplesso le lunghe ciglia cerbiattose. “Scusa?”
“A te cosa frega del fatto che io stia tentando di studiare per farmi accettare almeno in un college di quart’ordine? Già, a te non frega niente perché non ce l’hai tu lo stigma della marchetta!”
Se Mikey fosse crudele e scorretto come i soggetti con cui gli tocca avere a che fare quotidianamente, si sarebbe fatto una bella risata.
Punto primo: gli avevano dato una casa e persino una sorellastra cresciuta da due lesbiche. Che poteva pretendere di più?
Punto secondo: i froci sono una discreta lobby soprattutto a livello accademico. Aveva senz’altro più probabilità di finire al college lui, ch’era sveglio e per niente stupido, di quante non ne toccassero al figlio del pakistano che riparava i condizionatori.
Mikey, però, già su stigma si era come bloccato, pensando a chissà quale tremenda ripercussione dell’HIV.
Quando dico che Hunter è troppo, per lui, insomma, intendo questo.
“Ma no! Avrei solo bisogno di… Guarda, ti do cinquanta dollari, se…”
“Ah, certo! La dignità e il mio futuro valgono solo cinquanta schifosissimi dollari!” esalò drammatico Hunter.
Nel mentre anche Carl aveva riposto la pagina sportiva, perché il palleggio in atto era di sicuro più stimolante di qualunque Super Bowl. Senz’altro più falloso.
Michael, impietosamente alle strette, sudava più dell’Uomo Ragno sotto il passamontagna. “Cento dollari!” squittì. “Cento dollari e metto una buona parola per l’auto, che ne dici?”
Hunter, marmoreo come un idolo dell’isola di Pasqua, se la rideva nelle profondità del suo ego scellerato e non muoveva un solo muscolo. “Cen-to dol-la-ri? Neppure certi clienti mi umiliavano così!”
“Duecento!” rilanciò Mikey, che di quel passo avrebbe messo all’asta pure i boxer a tiratura limitata di Rage – ultimo colpo di coda della sua holding artisticofrocimprenditoriale con Tylor.
Hunter raccattò il suo ego vilipeso e ferito, il suo futuro macinato dall’indifferenza degli adulti e dai preconcetti di una società ostile, agguantò i duecento dollari più rubati della sua carriera, ed ebbe persino il coraggio di concludere con un: ‘Ricordati che mi devi un favore!’ che mi lasciò ammirato.
Debbie fissò il figlio con un misto di compatimento e di disgusto, prima di lasciarci con una pura perla di saggezza. “Se non sapessi che a Brian Kinney la fica fa troppo schifo per infilarci l’uccello, direi che è roba sua!”
Michael, arreso, si stravaccò sulla sedia che il suo (in)degno figlio aveva scaldato sino a quel momento, levando gli occhi al cielo come in attesa di un’illuminazione.
“Be’?” gli feci, mentre Ted gli offriva premuroso quel che restava della sua orrenda galletta.
“Vorrei tanto le mestruazioni!” rantolò Mikey.

Saturno dovrebbe scegliersi con più plausibilità le sue vittime.

   
 
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