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Autore: Queen_Dair    04/10/2010    1 recensioni
La storia che ho scritto è del tutto frutto della mia fantasia ed è nata dalla voglia di provare a fare qualcosa di diverso. Ho cercato di scrivere una storia seguendo le emozioni che mi trasmettevano le canzoni che partivano in ordine casuale dal mio windows media player ed è uscita questa "storia" che narra le vicende un pò drammatiche di una ragazza. Buona Lettura.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seduta su una panchina del parco della vittoria - un nome che ricordava tanto il gioco da tavolo “Monopoli”, ma solo per una semplice e stupida coincidenza – ascoltavo la musica che il mio i-pod faceva suonare casualmente e con gli occhi chiusi, mentre mantenevo la faccia rivolta al sole, cercai di riposare un po’.

***

La musica d’un tratto diventa più dura e intensa, e le note di “New Divide” dei Linkin Park iniziarono a suonarmi nelle orecchie catapultandomi nel mio passato.

Ero tornata a essere una bambina di circa otto anni ed ero al centro di una stanza tra le gambe di un uomo e di una donna ma distanziata da loro di circa un metro. Non vedevo nulla di più delle loro gambe. Quelle dell’uomo erano coperte dai pantaloni di un elegante abito blu e ai piedi indossava delle scarpe scamosciate nere. Quelle della donna invece, erano delle gambe lunghissime, molto più di quelle dell’uomo ed erano coperte solo da delle calze trasparenti che le facevano sembrare più pallide di quanto in realtà non fossero. Ai piedi invece aveva delle scarpe eleganti con un tacco di circa sei centimetri, non molto alto, ma erano dello stesso color rosso della gonna che indossava.

Non capivo chi fossero, non capivo perché mi sentivo così spaventata, così triste, così in colpa, ma iniziai a piangere mentre una luce, che ricordava molto quelle dei riflettori che si trovano nei teatri, m’illuminò. M’inginocchiai a terra, perché le gambe mi tremavano troppo e facevo anche fatica a respirare, ma la cosa che più mi premeva era sapere perché mi trovassi in mezzo a quei due sconosciuti e perché io fossi così triste di trovarmi tra loro. A un tratto l’uomo gridò «Sei solo una lurida cagna Anita! Vattene e porta con te quella cosa! Mi disgustate… tutte e due! »Anita? Quello era il nome di mia madre, ma allora l’uomo che parlava era… era mio padre. «che cosa vuoi che faccia? Che ti chieda scusa? Denny, sei solo un arrogante figlio di puttana e non hai mai capito nulla né di me, né di tua figlia! » cercai di alzare lo sguardo verso mia madre ma la luce che m’illuminava mi accecò ed io fui costretta a ripararmi gli occhi con un braccio per evitare di rimanere intontita. « mia figlia? Mia figlia? La abbiamo presa solo perché tu sei sterile. Questa non è davvero nostra figlia ma consolati…. Poiché sembri volerla così tanto, te la puoi anche tenere! » “l’abbiamo presa?” che significa? E perché ce l’ha tanto con me? « sei davvero un’idiota Denny! Va al diavolo! » le gambe della donna si allontanarono da me, da noi… mi girai per guardare in faccia mio padre, ma ancora una volta dovetti ripararmi con un braccio per non essere accecata dalla fortissima luce del riflettore che avevo puntato addosso. «e tu che vuoi? Perché mi guardi? » mi disse con un tono minaccioso, che non gli avevo mai sentito usare, poi si girò e vidi le sue gambe allontanarsi sempre più da me, sino a diventare un puntino nero, e abbassando gli occhi piansi lacrime amare.

***

Una luce forte m’investì e d’un tratto la scena cambiò sulle note di “here without you” dei Three doors down. Alzai gli occhi al cielo e mi ritrovai circondata da alberi. Una fitta al cuore mi fece capire che mi trovavo nel piccolo boschetto che avevo dietro casa mia, nella giornata peggiore della mia adolescenza.

Faceva freddo, ma non troppo. Il vento che soffiava era leggero e tranquillo, il classico vento d’inizio ottobre. Io indossavo una sciarpa rossa sopra a un maglione bianco, e dei guanti rossi che mi coprivano le mani, mantenendomele calde, ai piedi avevo degli stivali neri che mi coprivano i jeans grigi fino al ginocchio. Guardando avanti a me vidi lui. Thomas. Era bellissimo vestito nel suo “classico completo”, fatto di jeans blu strappati e della sua felpa nera della Champions che lui chiamava “la sua porta fortuna”. Ai piedi indossava delle Nike air nere con il logo bianco e anche lui che non soffriva il freddo quanto me, aveva dei guanti neri che gli coprivano le mani, sempre della Nike.

Teneva la testa abbassata, come se fosse colpevole per qualcosa. D’un tratto allungò una mano e aprendola vidi la catenina con un cuore a metà che gli avevo regalato. L’altra metà ce l’avevo io. «che significa? » chiesi io, correndogli incontro e prendendolo con forza per la felpa – per quanta ne potessi avere in quel momento - con la speranza che mi guardasse. Lui girò la testa da un lato per evitare di fissarmi, ma alzò la mano e mi mise di nuovo la catenina davanti alla faccia. «avanti, prendila. A me non serve più. » lo guardai esterrefatta e lasciando cadere le mie mani nei fianchi, indietreggiai di qualche passo da lui, abbassando la testa. Questa volta ero io che non volevo guardarlo in faccia. « che significa tutto questo? » chiesi con una voce strozzata dai singhiozzi. Cercavo di respingerli, ma ormai mi uscivano a raffica, come le lacrime. <<ascolta. » mi disse lui con una voce calma e rassicurante. « le cose non funzionano tra di noi, insomma, sei troppo incasinata per me… » alzai gli occhi verso di lui, ma Thomas distolse nuovamente lo sguardo. « senti, tu mi piaci. Dico davvero, ma io vorrei stare con una ragazza normale, cui piace la musica, divertirsi con gli amici, andare in discoteca, non con una che è piena di problemi! » a quel punto smisi di piangere perché l’ira aveva occupato il posto della tristezza. « sono troppo piena di problemi per te? Oh, scusa se sono stata abbandonata da mio padre quando ero piccola. Scusa, se mia madre è un’alcolizzata che di tanto in tanto sparisce, scusa se io sono così maledettamente ingenua da pensare che al mio ragazzo freghi qualcosa di me, da volermi ascoltare e aiutare. »

«così sei ingiusta! » ribatté lui. « io sarei ingiusta? Di la verità Thomas. Mi stai mollando solo perché non voglio venire a letto con te, vero? » fece un respiro profondo e poi parlò. « beh, io ho quasi diciotto anni e ho le mie esigenze. » lo guardai schifata. « esigenze che la cara Carmela può soddisfare, vero? » lui mi guardò stupito, cercando di trovare le parole per replicare. « vi ho visti Thomas, per cui non c’è bisogno che tu dica nulla. » lui mi guardò in faccia e un mezzo sorriso gli apparve sulle labbra, ma cercò di nasconderlo subito, fingendo di pulirsi la bocca con una mano. Io presi la catenina dalla sua mano e poi gli gridai di andarsene con tutta la voce che avevo in corpo, e fortunatamente lui lo fece subito. Rimasta lì, da sola in quel boschetto, mi strappai con un gesto nervoso la catenina che avevo al collo, e unendola a quella che mi aveva appena restituito lui, la gettai lontano da me.

***

Di nuovo una luce accecante mi avvolse e quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, mi trovai abbracciata a Omar, nel letto del mio appartamento. Lui era un ragazzo dolce e simpatico. Aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi ed era di corporatura muscolosa, insomma, fisicamente era l’uomo perfetto per me, ma proprio come nella canzone che stava suonando alla radio in quel momento, ovvero “thinking of you” di Katy Perry, lui non era l’uomo che amavo.

Alex, si chiamava così il ragazzo che mi era stato vicino nei due anni più difficili della mia vita, quando il Mondo sembrava davvero cadermi addosso. Era un ragazzo non molto bello, ma molto intelligente e simpatico. Aveva gli occhi e i capelli marroni e un fisico esile per un maschio, ma era comunque molto forte, al dispetto del suo aspetto.

Quando mia madre morì, lui era diventato la mia famiglia, anzi era come se fosse stato da sempre la mia unica famiglia. Con lui mi sentivo al sicuro, protetta da tutto e da tutti perché mi conosceva talmente bene, da sapere ogni cosa su di me, anche più di quante ne sapessi io. Questo però mi spaventò a tal punto, da farmi commettere l’errore più grande della mia vita. Io lo tradì con Omar, un ragazzo che lavorava come reporter per lo stesso giornale in cui lavoravo io come fotografa. Inutile dire che quando Alex lo scoprì, non ne fu per niente felice, anzi, fu talmente adirato per la cosa, che mi lascio subito, mostrandomi anche l’anello che mi avrebbe voluto dare quella sera. Un anello di fidanzamento. Lo guardai disperata, mentre si chiudeva alle spalle la porta per andarsene per sempre dalla mia vita e anche in quel momento, mentre guardavo Omar dormire, mi resi conto di che grande perdita era stata per me l’assenza di Alex nella mia vita.

***

A quel punto la musica un po’ movimentata e bassa di “Search and Destroy” dei 30 seconds to mars mi riportò ad una nuova visione. Omar era davanti a me e mi scrutava con un’aria di sfida negli occhi. « ti diverti bastardo? » gli gridai con disprezzo. «sì. » ammise lui divertito. «bene, allora vediamo quanto ti diverti ora! >> presi la lampada che si trovava nel tavolino di fianco a me e gliela lanciai addosso. Abbassandosi appena in tempo, lui riuscì a schivarla. « brutta stronza! Vuoi davvero che ti picchi? » si avvicino a me e spinse con una tale violenza addosso al divano che per un istante la mia vista diventò annebbiata.

« rialzati! Lo so che non ti ho fatto nulla! » mi rialzai a fatica con le gambe che mi tremavano per la paura, mi avvicinai al telefono, digitando il numero della polizia. « che stai facendo? »

« sto chiamando la polizia. Questa volta me la pagherai! » lui si avvicinò a me, furioso in viso come non lo avevo mai visto e dopo avermi preso con forza il telefono dalle mani e averlo riagganciato, mi scaraventò addosso al muro, facendomi finire per terra mentre la mia bocca iniziava a sanguinare. Mi ripulì con la manica della felpa e poi sputai il resto del sangue sulla moquette bianca e immacolata del nostro appartamento « sei davvero un lurido verme! »

« perché? Perché sono andato a letto per tre mesi con Anna o perché ti sto dando quello che meriti? »

« sei soltanto un viscido. Meriteresti la galera. Ti leverò tutto quello che hai e ti ritroverai in mezzo ad una strada! » lui prese la rincorsa e poi mi diede un calcio sul viso, procurandomi un dolore assurdo e slogandomi la mascella. S’inginocchiò vicino al mio volto che ormai era una maschera di sangue. « tu non puoi fare nulla contro di me. Questo lo sai… e poi, cara la mia “verginella”, ti ricordo che sei stata tu a tradire per prima… forse non hai tradito me, ma il ragazzo che ti ha lasciato questa casa e che ti ha dato tutto quello che hai sì, per cui mi domando, chi è il viscido tra noi due? » io volevo ribattere a quelle accuse, ma il dolore era troppo forte e non riuscivo a parlare. Lui si alzò ridendo, gustandosi il lavoro che aveva fatto alla mia povera faccia. «ora vado a trovare Anna, ma quando torno, voglio che tu abbia pulito tutto e che te ne sia andata di qui con le tue schifose cose! » sbatté la porta con forza ed io rialzandomi in piedi a fatica, senza neanche prendermi delle salviettine per pulirmi la faccia, presi l’auto e andai nella stazione di polizia più vicina per denunciarlo per maltrattamenti. La sera stessa fu portato in carcere e ancora oggi sta scontando la sua pena dietro ad una cella lontano più di tremila chilometri da me. Avevo finalmente ottenuto la mia vendetta, lo avevo distrutto.

***

Aprì gli occhi che ormai erano pieni di lacrime, al ricordo dell’incubo che avevo vissuto per mesi, ma search and destroy lasciò il posto a “leave out all the rest” dei Linkin Park e il dolore che avevo nel cuore si dissolse piano piano, mentre una voce tranquilla e dolce alle mie spalle mi disse « scusa il ritardo, il traffico in queste ore è davvero orrendo! » io gli sorrisi e lui abbassandosi un po’ mi baciò sulle labbra, poi mi accarezzo la pancia e sorridendomi la baciò. « allora, com’è andato l’esame? Che hanno detto i medici? » si sedette accanto a me e mi guardò con uno sguardo pieno di curiosità e sinceramente interessato al mio racconto. «beh, direi che noi avremo un… maschio. » gli lanciai un sorriso smagliante. « avremo un… maschio? » io annuì con la testa e lui mi abbracciò energicamente, baciandomi amorevolmente sulle labbra. « beh, onestamente non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno avere una figlia. » mi disse lui in un sussurro, mentre mi baciava la guancia. « davvero? » gli chiesi io con uno sguardo furbo negli occhi. «si… perché ti sorprende che io voglia avere anche una figlia con te? » io risi, e guardandolo dritta negli occhi gli dissi. «beh allora non dovrai aspettare molto, perché avremmo anche una figlia. » Lui mi guardò con uno sguardo stupito, ma subito dopo i suoi occhi iniziarono a luccicare e baciandolo riuscì a sentire il sapore delle sue lacrime dolci e piene d’amore per me, per noi. « sono l’uomo più felice del Mondo! » gridò lui mettendosi in piedi sopra alla panchina. Due vecchiette che stavano sedute in una panchina vicino lo guardarono preoccupate ed io mi misi a ridere. «Alex, non esagerare, ti prego. »

« non posso farci nulla, sono troppo feliceeeeeee… » corse da quelle due anziane signore che spaventate presero un ombrello per colpirlo in caso si fosse avvicinato troppo alle loro borse. « signore, sto per diventare padre di due gemelli… un maschio e una femmina, sono così feliceeeeeee » le signore aprirono la bocca stupite e dopo un momento di smarrimento, abbassando l’ombrello che tenevano in mano, si alzarono dalla panchina per congratularsi con lui. Io iniziai a ridere mentre mi gustavo la scena. Era troppo buffo vedere Alex comportarsi così, poi me lo ritrovai davanti alla faccia assieme a quelle due sconosciute signore. «Eccola qui. Questa è la donna che mi ha reso l’uomo più felice del Mondo il giorno che mi ha sposato, anche se la prima volta in cui eravamo stati insieme non era finita bene, alla fine, il nostro amore ha trionfato. » disse indicandomi. Le due anziane signore si sedettero accanto a me e iniziarono a complimentarsi con me per avere un marito così simpatico e amabile e per i nostri futuri figli. Alex ed io le ringraziammo e dopo aver parlato con loro per un po’, ci allontanammo dal parco per tornarcene nella nostra casa. Ora non ero più sola e grazie ad Alex e ai nostri bambini non lo sarei stata mai più. A volte per trovare il paradiso, bisogna prima passare per l’inferno.

   
 
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