Per voi, intendo.
Starsene unicamente con se stessi, immagino.
In una stanza e, perché no, anche in mezzo alla gente.
La solitudine era così anche per me, fino a poco tempo prima.
Ma in quelle tre settimane plasmai un nuovo modello di solitudine.
Me ne stavo da sola, in una stanza o in mezzo alla gente, con un’estranea.
Una me che non era me.
Un’estranea a me stessa.
Una diciassettenne che coglievo di sfuggita nelle vetrine dei negozi, negli specchi di casa, nei finestrini dei taxi e il cui sguardo malinconico mi rattristava.
Non amo ricordare quei giorni.
E non capii, allora, perché ero costretta a convivere con lei e perché detestavo rimanere da sola con lei.
Cos’era successo in quei due ultimi mesi?
La presenza dell’estranea mi inquietava.
Ricominciai a suonare il pianoforte.
Era sempre rimasto là, in quell’angolo remoto del salotto, e qualche volta mi capitava di sfiorarlo col pensiero, ricordando i giorni in cui mia madre mi teneva sulle ginocchia e mi insegnava i vari passaggi e le note, mentre i suoi capelli mi solleticavano le guance.
Un giorno, mi sedetti sullo sgabello e alzai il coperchio di mogano protetto dalla polvere.
Lo trovai magicamente accordato e perfetto, come se mi avesse atteso immacolato tutti quegli anni. Le mie dita scivolarono delicate sui suoi tasti e azzardai qualche melodia che affiorava in superficie dall’antro oscuro della mia memoria.
Ricominciai a suonare, ogni giorno, e lei se ne andò.