Libri > Hyperversum
Segui la storia  |       
Autore: Dean Lucas    05/10/2010    3 recensioni
Ian riabbraccia Isabeau ma scopre il prezzo del perdono di Ponthieu: i ragazzi si vedono costretti a ritornare con Isabeau nel presente in cerca dell'unico manufatto che può convincere Guillaume. Nel passato, una donna mette alla luce una bambina, senza sapere che avrebbe scritto alcune delle pagine più importanti della storia di Francia. Il suo destino si intreccerà con quello di Ian, Daniel, Isabeau e Ty, tra guerre e assedi, sconfitte e vittorie e soprattutto un nuovo amore più forte di ogni cosa. E quando tutto sembrerà ormai perduto, e la vita della misteriosa ragazza e il segreto stesso di Hyperversum saranno in grave pericolo, una donna dovrà prendere la decisione forse più importante nella storia dell'umanità. Chi c'è dietro Hyperversum? I ragazzi forse l'hanno sempre saputo, ma quando arrriverà finalmente il momento di conoscere la risposta, questa li sorprenderà più ancora delle loro incredibili avventure.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Arrivarono a Beaugency solo nel pomeriggio del giorno successivo. La pioggia e il freddo suggeriva agli abitanti del borgo di stare rintanati nelle loro case o nelle loro botteghe e i pochi uomini che incontrarono lungo le strade li osservavano come se stessero già rubando qualcosa col semplice respiro.

Daniel era consapevole che il loro aspetto era terribile, il sudiciume e il fango aveva insozzato tutti i loro vestiti e i loro volti erano adombrati dalla stanchezza e dalla barba incolta.

Vagarono un po’ per le strade semideserte e infine giunsero in vista della piazza. Dominava la scena la superba torre quadrata del dongione, alta oltre trenta metri e che appariva già antica e consumata dal tempo.

Lo stomaco di Daniel brontolò rumorosamente.

“Lo so, dobbiamo trovare il modo di sfamarci”.

“Se tentassimo di pescare qualcosa sul fiume?”

“E con cosa, a mani nude?” replicò Ian nervoso, “No, piuttosto dobbiamo trovare un lavoro provvisorio, qualunque cosa che ci permetta di guadagnarci la giornata, per poter affrontare il resto del viaggio per Chinon con qualche soldo in tasca”.

“D’accordo, per me va bene”.

“Allora rechiamoci in una locanda, lì troveremo qualcuno a cui poter chiedere informazioni”.

La locanda era affollata, poiché la pioggia aveva attirato gran parte degli uomini lì dentro. Appena entrati, furono piacevolmente accolti dall’aria tiepida del locale pieno di gente e dall’odore invitante del vino e del cibo.

Ian si guardò un po’ intorno, raccogliendo gli sguardi torvi riservati ai viaggiatori poveri e che portavano una spada sul fianco. Si diresse diritto al bancone dell’oste e domandò:

“Cortesemente, Monsieur, può indicarmi come due giovani desiderosi di guadagnarsi la giornata, possono trovare un lavoro onesto in questa città?”

L’uomo inarcò un sopracciglio e continuò a lavare un boccale, ignorando completamente Ian.

Solo molto tempo dopo, quando ebbe riposto il boccale pulito e asciutto dietro il bancone, l’oste si rivolse finalmente a lui.

 “Possedete una imbarcazione adatta alla pesca fluviale, straniero?”

“Mi rincresce ma non possiedo nient’altro che la forza delle mie braccia e la voglia di lavorare duro, signore.”

L’oste si voltò allora verso Daniel e l’osservò in tralice. Infine ringhiò: “Il vostro amico somiglia davvero molto a un dannatissimo inglese, viaggiatore”.

La parola inglese suscitò immediati mormorii tra la gente e molte voci tacquero per ascoltare la conversazione tra i due stranieri e l’oste.

“Lui è mio fratello e siamo francesi, Monsieur”.

“E chi mi dice che non siete invece dannate spie di Glasdale, che Dio lo maledica!”

“Quel maledetto è il mio nemico giurato!” s’inalberò Ian, “lo ucciderò con le mie stesse mani quando l’avrò nuovamente di fronte!”

Altri due uomini si erano avvicinati intorno a Daniel e lo squadravano in modo poco raccomandabile.

“Non sono inglese!” sbottò alla fine Daniel, sentendosi tutti quegli occhi addosso.

L’uomo più vicino lo spintonò con una mano, “Dimostralo. Vediamo di che pasta sei fatto”, lo sfidò. Con un movimento fulmineo tirò fuori un coltellaccio ricurvo e si scagliò sul ragazzo.

Ian si avvide del movimento furtivo che aveva compiuto l’uomo, quando si era portato la mano sul fianco per estrarre l’arma. Con una spallata spostò l’amico dalla traiettoria della lama che gli si avventava contro, mentre con la mano libera sguainava la spada che aveva raccolto a Rouvray.

L’uomo stava già alzando il braccio, nel tentativo di affondare un altro attacco contro Daniel, ma Ian lo precedette, puntandogli la punta della sua spada contro la gola. L’assalitore sollevò anche l’altro braccio in segno di resa e indietreggiò di un passo.

“Non abbiamo bisogno di stranieri in questa città”, intervenne nuovamente l’oste, che adesso era occupato ad asciugare l’interno di un altro boccale, “lasciate Beaugency, prima che qualcun altro possa pensare che siete delle spie”.

Ian abbassò lentamente la spada e la rinfoderò nella sua guaina di cuoio.

“Non vogliamo guai”, sibilò infine, “ce ne andiamo”.

Un brusio di voci irritate lo accompagnarono finché non uscirono dalla locanda.

Fuori stava piovendo.

“In questa città non troveremo che guai”.

Mentre già si incamminavano, Daniel borbottò:  

“Dannazione, perché mai tutti mi devono credere una spia?”

“Bè, almeno adesso sappiamo che nel ruolo eri davvero credibile”, ammise Ian mentre un ghigno divertito gli premeva sulle labbra e lui, dopo tanti giorni in cui non aveva più sorriso, finalmente si sentì libero di ridere, accompagnato subito dopo da Daniel.

Quella notte trovarono ospitalità e un frugale pasto alla chiesa abbaziale di Notre Dame di Beaugency, che abbandonarono alle prime luci dell’alba. Mangiarono lentamente, gustando ogni frammento del pane di avena intinto in un denso brodame: parve ai due ragazzi il cibo migliore che avessero mai assaggiato da molto tempo, tanto erano affamati.

 

 

***

 

 

Saint Laurent Nouan era lontana ancora una decina di chilometri e la tappa successiva, il castello dei conti di Blois, si trovava ad una distanza più che doppia.

Dopo l’incidente alla locanda, avevano deciso di evitare il più possibile i centri abitati dove non vi erano abbazie che potessero ospitarli. L’isterismo collettivo che colpiva quelle regioni aspramente contese tra inglesi e francesi, poteva facilmente sfociare in episodi di rabbia come quello accaduto alla locanda. Avevano imparato che la gente locale, nel migliore dei casi non si fidava dei viaggiatori stranieri. Nel peggiore o più semplicemente nel dubbio, li uccideva.

Bivaccarono tra i margini della strada e il corso del fiume per un periodo che presto non furono più in grado di determinare: il cielo era sempre buio anche quando non pioveva e le notti erano sempre fredde.

Ian e Daniel impararono a riconoscere i canali di acqua dolce che confluivano nel fiume da quelli d’acqua salata.

La composizione della vegetazione era infatti completamente differente nei due casi, a causa della resistenza al sale e, ovviamente, erano diverse le specie animali che li popolavano: rane, rospi e piccoli pesciolini d'acqua dolce in un caso, conchiglie che i locali chiamavano coque de marais, gamberetti piccoli e trasparenti, échilettes e pesciolini di mare nell'altro.

L’acqua del fiume era gravida delle piogge e defluiva con troppo impeto per far sperare ai due ragazzi di catturare con i loro mezzi primitivi i piccoli e sfuggenti pesci. E presto riconobbero che senza un battello, non avrebbero mai potuto pescare nulla nei canali d’acqua salata. Dopo che ebbero esaurito le scorte di pesce essiccato, si nutrirono soprattutto di piccole rane, ogni giorno più disposti a cibarsi di ciò che il giorno precedente avevano disdegnato con ribrezzo.

Quando finalmente giunsero, sfiniti, in vista delle imponenti guglie del castello di Chaumont, Ian si rese conto che non rammentava più quanti giorni erano trascorsi da quando avevano abbandonato Beaugency. Forse un paio, probabilmente molti di più.

Sebbene, ormai, era soltanto la forza di volontà a trascinarlo avanti, dopo che le forze lo avevano lasciato, Ian osservò con estremo interesse quella fortezza leggendaria, che in capo a pochi decenni sarebbe stata incendiata da Luigi IX, come monito a Pietro d'Amboise, per la sua partecipazione alla Lega del bene pubblico.

In quel luogo avrebbero dimorato Caterina de Medici e Nostradamus e per uno storico qual era lui, osservare il castello, nella sua realizzazione originale, fu un’emozione che lo distrasse per qualche tempo dalle angosce e dalla fame.

Le torri di Chaumont erano già scomparse all’orizzonte da molto tempo, quando la via che costeggiava quel versante della Loira, lambì i confini di un’altra celebre fortezza:  il castello di Amboise.

Era uno dei più imponenti che Ian avesse mai visto. Qualche decennio più tardi qui avrebbe trovato i natali e la morte, re Carlo VIII, l'ultimo esponente del ramo più antico della dinastia dei Valois. Ian conosceva l’aneddoto che voleva che il re fosse morto battendo la testa contro un architrave in pietra di una porta, mentre giocava al jeu de paume, il gioco antesignano dell’attuale tennis.

Ma più di questo, il castello doveva la sua leggenda a un altro personaggio che avrebbe ospitato: Leonardo da Vinci visse ad Amboise fino alla morte, avvenuta come Ian si ricordava nel 1519 e venne successivamente sepolto nella cappella Saint-Hubert, all’interno del corpo principale della costruzione.

Ian si concesse un sorriso al pensiero di poter incontrare Leonardo in persona e poi fantasticò di raccontargli la sua vera storia, nella certezza che se esisteva un uomo in quell’epoca che avrebbe trovato interessante la sua vita e l’avrebbe creduto, sarebbe stato proprio Leonardo Da Vinci.

 

 

 

***

 

 

 

Les Tourelles assomigliava alla copia ridotta del corpo centrale di un castello: quattro torri all’estremità di ogni lato sorvegliavano a nord, il ponte che congiungeva la fortezza alla città di Orléans, mentre a sud, vigilavano sugli ampi territori dinanzi alla Loira.

Incatenate per le caviglie una all’altra, le donne proseguirono in fila, inciampando e urtandosi a vicenda fino alle segrete della bastia. La paura, più del freddo, le raggelò quando si addentrarono nelle viscere della fortezza, scendendo fin dove solo le torce dei loro carcerieri potevano illuminare le umide mura di rozza pietra delle prigioni, mentre tutt’intorno regnava una tenebra spessa e ostile.

All’improvviso le torce rischiararono altri volti, quelli già scavati e spenti di altre donne, che le avevano precedute nella sventura. Le guardie trascinarono il gruppetto con Isabeau in una grande cella proprio di fronte a quella delle altre recluse.

 Il pavimento era ricoperto da uno strato di sordido pagliericcio dall’odore ripugnante. Isabeau immaginò che fosse l’odore pungente dell’urina di coloro che avevano occupato la cella prima di loro.

Dopo che furono entrate tutte, la guardia provvide e sganciare i morsi di ferro alle caviglie. Le donne, finalmente libere, si accovacciarono all’estremità più buia della prigione, occupando un posto che per molte sarebbe stato loro fino al resto dei propri giorni. Isabeau stava per scegliersi un cantuccio, quando una guardia la trattenne rudemente per il polso e sibilò:

“Tu, bellezza, vieni con noi.” La bassa voce maschile spaventò Isabeau, “Perché, dove volete portarmi?”

“Tu sei fortunata, non morirai tra i tuoi stessi escrementi come queste cagne. Lord Glasdale vuole conoscerti”, le sorrise oscenamente l’uomo, scostandole una lunga ciocca di capelli e stropicciandosela tra le dita, “se sarai brava, lui saprà ricompensarti, vedrai…”

Non servì a nulla tentare di divincolarsi: una morsa più fredda e più stretta dell’acciaio, che prima le aveva addentato le caviglie, l’afferrò e la trascinò brutalmente in superficie.      

 

 

***

 

 

Chinon doveva distare solo qualche giornata di marcia. Da giorni andavano avanti e basta, per inerzia, senza scambiarsi una parola, sapendo soltanto che dovevano camminare fino all’estremo delle loro forze, senza fermarsi. Non consumavano un vero pasto da quando il gioco li aveva scaraventati a Rouvray e nell’ultimo tratto, non avevano più trovato canali d’acqua dolce per cacciare un po’ di cibo. Avevano teso i loro corpi all’estremo ed erano entrambi consapevoli che erano ormai prossimi al punto di rottura.

Il freddo, che durante la notte diveniva insopportabile, era penetrato a fondo fino alle ossa e sembrava che non dovesse più abbandonarli, nemmeno quando riuscivano ad accendere un fuoco e si riscaldavano davanti alle fiamme.

Quando uno di loro crollava a terra per la stanchezza, allora cercavano un giaciglio di fortuna dove potersi distendere e giacevano lì fino all’alba del giorno successivo, quando avrebbero ripreso il loro viaggio.

Erano in cammino già da molte ore, senza aver messo ancora niente sotto i denti, quando Ian inciampò in qualche ostacolo e cadde bocconi a terra, sul terreno fangoso. Non si rialzò.

Nello stesso istante in cui Daniel comandò alle gambe di piegarsi per aiutare Ian, le ginocchia tradirono anche lui, gettandolo a carponi nel fango. Sfinito, si trascinò fino a Ian, con la mente così annebbiata, che non era sicuro se si trattava di un sogno o della realtà.

Daniel stava pensando a Jodie e Alex, il loro pensiero era così dolce e aveva voglia di addormentarsi e sognarle ancora, per sempre. Fece per alzarsi dal fango, ma le sue ginocchia erano inchiodate al suolo. Tentò un secondo sforzo, aiutandosi con le braccia, ma non si mosse. Era stanco come non lo era mai stato, doveva dormire, riposarsi, si disse, così avrebbe trovato le forze per rialzarsi. Finalmente si accostò a Ian e si accasciò sulla spalla dell’amico.

“Daniel! Daniel!” lo scosse il ragazzo, “non è questo il momento per arrendersi, andiamo, l’ultimo sforzo… Chinon ormai non può essere lontana!” Daniel sembrava svenuto e nemmeno lui aveva più la forza per rialzarsi.

Sapeva che erano vicini alla loro meta, forse solo un giorno o due di marcia, ma ogni passo adesso costava una fatica insopportabile. Non avevano più nemmeno la forza per disperarsi.

Il tempo passò ancora senza poterlo misurare, trascorsero forse solo pochi secondi oppure ore, Ian non poteva dirlo. Udiva adesso un altro rumore oltre alla pioggia incessante, un picchiettio di cui non capiva la provenienza. Finché si accorse che Daniel tremava e il freddo gli faceva battere freneticamente i denti. Un gelo dolce e vacuo si stava impadronendo anche di lui, gravido di promesse che lo avrebbero finalmente liberato dal dolore insopportabile, dalla fame, dal freddo, dalla pesantezza di vivere.

Passò altro tempo, incalcolabile ed eterno, finché ogni rumore perse importanza. Non sentiva più la gelida pioggia bagnarlo, tuttavia non era sicuro che avesse smesso di piovere. Non sentì più il freddo, ma non era sicuro che il sole lo stesse scaldando. Percepiva solo abbandono e oblio. Persino Isabeau era un ricordo distante, confuso insieme a tanti altri ricordi sfumati.

Isabeau. Forse si sarebbero finalmente incontrati in un mondo tiepido e asciutto, dove non esistevano nemici o sofferenza. Il pensiero lo fece sorridere debolmente. Ma, ancora, gli era impossibile dire se stesse ridendo davvero o se stesso solo sognando di farlo.

E poi, in quel sogno, comparvero all’improvviso dei cavalli, purosangue bianchi e maestosi. Cavalcati da cavalieri altrettanto splendidi e lucenti. Un uomo o forse un angelo luminoso, gli parlò e così pure un altro.

Ian non li poteva udire e quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era uno di quei sogni dove non è concesso parlare, poiché dalla sua voce non uscì nulla.

Intravide la prima figura toccare Daniel con un’asta luccicante. L’amico era ancora accovacciato contro la sua spalla, ma quando l’uomo lo toccò, Daniel come un oggetto inanimato, si staccò orribilmente da lui e rotolò a terra.

Ian fece per urlare, ma ancora una volta il sogno non glielo permise.

Fu quando Daniel si accasciò a terra su un fianco, che una delle due figure scorse il borsone di pelle che portava sulla spalla: dall’apertura sporgeva qualcosa che Ian ricordava di aver già visto, ma non ricordò dove.

Una voce nella mente bisbigliava che quell’oggetto era importante per lui, che lo doveva proteggere, ma non si rammentò perché.

Invece, osservò impotente quell’essere mentre apriva completamente la borsa e con vivo stupore ne trascinava fuori un pesante manoscritto. Vide il suo volto stravolgersi non appena lo girò tra le mani e ne scorse la copertina, indicandola al suo compagno, che replicò la stessa espressione incredula.

Alla vista del codice miniato, il sogno sembrò farsi più vivido, i suoi occhi misero pigramente a fuoco i colori e i mantelli bianco e azzurro delle due figure. All’improvviso braccia robuste lo issarono su un cavallo.

“Un uomo dall’altezza insolita e dal fisico possente, coi capelli neri insieme ad un altro coi capelli chiari e corti…”

“Il figlio della Contessa aveva assicurato che ci sarebbe stata anche una donna.”

“Ma d’altronde, questo manoscritto…”

“Cosa succede lì fuori? Perché ci siamo fermati?” intervenne una voce autorevole dietro di loro. La donna era scesa dalla carrozza e tirandosi le sottovesti fin quasi al ginocchio, per non farle sporcare nel fango, veniva adesso incontro alle due guardie.

“Allora? Cosa succede?” volle sapere spazientita.

“Abbiamo trovato questi viaggiatori in mezzo alla via, Signora Contessa. Erano come morti e ci siamo fermati per controllare che non vi fosse pericolo per la vostra sicurezza, Madame.”

“Per quale motivo li avete tirati sopra i cavalli? Non intendo rallentare la nostra marcia a causa di due sconosciuti moribondi! Abbandonateli dove li avete trovati, per l’amor del cielo!”

Si era già voltata indietro per risalire sulla carrozza, quando la raggiunse la voce di una delle guardie: “Scusate, Madame, credo che prima dobbiate vedere questo”.

Quando l’uomo porse alla contessa il pesante manoscritto, Caroline de Ponthieu sbiancò. Quello era l’oggetto che il suo benamato marito custodiva come un tesoro e che amava moltissimo.

“Come possono averlo loro?” strillò la donna.

“Non possiamo esserne sicuri, Madame, ma credo che il signor conte vostro figlio conosca queste due persone. Prima di mettersi in viaggio per scortare quella donna a corte”, spiegò il soldato, “aveva fornito una descrizione nel caso uno di noi si imbattesse negli amici che gli avevano salvato la vita e costoro”, l’armato indicò i due corpi adagiati sui cavalli che trainavano la carrozza, “corrispondono alla descrizione. Se vogliamo conoscere la verità, dobbiamo portarli con noi a Chinon.”

 

 

***

 

 

“Milord?” la guardia che trascinava con sé Isabeau bussò nuovamente alla porta.

 “Entrate!”, sibilò una voce burbera da dietro l’uscio.

L’uomo dischiuse la porta e spintonò in avanti la ragazza che, incespicando, entrò nella stanza.

“Andate via, ora”, ordinò. Lord Glasdale era seduto di spalle con la testa china sopra un manoscritto e non si era nemmeno voltato. La guardia, facendo un lieve inchino, indietreggiò di qualche passo e poi chiudendo l’uscio, sparì.

L’ufficio del comandante della fortezza era arredato sontuosamente e a parte le dimensioni, non aveva nulla da invidiare alle stanze nobiliari di un castello.

Finalmente l’uomo si alzò e si avvicinò a Isabeau per osservarla da vicino. Restò in silenzio, girandole intorno e studiandola attentamente per molto tempo, con aria soddisfatta.

“Una puledra di razza purissima”, commentò infine l’uomo. “Nemmeno conoscevo l’esistenza del purosangue francese!”, esclamò compiaciuto, più a se stesso che rivolto alla ragazza.

Per tutta risposta, Isabeau si voltò fino ad incrociarne gli sguardi e fissandolo diritto negli occhi con evidente disprezzo, gli sputò addosso, colpendolo di striscio sul volto.

Lord Glasdale, non si scompose, anzi sembrò divertito. Isabeau era pronta ad affrontare la sua collera, ma l’inglese invece scoppiò in una gran risata.

“Rispetto il temperamento sanguigno di una purosangue”, aggiunse beffardo, “non provo gusto nella doma di una puledra remissiva”.

“Io invece non vi rispetto affatto!”, lo aggredì Isabeau, “Quali intenzioni avete, perché mi avete fatto condurre qui?”

L’uomo le mostrò un sorriso storto che raggelò la ragazza. “Voi siete di mia proprietà adesso, ciò che intendo fare con voi non vi riguarda. Lo farete e basta”, sibilò subito dopo.

“Voi non siete un uomo! Che Dio possa avere pietà della vostra misera anima, Monsieur”.

L’uomo lasciò balenare negli occhi un moto di irritazione poi indugiò ancora pensoso su di lei, “Siete ancora selvaggia, ma vi domerò, siatene certa”

“Preferirei morire piuttosto”.

“E sarete accontentata, se lo desiderate. Ma non prima di avermi soddisfatto”, così dicendo le afferrò il braccio e la trasse a sé con forza. Isabeau, agì d’istinto, piegò il capo e affondò i denti sull’avambraccio dell’uomo, che strillò di dolore.

Glasdale si scostò bruscamente e si guardò incredulo la tunica lacerata che stillava sangue. Inferocito, schiaffeggiò Isabeau con un manrovescio e poi col palmo aperto della mano, lasciandola stordita.

“Non ho dubbi che mi obbedirete, sgualdrina!”

L’insulto fece tornare in sé la ragazza che urlò. “Sono una contessa, come osate, vigliacco!” e fece per schiaffeggiare a sua volta l’uomo. Ma Glasdale afferrò con facilità l’esile polso con la sinistra, mentre con la destra estraeva dalla cintura un pugnale e ne appoggiò la punta sulla gola della ragazza, che al contatto del freddo acciaio sulla pelle, s’immobilizzò.

“Dunque conoscete le buone maniere, quando volete”, le alitò sul collo, “oppure preferite che vi sgozzi adesso, signora contessa? Privandomi così di tutta la soddisfazione che potrei ottenere da voi?” la irrise, scrollando teatralmente il capo.

 Poi fece scendere lentamente il rovescio della lama lungo la gola e poi lungo la scollatura della tunica della ragazza, mentre curvò ancora di più il capo verso di lei nel tentativo baciarle i capelli e il collo.

Isabeau era così terrorizzata da essere paralizzata dalla paura.

“Questi capelli”, mormorava inebriato l’uomo, “il loro profumo...”

Improvvisamente, Glasdale l’afferrò brutalmente con la mano libera, in modo da tenerla ferma, mentre Isabeau sentiva la disgustosa lingua dell’uomo posarsi su ogni lembo di pelle lasciato scoperto dalla tunica.

Il terrore raggiunse infine il suo parossismo e mentre esplodeva nella sua testa, frantumò la gabbia invisibile che l’aveva paralizzata. 

 Isabeau riuscì finalmente a urlare e graffiando e scalciando si divincolò dalla stretta dal suo aguzzino. Si voltò verso la porta, con uno scatto afferrò la maniglia e l’aprì.

Finì tra le braccia dalla guardia che aspettava dietro l’uscio.

“Per oggi la lezione è conclusa, sarete così cortese da tornare domani?”, la congedò Glasdale. La guardia sghignazzava mentre le stringeva i polsi con della corda ruvida e la trascinava nuovamente nelle prigioni.

Isabeau trattenne le lacrime finché il soldato non l’abbandonò nella cella.

Ian, amore mio, perché ci metti tanto? Perché non mi hai ancora tirato fuori di qui? Ti prego, ti scongiuro, fa presto…

Infine, ritirandosi in un angolo della cella, lontana da tutte le altre donne, fu libera di piangere, silenziosamente, soffocando i singhiozzi, senza che nessun’altra la confortasse o le domandasse cosa fosse successo. Tutte sapevano e la odiavano.

 

 

***

 

 

 

Il cibo consisteva in un pentolone di brodaglia e pezzi di pane duro di avena che galleggiavano dentro. Le guardie lo posarono all’entrata della cella insieme ad un secchio pieno d’acqua.

Le donne, affamate, si ammassarono intorno al tegame, afferrando ognuna un pezzo di pane nero che poi intingevano nel denso liquame.

Isabeau pur disgustata, non mangiava dal giorno precedente e quando fu il suo turno fece per afferrare un avanzo di pane.

“Tu no!” abbaiò contro di lei la donna che le era di fianco, serrando la mano intorno al suo polso.

Isabeau la guardò sorpresa, senza capire.

“Tu no!” ripeté con astio la donna, “Credi che non sappiamo perché sei salita su? Tu sei la sgualdrina del loro comandante!”, l’accusò davanti a tutte.

       Isabeau era così sconvolta da non riuscire nemmeno a difendersi. “Non è vero, io… ” articolò debolmente.

“Hai venduto il tuo bel corpo in cambio di qualche favore, non mentire!”

Altre donne annuirono e alcune di loro l’additarono con disprezzo.

“E’ una sgualdrina!”, urlò una seconda voce, “Il minimo che possiamo fare è prenderci la sua porzione di cibo!”

“E’ una spia degli inglesi!” suggerì un’altra.

“E’ già tanto se non ti uccidiamo con le nostre stesse mani, sgualdrina!”

Quasi tutte le donne dissero la loro e nessuna difese Isabeau.

Si rintanò ancora una volta nell’angolo più remoto e buio della prigione e dopo essersi seduta con la testa nascosta tra le ginocchia, pianse sommessamente finché, distrutta, cedette al sonno.

 

 

***

   

  

Le immagini sfuocate della stanza dov’era ricoverato, insieme ai volti sconosciuti di uomini e donne, affioravano a intervalli irregolari dal suo sogno, senza che Ian potesse in alcun modo comprenderle. In quei momenti udiva anche delle voci basse e preoccupate e sognava persino di mangiare e di bere un nettare meraviglioso, prima di crollare ancora in un torpore confuso.

Finché arrivò il giorno in cui, quando cercò di aprire gli occhi, le immagini si rivelarono più vivide, le nebbie nella sua testa si diradarono e la realtà, sorprendendolo, prese il posto del sogno.

Ian si guardò attorno non ricordando com’era finito in quella stanza, dagli arredi ricercati e lussuosi. C’era una giovane accanto a lui, appisolata su una sedia. Cercò Daniel, solo per accorgersi che non era lì.

Si aspettava di sentirsi debole, invece si rese conto che si sentiva stranamente in forma e non aveva fame. Provava solo una gran voglia di balzare in piedi e distendere i muscoli intorpiditi e così fece.

In quel momento, ridestata dal rumore, la giovane damigella seduta davanti al suo letto, spalancò gli occhi e lo spettacolo che vide davanti a sé le strappò un imbarazzato sorriso. L’uomo che aveva accudito così premurosamente in quei giorni, si era alzato dal suo giaciglio e si era appena accorto di essere nudo.

“Non vi disturbate per la mia presenza, Monsieur”, cercò di rassicurarlo, mentre Ian cercava goffamente di coprirsi con le lenzuola, strappandole dal letto, “chi credete si sia preso cura di voi in questi giorni?”

Ian la fissò per nulla meno imbarazzato da quella rivelazione.

“Avevate addosso lo stesso odore e lo stesso sudiciume di un cinghiale selvatico!”, lo accusò benevolmente, “Ma non potrei arrossire a vedervi nudo da sveglio, più di quando eravate nudo nel sonno” aggiunse, mentre le sue guance, a quel ricordo, la tradivano e si infiammavano. “Oh, ma credo che adesso vi porterò subito i vostri vestiti!”.

Ian riuscì solo a mormorare un grazie e non trovò di meglio che nascondersi nuovamente sotto le lenzuola, in impaziente attesa che la ragazza tornasse. Non sapeva nemmeno dove si trovava e a chi doveva quell’ospitalità.

La giovane tornò pochi istanti dopo, con in mano i vestiti di Ian accuratamente piegati e lavati.

“Aspetto fuori, chiamatemi quando avete finito di vestirvi!” e prima che Ian potesse rispondere, gli porse il fagotto e sparì dietro l’uscio, senza chiuderlo del tutto.

“Sono così contenta che vi siate ripreso!” esclamò poco dopo da dietro la porta, mentre Ian si stava frettolosamente rivestendo. “Proprio stasera è atteso il Signor Conte e lui sicuramente vi vorrà vedere in forze per rispondere alle sue domande”.

“Quali domande?” si stupì Ian, “per favore, Madamigelle, dove mi trovo?”

“Siete ovviamente alla Corte di Francia, signore!”

“Siamo al castello Chinon?” mormorò Ian, meravigliato, “per favore, chi mi ha portato qui? Non ricordo niente di quanto è successo”.

“Povero ragazzo! Siete arrivato qui due giorni fa. I cavalieri che scortavano la carrozza della contessa vi hanno trovato per strada, voi e il vostro amico, entrambi svenuti”.

“Daniel? Sta bene?”

“Il vostro amico non possiede la vostra corporatura, Monsieur”, si lasciò sfuggire la giovane, mentre ritornava con la mente a quando aveva strofinato con acqua tiepida e sapone i muscoli rilevati del ragazzo, “ma se la caverà senz’altro anche lui, è solo un po’ più debole di voi e adesso sta ancora riposando.”

“Vi sarò sempre immensamente grato e debitore, Madamigelle”.

Senza attendere che Ian le confermasse che si era rivestito, la giovane irruppe nuovamente nella stanza e si accostò a Ian, impegnatissimo a tirarsi su i calzoni.

“Oh, la signora contessa ha dei buoni motivi per avervi salvato la vita”, esclamò a bassa voce, mentre aiutava Ian con i lacci delle brache. Poi, fare da cospiratrice, gli bisbigliò all’orecchio:

 Madame sostiene che siete amico di suo figlio ma è anche convinta che voi abbiate tradito la sua fiducia e l’abbiate persino derubato! Cosa che io non credo affatto, naturalmente”, si affrettò ad aggiungere.

“Derubato?” esclamò sorpreso Ian, “La tua signora mi ha salvato la vita solo per farmi impiccare? Non capisco!”

“Ho ascoltato di nascosto, mentre Madame ripeteva alle guardie che sarà suo figlio, il Signor conte, a decidere la vostra sorte. Per questo lo ha mandato a chiamare! Ma il signor conte non ha potuto ancora recarsi qui, perché si dice che sia impegnato in qualcosa di importante! Dicono che è in riunione con l’erede al trono, Carlo VII!”  

“Ma io nemmeno conosco il signor conte!” ribatté Ian, sempre più confuso dalle parole della giovane.

“Lui vi ha descritto così bene alle guardie che vi hanno trovato, che credo vi conosca per forza, Monsieur! Magari l’avete conosciuto in battaglia, il giovane conte di Ponthieu…”

“Ponthieu!” Ian sbiancò nel sentire pronunciare quel nome. “Avete detto Ponthieu?”

“Visto?” sorrise lei con aria compiaciuta, “vi avevo detto che lo conoscevate, no? Dovreste fidarvi di più della vostra amica”, cinguettò la ragazza, atteggiando le labbra ad una finta espressione imbronciata.

 

 

***

           

 

Dal rumore e dalle voci concitate che udì provenire da dietro la porta, Ian intuì che il conte stava arrivando di gran corsa.

La porta si spalancò di colpo, trascinando con sé le parole ossequiose dei subalterni e le urla severe del conte. Una voce giovane ma autorevole, resa più profonda dall’elmo calato sul volto, comandò alle guardie di aspettarlo di fuori.

“Alla mia sicurezza so badare da solo!” ringhiò di nuovo il nobile, “fuori di qui, ho detto!” 

L’uomo, interamente rivestito da una splendida armatura decorata col motivo di un falco stilizzato, entrò, subito seguito da un ufficiale più esile ma ancora più elegante dentro la propria lucente corazza.

 Ian e la giovane damigella scattarono immediatamente in piedi, porgendo con deferenza i loro saluti al conte e poi all’uomo al suo seguito.

In silenzio, il conte fissò il ragazzo per molto tempo e Ian ne percepì dietro la fenditura dell’elmo, gli occhi celesti e indagatori che lo studiavano con severità. Il modo in cui quegli occhi lo scrutavano, gli ricordarono fin troppo quelli di Guillaume.

Cosa stava pensando? Aveva già compreso che non era lui l’uomo stava cercando? Come avrebbe giustificato al conte che lui era stato trovato in possesso del manoscritto con la storia del suo casato?

Per un attimo, ringraziò il cielo che Daniel fosse ancora troppo debole per sostenere un contraddittorio: se fosse stato costretto a inventare qualcosa per spiegare l’accaduto, la presenza dell’amico avrebbe potuto complicare la situazione.

L’uomo infine si rivolse alla damigella a fianco di Ian:

“I miei due ospiti adesso godono di buona salute, Sophie?”

La ragazza aveva così fretta di annuire, che rispose di si prima ancora che il conte avesse terminato di parlare.

“Bene, ora lasciaci da soli, per favore.”

“Come volete, mio signore.” La ragazza lanciò a Ian uno sguardo preoccupato e sembrò volesse aggiungere qualcosa, ma alla fine cambiò idea e sparì dietro alla porta.

Non appena la ragazza si fu allontanata, Ian prese finalmente la parola:

 “Innanzitutto, mi preme informarvi che prima che vostra madre mi salvasse la vita, stavo per recarmi proprio in questo luogo, per chiedervi di potermi unire ai cavalieri del vostro esercito”.

“Servirete senz’altro sotto il mio comando”, acconsentì sbrigativamente l’uomo.

Ian poteva scorgere dalla fessura sull’elmo, soltanto gli occhi attenti del feudatario, senza tuttavia indovinarne l’espressione. Facendosi coraggio, continuò: “Vi ringrazio infinitamente di avermi accordato questo privilegio e di esservi preso cura di me e del mio amico. Vi sarò eternamente debitore, mio signore. Riguardo invece il manoscritto…”

L’uomo non gli consentì nemmeno di concludere il suo discorso: “Sono io, invece, ad essere in debito con voi ed è motivo di gioia, poter finalmente cominciare a disobbligarmi, cavaliere”.

“Non sono sicuro di capire, signor conte…”

Il suo interlocutore alzò il palmo della mano aperta, per intimare a Ian di tacere.

“Voi mi avete già salvato più volte la vita, Monsieur. Ma non sarebbe servito a niente, poiché più di questo, col vostro esempio, voi avete contribuito a fare di me un uomo migliore.”

Ian non era sicuro di aver compreso appieno il senso della frase, era sconcertato e smarrito e temeva che il conte lo stesse ancora confondendo con qualcun altro che evidentemente gli somigliava.

Stava per ripeterlo al nobiluomo, quando questi si rivolse all’ufficiale a suo fianco e gli annunciò:

“Dinanzi a me vedete l’unico uomo, inglese o francese, al cui cospetto sono fiero di inginocchiarmi”.

Così dicendo, posò a terra un ginocchio e chinandosi davanti a uno Ian esterrefatto, si tolse lentamente il pesante elmo con l’effige del falco. Scrollò la scompigliata zazzera bionda, che si agitò per qualche istante nell’aria prima di ricadere arruffata sulla fronte.

“Ben tornato a casa, Falco d’Argento”, esclamò infine rivolto a Ian, con un sorriso colmo di emozione e di gioia.

Ian indugiò, ancora paralizzato da quella scoperta, sbalordito oltre ogni immaginazione.

“T-Ty?” balbettò ancora incredulo.

“Thierry de Ponthieu”, lo corresse lui, alludendo con un guizzo degli occhi al fatto che non erano soli. Poi Ty si alzò e lo avvolse in un abbraccio fraterno.

“So che hai un mucchio di cose da chiedermi, ma prima vorrei presentarti una persona”.

Ian osservò l’ufficiale che aveva di fronte, che intanto si stava liberando del proprio elmo.

E fu consapevole che si era sbagliato. Davanti a lui c’era una donna.

Anche se portava i capelli castani abbastanza corti per l’epoca, il taglio degli occhi, degli zigomi, le labbra, il collo sottile, rivelavano indubbiamente che era una ragazza, ancora giovanissima.

Ed era la prima donna che vedeva dentro un’armatura.

Ma la cosa che lo turbò di più, mentre la sua mente cominciava ad elaborare spontaneamente quelle informazioni, era l’aurea di autorità e di ingenua dolcezza che emanava, in splendido contrasto tra loro.

La ragazza avanzò di un passo e per compiacere il conte, di fronte ad un suo caro amico, si presentò porgendo il dorso della mano a Ian: “Il mio nome è Jeanne e provengo dalla regione della Lorena. Se voi siete amico del conte Thierry, vi prego di farmi l’onore di considerarmi anche vostra amica, Monsieur”.

Ian ghermì le dita affusolate della giovane e piegò il capo per sfiorarle il dorso della mano, senza che le parole che intendeva pronunciare, gli uscirono mai di bocca.

Di fronte, era impossibile sbagliarsi, aveva Giovanna D’Arco.


 

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hyperversum / Vai alla pagina dell'autore: Dean Lucas