Arrivarono a
Beaugency
solo nel pomeriggio del giorno successivo. La pioggia e il freddo
suggeriva
agli abitanti del borgo di stare rintanati nelle loro case o nelle loro
botteghe e i pochi uomini che incontrarono lungo le strade li
osservavano come
se stessero già rubando qualcosa col semplice respiro.
Daniel era
consapevole
che il loro aspetto era terribile, il sudiciume e il fango aveva
insozzato
tutti i loro vestiti e i loro volti erano adombrati dalla stanchezza e
dalla
barba incolta.
Vagarono un
po’ per le
strade semideserte e infine giunsero in vista della piazza. Dominava la
scena la
superba torre quadrata del dongione, alta oltre trenta metri e che
appariva già
antica e consumata dal tempo.
Lo stomaco di
Daniel
brontolò rumorosamente.
“Lo
so, dobbiamo
trovare il modo di sfamarci”.
“Se
tentassimo di
pescare qualcosa sul fiume?”
“E con
cosa, a mani
nude?” replicò Ian nervoso, “No,
piuttosto dobbiamo trovare un lavoro provvisorio,
qualunque cosa che ci permetta di guadagnarci la giornata, per poter
affrontare
il resto del viaggio per Chinon con qualche soldo in tasca”.
“D’accordo,
per me va bene”.
“Allora
rechiamoci in
una locanda, lì troveremo qualcuno a cui poter chiedere
informazioni”.
La locanda era
affollata,
poiché la pioggia aveva attirato gran parte degli uomini
lì dentro. Appena
entrati, furono piacevolmente accolti dall’aria tiepida del
locale pieno di
gente e dall’odore invitante del vino e del cibo.
Ian si
guardò un po’
intorno, raccogliendo gli sguardi torvi riservati ai viaggiatori poveri
e che
portavano una spada sul fianco. Si diresse diritto al bancone
dell’oste e
domandò:
“Cortesemente,
Monsieur, può indicarmi
come due giovani
desiderosi di guadagnarsi la giornata, possono trovare un lavoro onesto
in
questa città?”
L’uomo
inarcò un
sopracciglio e continuò a lavare un boccale, ignorando
completamente Ian.
Solo molto tempo
dopo,
quando ebbe riposto il boccale pulito e asciutto dietro il bancone,
l’oste si
rivolse finalmente a lui.
“Possedete
una imbarcazione adatta alla pesca
fluviale, straniero?”
“Mi
rincresce ma non
possiedo nient’altro che la forza delle mie braccia e la
voglia di lavorare
duro, signore.”
L’oste
si voltò allora verso
Daniel e l’osservò in tralice. Infine
ringhiò: “Il vostro amico somiglia
davvero molto a un dannatissimo inglese, viaggiatore”.
La parola
inglese
suscitò immediati mormorii tra la gente e molte voci
tacquero per ascoltare la conversazione
tra i due stranieri e l’oste.
“Lui
è mio fratello e
siamo francesi, Monsieur”.
“E chi
mi dice che non
siete invece dannate spie di Glasdale, che Dio lo maledica!”
“Quel
maledetto è il
mio nemico giurato!” s’inalberò Ian,
“lo ucciderò con le mie stesse mani quando
l’avrò nuovamente di fronte!”
Altri due uomini
si
erano avvicinati intorno a Daniel e lo squadravano in modo poco
raccomandabile.
“Non
sono inglese!”
sbottò alla fine Daniel, sentendosi tutti quegli occhi
addosso.
L’uomo
più vicino lo
spintonò con una mano, “Dimostralo. Vediamo di che
pasta sei fatto”, lo sfidò.
Con un movimento fulmineo tirò fuori un coltellaccio ricurvo
e si scagliò sul
ragazzo.
Ian si avvide
del
movimento furtivo che aveva compiuto l’uomo, quando si era
portato la mano sul
fianco per estrarre l’arma. Con una spallata
spostò l’amico dalla traiettoria
della lama che gli si avventava contro, mentre con la mano libera
sguainava la
spada che aveva raccolto a Rouvray.
L’uomo
stava già
alzando il braccio, nel tentativo di affondare un altro attacco contro
Daniel, ma
Ian lo precedette, puntandogli la punta della sua spada contro la gola.
L’assalitore sollevò anche l’altro
braccio in segno di resa e indietreggiò di
un passo.
“Non
abbiamo bisogno di
stranieri in questa città”, intervenne nuovamente
l’oste, che adesso era
occupato ad asciugare l’interno di un altro boccale,
“lasciate Beaugency, prima
che qualcun altro possa pensare che siete delle spie”.
Ian
abbassò lentamente
la spada e la rinfoderò nella sua guaina di cuoio.
“Non
vogliamo guai”,
sibilò infine, “ce ne andiamo”.
Un brusio di
voci
irritate lo accompagnarono finché non uscirono dalla locanda.
Fuori stava
piovendo.
“In
questa città non
troveremo che guai”.
Mentre
già si incamminavano, Daniel
borbottò:
“Dannazione,
perché mai tutti mi
devono credere una spia?”
“Bè,
almeno adesso sappiamo che nel
ruolo eri davvero credibile”, ammise Ian mentre un ghigno
divertito gli premeva
sulle labbra e lui, dopo tanti giorni in cui non aveva più
sorriso, finalmente
si sentì libero di ridere, accompagnato subito dopo da
Daniel.
Quella notte
trovarono ospitalità e
un frugale pasto alla chiesa abbaziale di Notre Dame di Beaugency, che
abbandonarono alle prime luci dell’alba. Mangiarono
lentamente, gustando ogni frammento
del pane di avena intinto in un denso brodame: parve ai due ragazzi il
cibo
migliore che avessero mai assaggiato da molto tempo, tanto erano
affamati.
***
Saint Laurent
Nouan era lontana
ancora una decina di chilometri e la tappa successiva, il castello dei
conti di
Blois, si trovava ad una distanza più che doppia.
Dopo
l’incidente alla locanda,
avevano deciso di evitare il più possibile i centri abitati
dove non vi erano
abbazie che potessero ospitarli. L’isterismo collettivo che
colpiva quelle
regioni aspramente contese tra inglesi e francesi, poteva facilmente
sfociare
in episodi di rabbia come quello accaduto alla locanda. Avevano
imparato che la
gente locale, nel migliore dei casi non si fidava dei viaggiatori
stranieri.
Nel peggiore o più semplicemente nel dubbio, li uccideva.
Bivaccarono tra
i margini della
strada e il corso del fiume per un periodo che presto non furono
più in grado
di determinare: il cielo era sempre buio anche quando non pioveva e le
notti erano
sempre fredde.
Ian e Daniel
impararono a riconoscere
i canali di acqua dolce che confluivano nel fiume da quelli
d’acqua salata.
La composizione
della vegetazione era
infatti completamente differente nei due casi, a causa della resistenza
al sale
e, ovviamente, erano diverse le specie animali che li popolavano: rane,
rospi e
piccoli pesciolini d'acqua dolce in un caso, conchiglie che i locali
chiamavano
coque de marais, gamberetti piccoli
e
trasparenti, échilettes e pesciolini di mare nell'altro.
L’acqua
del fiume era gravida delle
piogge e defluiva con troppo impeto per far sperare ai due ragazzi di
catturare
con i loro mezzi primitivi i piccoli e sfuggenti pesci. E presto
riconobbero
che senza un battello, non avrebbero mai potuto pescare nulla nei
canali
d’acqua salata. Dopo che ebbero esaurito le scorte di pesce
essiccato, si
nutrirono soprattutto di piccole rane, ogni giorno più
disposti a cibarsi di
ciò che il giorno precedente avevano disdegnato con ribrezzo.
Quando
finalmente giunsero, sfiniti,
in vista delle imponenti guglie del castello di Chaumont, Ian si rese
conto che
non rammentava più quanti giorni erano trascorsi da quando
avevano abbandonato
Beaugency. Forse un paio, probabilmente molti di più.
Sebbene, ormai,
era soltanto la forza
di volontà a trascinarlo avanti, dopo che le forze lo
avevano lasciato, Ian
osservò con estremo interesse quella fortezza leggendaria,
che in capo a pochi
decenni sarebbe stata incendiata da Luigi IX, come monito a Pietro
d'Amboise, per la sua
partecipazione alla Lega
del bene pubblico.
In quel luogo
avrebbero dimorato Caterina
de Medici e Nostradamus e per uno storico qual era lui, osservare il
castello,
nella sua realizzazione originale, fu un’emozione che lo
distrasse per qualche
tempo dalle angosce e dalla fame.
Le torri di
Chaumont erano già
scomparse all’orizzonte da molto tempo, quando la via che
costeggiava quel
versante della Loira, lambì i confini di un’altra
celebre fortezza: il
castello di Amboise.
Era uno dei
più imponenti che Ian
avesse mai visto. Qualche decennio più tardi qui avrebbe
trovato i natali e la
morte, re Carlo VIII, l'ultimo esponente del ramo più antico
della dinastia
dei Valois. Ian conosceva
l’aneddoto che voleva
che il re fosse morto battendo la testa contro un architrave in pietra
di una
porta, mentre giocava al jeu de paume,
il gioco antesignano dell’attuale tennis.
Ma
più di questo, il castello doveva
la sua leggenda a un altro personaggio che avrebbe ospitato: Leonardo
da Vinci
visse ad Amboise fino alla morte, avvenuta come Ian si ricordava nel 1519 e venne
successivamente sepolto
nella cappella Saint-Hubert, all’interno del corpo principale
della costruzione.
Ian si concesse
un sorriso al pensiero
di poter incontrare Leonardo in persona e poi fantasticò di
raccontargli la sua
vera storia, nella certezza che se esisteva un uomo in
quell’epoca che avrebbe
trovato interessante la sua vita e l’avrebbe creduto, sarebbe
stato proprio
Leonardo Da Vinci.
***
Les Tourelles
assomigliava alla copia
ridotta del corpo centrale di un castello: quattro torri
all’estremità di ogni
lato sorvegliavano a nord, il ponte che congiungeva la fortezza alla
città di
Orléans, mentre a sud, vigilavano sugli ampi territori
dinanzi alla Loira.
Incatenate per
le caviglie una
all’altra, le donne proseguirono in fila, inciampando e
urtandosi a vicenda
fino alle segrete della bastia. La paura, più del freddo, le
raggelò quando si
addentrarono nelle viscere della fortezza, scendendo fin dove solo le
torce dei
loro carcerieri potevano illuminare le umide mura di rozza pietra delle
prigioni, mentre tutt’intorno regnava una tenebra spessa e
ostile.
All’improvviso
le torce rischiararono
altri volti, quelli già scavati e spenti di altre donne, che
le avevano
precedute nella sventura. Le guardie trascinarono il gruppetto con
Isabeau in
una grande cella proprio di fronte a quella delle altre recluse.
Il
pavimento era ricoperto da uno strato di sordido
pagliericcio dall’odore ripugnante. Isabeau
immaginò che fosse l’odore pungente
dell’urina di coloro che avevano occupato la cella prima di
loro.
Dopo che furono
entrate tutte, la
guardia provvide e sganciare i morsi di ferro alle caviglie. Le donne,
finalmente libere, si accovacciarono all’estremità
più buia della prigione,
occupando un posto che per molte sarebbe stato loro fino al resto dei
propri giorni.
Isabeau stava per scegliersi un cantuccio, quando una guardia la
trattenne
rudemente per il polso e sibilò:
“Tu,
bellezza, vieni con noi.” La bassa
voce maschile spaventò Isabeau,
“Perché, dove volete portarmi?”
“Tu
sei fortunata, non morirai tra i
tuoi stessi escrementi come queste cagne. Lord Glasdale vuole
conoscerti”, le
sorrise oscenamente l’uomo, scostandole una lunga ciocca di
capelli e
stropicciandosela tra le dita, “se sarai brava, lui
saprà ricompensarti,
vedrai…”
Non
servì a nulla tentare di
divincolarsi: una morsa più fredda e più stretta
dell’acciaio, che prima le
aveva addentato le caviglie, l’afferrò e la
trascinò brutalmente in
superficie.
***
Chinon doveva
distare solo qualche giornata
di marcia. Da giorni andavano avanti e basta, per inerzia, senza
scambiarsi una
parola, sapendo soltanto che dovevano camminare fino
all’estremo delle loro
forze, senza fermarsi. Non consumavano un vero pasto da quando il gioco
li
aveva scaraventati a Rouvray e nell’ultimo tratto, non
avevano più trovato
canali d’acqua dolce per cacciare un po’ di cibo.
Avevano teso i loro corpi
all’estremo ed erano entrambi consapevoli che erano ormai
prossimi al punto di
rottura.
Il freddo, che
durante la notte
diveniva insopportabile, era penetrato a fondo fino alle ossa e
sembrava che
non dovesse più abbandonarli, nemmeno quando riuscivano ad
accendere un fuoco e
si riscaldavano davanti alle fiamme.
Quando uno di
loro crollava a terra
per la stanchezza, allora cercavano un giaciglio di fortuna dove
potersi
distendere e giacevano lì fino all’alba del giorno
successivo, quando avrebbero
ripreso il loro viaggio.
Erano in cammino
già da molte ore,
senza aver messo ancora niente sotto i denti, quando Ian
inciampò in qualche
ostacolo e cadde bocconi a terra, sul terreno fangoso. Non si
rialzò.
Nello stesso
istante in
cui Daniel comandò alle gambe di piegarsi per aiutare Ian,
le ginocchia tradirono
anche lui, gettandolo a carponi nel fango. Sfinito, si
trascinò fino a Ian, con
la mente così annebbiata, che non era sicuro se si trattava
di un sogno o della
realtà.
Daniel stava
pensando a
Jodie e Alex, il loro pensiero era così dolce e aveva voglia
di addormentarsi e
sognarle ancora, per sempre. Fece per alzarsi dal fango, ma le sue
ginocchia
erano inchiodate al suolo. Tentò un secondo sforzo,
aiutandosi con le braccia,
ma non si mosse. Era stanco come non lo era mai stato, doveva dormire,
riposarsi, si disse, così avrebbe trovato le forze per
rialzarsi. Finalmente si
accostò a Ian e si accasciò sulla spalla
dell’amico.
“Daniel!
Daniel!” lo
scosse il ragazzo, “non è questo il momento per
arrendersi, andiamo, l’ultimo
sforzo… Chinon ormai non può essere
lontana!” Daniel sembrava svenuto e nemmeno
lui aveva più la forza per rialzarsi.
Sapeva che erano
vicini
alla loro meta, forse solo un giorno o due di marcia, ma ogni passo
adesso
costava una fatica insopportabile. Non avevano più nemmeno
la forza per disperarsi.
Il tempo
passò ancora senza
poterlo misurare, trascorsero forse solo pochi secondi oppure ore, Ian
non
poteva dirlo. Udiva adesso un altro rumore oltre alla pioggia
incessante, un
picchiettio di cui non capiva la provenienza. Finché si
accorse che Daniel
tremava e il freddo gli faceva battere freneticamente i denti. Un gelo
dolce e
vacuo si stava impadronendo anche di lui, gravido di promesse che lo
avrebbero
finalmente liberato dal dolore insopportabile, dalla fame, dal freddo,
dalla
pesantezza di vivere.
Passò
altro tempo,
incalcolabile ed eterno, finché ogni rumore perse
importanza. Non sentiva più
la gelida pioggia bagnarlo, tuttavia non era sicuro che avesse smesso
di
piovere. Non sentì più il freddo, ma non era
sicuro che il sole lo stesse scaldando.
Percepiva solo abbandono e oblio. Persino Isabeau era un ricordo
distante,
confuso insieme a tanti altri ricordi sfumati.
Isabeau. Forse si
sarebbero finalmente incontrati in un mondo tiepido e asciutto,
dove non esistevano nemici o sofferenza. Il pensiero lo fece sorridere
debolmente. Ma, ancora, gli era impossibile dire se stesse ridendo
davvero o se
stesso solo sognando di farlo.
E poi, in quel
sogno,
comparvero all’improvviso dei cavalli, purosangue bianchi e
maestosi. Cavalcati
da cavalieri altrettanto splendidi e lucenti. Un uomo o forse un angelo
luminoso, gli parlò e così pure un altro.
Ian non li
poteva udire
e quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era uno
di quei sogni dove
non è concesso parlare, poiché dalla sua voce non
uscì nulla.
Intravide la
prima
figura toccare Daniel con un’asta luccicante.
L’amico era ancora accovacciato
contro la sua spalla, ma quando l’uomo lo toccò,
Daniel come un oggetto
inanimato, si staccò orribilmente da lui e rotolò
a terra.
Ian fece per
urlare, ma
ancora una volta il sogno non glielo permise.
Fu quando Daniel
si
accasciò a terra su un fianco, che una delle due figure
scorse il borsone di
pelle che portava sulla spalla: dall’apertura sporgeva
qualcosa che Ian
ricordava di aver già visto, ma non ricordò dove.
Una voce nella
mente
bisbigliava che quell’oggetto era importante per lui, che lo
doveva proteggere,
ma non si rammentò perché.
Invece,
osservò
impotente quell’essere mentre apriva completamente la borsa e
con vivo stupore ne
trascinava fuori un pesante manoscritto. Vide il suo volto stravolgersi
non
appena lo girò tra le mani e ne scorse la copertina,
indicandola al suo
compagno, che replicò la stessa espressione incredula.
Alla vista del
codice
miniato, il sogno sembrò farsi più vivido, i suoi
occhi misero pigramente a
fuoco i colori e i mantelli bianco e azzurro delle due figure.
All’improvviso braccia
robuste lo issarono su un cavallo.
“Un
uomo dall’altezza
insolita e dal fisico possente, coi capelli neri insieme ad un altro
coi
capelli chiari e corti…”
“Il
figlio della
Contessa aveva assicurato che ci sarebbe stata anche una
donna.”
“Ma
d’altronde, questo
manoscritto…”
“Cosa
succede lì fuori?
Perché ci siamo fermati?” intervenne una voce
autorevole dietro di loro. La
donna era scesa dalla carrozza e tirandosi le sottovesti fin quasi al
ginocchio,
per non farle sporcare nel fango, veniva adesso incontro alle due
guardie.
“Allora?
Cosa succede?”
volle sapere spazientita.
“Abbiamo
trovato questi
viaggiatori in mezzo alla via, Signora Contessa. Erano come morti e ci
siamo
fermati per controllare che non vi fosse pericolo per la vostra
sicurezza, Madame.”
“Per
quale motivo li
avete tirati sopra i cavalli? Non intendo rallentare la nostra marcia a
causa
di due sconosciuti moribondi! Abbandonateli dove li avete trovati, per
l’amor
del cielo!”
Si era
già voltata
indietro per risalire sulla carrozza, quando la raggiunse la voce di
una delle
guardie: “Scusate, Madame,
credo che
prima dobbiate vedere questo”.
Quando
l’uomo porse
alla contessa il pesante manoscritto, Caroline de Ponthieu
sbiancò. Quello era
l’oggetto che il suo benamato marito custodiva come un tesoro
e che amava
moltissimo.
“Come
possono averlo loro?”
strillò la donna.
“Non
possiamo esserne
sicuri, Madame, ma credo che il
signor conte vostro figlio conosca queste due persone. Prima di
mettersi in
viaggio per scortare quella donna a corte”, spiegò
il soldato, “aveva fornito
una descrizione nel caso uno di noi si imbattesse negli amici che gli
avevano
salvato la vita e costoro”, l’armato
indicò i due corpi adagiati sui cavalli
che trainavano la carrozza, “corrispondono alla descrizione.
Se vogliamo
conoscere la verità, dobbiamo portarli con noi a
Chinon.”
***
“Milord?”
la guardia che trascinava
con sé Isabeau bussò nuovamente alla porta.
“Entrate!”,
sibilò una voce burbera da dietro
l’uscio.
L’uomo
dischiuse la porta e spintonò
in avanti la ragazza che, incespicando, entrò nella stanza.
“Andate
via, ora”, ordinò. Lord Glasdale
era seduto di spalle con la testa china sopra un manoscritto e non si
era
nemmeno voltato. La guardia, facendo un lieve inchino,
indietreggiò di qualche
passo e poi chiudendo l’uscio, sparì.
L’ufficio
del comandante della
fortezza era arredato sontuosamente e a parte le dimensioni, non aveva
nulla da
invidiare alle stanze nobiliari di un castello.
Finalmente
l’uomo si alzò e si
avvicinò a Isabeau per osservarla da vicino.
Restò in silenzio, girandole
intorno e studiandola attentamente per molto tempo, con aria
soddisfatta.
“Una
puledra di razza purissima”,
commentò infine l’uomo. “Nemmeno
conoscevo l’esistenza del purosangue
francese!”, esclamò compiaciuto, più a
se stesso che rivolto alla ragazza.
Per tutta
risposta, Isabeau si voltò
fino ad incrociarne gli sguardi e fissandolo diritto negli occhi con
evidente
disprezzo, gli sputò addosso, colpendolo di striscio sul
volto.
Lord Glasdale,
non si scompose, anzi
sembrò divertito. Isabeau era pronta ad affrontare la sua
collera, ma l’inglese
invece scoppiò in una gran risata.
“Rispetto
il temperamento sanguigno
di una purosangue”, aggiunse beffardo, “non provo
gusto nella doma di una
puledra remissiva”.
“Io
invece non vi rispetto affatto!”,
lo aggredì Isabeau, “Quali intenzioni avete,
perché mi avete fatto condurre
qui?”
L’uomo
le mostrò un sorriso storto
che raggelò la ragazza. “Voi siete di mia
proprietà adesso, ciò che intendo
fare con voi non vi riguarda. Lo farete e basta”,
sibilò subito dopo.
“Voi
non siete un uomo! Che Dio possa
avere pietà della vostra misera anima, Monsieur”.
L’uomo
lasciò balenare negli occhi un
moto di irritazione poi indugiò ancora pensoso su di lei,
“Siete ancora selvaggia,
ma vi domerò, siatene certa”
“Preferirei
morire piuttosto”.
“E
sarete accontentata, se lo
desiderate. Ma non prima di avermi soddisfatto”,
così dicendo le afferrò il
braccio e la trasse a sé con forza. Isabeau, agì
d’istinto, piegò il capo e
affondò i denti sull’avambraccio
dell’uomo, che strillò di dolore.
Glasdale si
scostò bruscamente e si
guardò incredulo la tunica lacerata che stillava sangue.
Inferocito, schiaffeggiò
Isabeau con un manrovescio e poi col palmo aperto della mano,
lasciandola
stordita.
“Non
ho dubbi che mi obbedirete,
sgualdrina!”
L’insulto
fece tornare in sé la
ragazza che urlò. “Sono una contessa, come osate,
vigliacco!” e fece per
schiaffeggiare a sua volta l’uomo. Ma Glasdale
afferrò con facilità l’esile
polso con la sinistra, mentre con la destra estraeva dalla cintura un
pugnale e
ne appoggiò la punta sulla gola della ragazza, che al
contatto del freddo
acciaio sulla pelle, s’immobilizzò.
“Dunque
conoscete le buone maniere,
quando volete”, le alitò sul collo,
“oppure preferite che vi sgozzi adesso,
signora contessa? Privandomi così di tutta la soddisfazione
che potrei ottenere
da voi?” la irrise, scrollando teatralmente il capo.
Poi
fece scendere lentamente il rovescio della
lama lungo la gola e poi lungo la scollatura della tunica della
ragazza, mentre
curvò ancora di più il capo verso di lei nel
tentativo baciarle i capelli e il
collo.
Isabeau era
così terrorizzata da
essere paralizzata dalla paura.
“Questi
capelli”, mormorava inebriato
l’uomo, “il loro profumo...”
Improvvisamente,
Glasdale l’afferrò brutalmente
con la mano libera, in modo da tenerla ferma, mentre Isabeau sentiva la
disgustosa lingua dell’uomo posarsi su ogni lembo di pelle
lasciato scoperto
dalla tunica.
Il terrore
raggiunse infine il suo
parossismo e mentre esplodeva nella sua testa, frantumò la
gabbia invisibile
che l’aveva paralizzata.
Isabeau
riuscì finalmente a urlare e graffiando
e scalciando si divincolò dalla stretta dal suo aguzzino. Si
voltò verso la
porta, con uno scatto afferrò la maniglia e
l’aprì.
Finì
tra le braccia dalla guardia che
aspettava dietro l’uscio.
“Per
oggi la lezione è conclusa, sarete
così cortese da tornare domani?”, la
congedò Glasdale. La guardia sghignazzava
mentre le stringeva i polsi con della corda ruvida e la trascinava
nuovamente
nelle prigioni.
Isabeau
trattenne le lacrime finché
il soldato non l’abbandonò nella cella.
Ian,
amore mio, perché ci metti tanto? Perché non mi
hai ancora tirato fuori
di qui? Ti prego, ti scongiuro, fa presto…
Infine,
ritirandosi in un angolo
della cella, lontana da tutte le altre donne, fu libera di piangere,
silenziosamente, soffocando i singhiozzi, senza che
nessun’altra la confortasse
o le domandasse cosa fosse successo. Tutte sapevano e la odiavano.
***
Il cibo
consisteva in un pentolone di
brodaglia e pezzi di pane duro di avena che galleggiavano dentro. Le
guardie lo
posarono all’entrata della cella insieme ad un secchio pieno
d’acqua.
Le donne,
affamate, si ammassarono
intorno al tegame, afferrando ognuna un pezzo di pane nero che poi
intingevano
nel denso liquame.
Isabeau pur
disgustata, non mangiava
dal giorno precedente e quando fu il suo turno fece per afferrare un
avanzo di
pane.
“Tu
no!” abbaiò contro di lei la
donna che le era di fianco, serrando la mano intorno al suo polso.
Isabeau la
guardò sorpresa, senza
capire.
“Tu
no!” ripeté con astio la donna, “Credi
che non sappiamo perché sei salita su? Tu sei la sgualdrina
del loro
comandante!”, l’accusò davanti a tutte.
Isabeau
era così sconvolta da non riuscire nemmeno a difendersi.
“Non è vero, io… ”
articolò debolmente.
“Hai
venduto il tuo bel corpo in
cambio di qualche favore, non mentire!”
Altre donne
annuirono e alcune di
loro l’additarono con disprezzo.
“E’
una sgualdrina!”, urlò una
seconda voce, “Il minimo che possiamo fare è
prenderci la sua porzione di cibo!”
“E’
una spia degli inglesi!” suggerì
un’altra.
“E’
già tanto se non ti uccidiamo con
le nostre stesse mani, sgualdrina!”
Quasi tutte le
donne dissero la loro
e nessuna difese Isabeau.
Si
rintanò ancora una volta nell’angolo
più remoto e buio della prigione e dopo essersi seduta con
la testa nascosta
tra le ginocchia, pianse sommessamente finché, distrutta,
cedette al sonno.
***
Le immagini
sfuocate della stanza
dov’era ricoverato, insieme ai volti sconosciuti di uomini e
donne, affioravano
a intervalli irregolari dal suo sogno, senza che Ian potesse in alcun
modo
comprenderle. In quei momenti udiva anche delle voci basse e
preoccupate e
sognava persino di mangiare e di bere un nettare meraviglioso, prima di
crollare ancora in un torpore confuso.
Finché
arrivò il giorno in cui,
quando cercò di aprire gli occhi, le immagini si rivelarono
più vivide, le
nebbie nella sua testa si diradarono e la realtà,
sorprendendolo, prese il
posto del sogno.
Ian si
guardò attorno non ricordando
com’era finito in quella stanza, dagli arredi ricercati e
lussuosi. C’era una
giovane accanto a lui, appisolata su una sedia. Cercò
Daniel, solo per accorgersi
che non era lì.
Si aspettava di
sentirsi debole,
invece si rese conto che si sentiva stranamente in forma e non aveva
fame.
Provava solo una gran voglia di balzare in piedi e distendere i muscoli
intorpiditi e così fece.
In quel momento,
ridestata dal
rumore, la giovane damigella seduta davanti al suo letto,
spalancò gli occhi e lo
spettacolo che vide davanti a sé le strappò un
imbarazzato sorriso. L’uomo che
aveva accudito così premurosamente in quei giorni, si era
alzato dal suo
giaciglio e si era appena accorto di essere nudo.
“Non
vi disturbate per la mia
presenza, Monsieur”,
cercò di
rassicurarlo, mentre Ian cercava goffamente di coprirsi con le
lenzuola,
strappandole dal letto, “chi credete si sia preso cura di voi
in questi giorni?”
Ian la
fissò per nulla meno
imbarazzato da quella rivelazione.
“Avevate
addosso lo stesso odore e lo
stesso sudiciume di un cinghiale selvatico!”, lo
accusò benevolmente, “Ma non
potrei arrossire a vedervi nudo da sveglio, più di quando
eravate nudo nel
sonno” aggiunse, mentre le sue guance, a quel ricordo, la
tradivano e si
infiammavano. “Oh, ma credo che adesso vi porterò
subito i vostri vestiti!”.
Ian
riuscì solo a mormorare un grazie
e non trovò di meglio che nascondersi nuovamente sotto le
lenzuola, in impaziente
attesa che la ragazza tornasse. Non sapeva nemmeno dove si trovava e a
chi
doveva quell’ospitalità.
La giovane
tornò pochi istanti dopo,
con in mano i vestiti di Ian accuratamente piegati e lavati.
“Aspetto
fuori, chiamatemi quando
avete finito di vestirvi!” e prima che Ian potesse
rispondere, gli porse il
fagotto e sparì dietro l’uscio, senza chiuderlo
del tutto.
“Sono
così contenta che vi siate
ripreso!” esclamò poco dopo da dietro la porta,
mentre Ian si stava
frettolosamente rivestendo. “Proprio stasera è
atteso il Signor Conte e lui
sicuramente vi vorrà vedere in forze per rispondere alle sue
domande”.
“Quali
domande?” si stupì Ian, “per
favore, Madamigelle, dove mi
trovo?”
“Siete
ovviamente alla Corte di
Francia, signore!”
“Siamo
al castello Chinon?” mormorò Ian,
meravigliato, “per favore, chi mi ha portato qui? Non ricordo
niente di quanto
è successo”.
“Povero
ragazzo! Siete arrivato qui
due giorni fa. I cavalieri che scortavano la carrozza della contessa vi
hanno
trovato per strada, voi e il vostro amico, entrambi svenuti”.
“Daniel?
Sta bene?”
“Il
vostro amico non possiede la
vostra corporatura, Monsieur”,
si
lasciò sfuggire la giovane, mentre ritornava con la mente a
quando aveva
strofinato con acqua tiepida e sapone i muscoli rilevati del ragazzo,
“ma se la
caverà senz’altro anche lui, è solo un
po’ più debole di voi e adesso sta
ancora riposando.”
“Vi
sarò sempre immensamente grato e debitore,
Madamigelle”.
Senza attendere
che Ian le
confermasse che si era rivestito, la giovane irruppe nuovamente nella
stanza e
si accostò a Ian, impegnatissimo a tirarsi su i calzoni.
“Oh,
la signora contessa ha dei buoni
motivi per avervi salvato la vita”, esclamò a
bassa voce, mentre aiutava Ian
con i lacci delle brache. Poi, fare da cospiratrice, gli
bisbigliò all’orecchio:
”Madame
sostiene che siete amico di suo figlio ma è anche convinta
che voi abbiate
tradito la sua fiducia e l’abbiate persino derubato! Cosa che
io non credo
affatto, naturalmente”, si affrettò ad aggiungere.
“Derubato?”
esclamò sorpreso Ian, “La
tua signora mi ha salvato la vita solo per farmi impiccare? Non
capisco!”
“Ho
ascoltato di nascosto, mentre Madame
ripeteva alle guardie che sarà
suo figlio, il Signor conte, a decidere la vostra sorte. Per questo lo
ha
mandato a chiamare! Ma il signor conte non ha potuto ancora recarsi
qui, perché
si dice che sia impegnato in qualcosa di importante! Dicono che
è in riunione con
l’erede al trono, Carlo VII!”
“Ma io
nemmeno conosco il signor
conte!” ribatté Ian, sempre più confuso
dalle parole della giovane.
“Lui
vi ha descritto così bene alle
guardie che vi hanno trovato, che credo vi conosca per forza, Monsieur! Magari l’avete
conosciuto in
battaglia, il giovane conte di Ponthieu…”
“Ponthieu!”
Ian sbiancò nel sentire
pronunciare quel nome. “Avete detto Ponthieu?”
“Visto?”
sorrise lei con aria
compiaciuta, “vi avevo detto che lo conoscevate, no? Dovreste
fidarvi di più della
vostra amica”, cinguettò la ragazza, atteggiando
le labbra ad una finta
espressione imbronciata.
***
Dal rumore e
dalle voci concitate che
udì provenire da dietro la porta, Ian intuì che
il conte stava arrivando di
gran corsa.
La porta si
spalancò di colpo, trascinando
con sé le parole ossequiose dei subalterni e le urla severe
del conte. Una voce
giovane ma autorevole, resa più profonda dall’elmo
calato sul volto, comandò
alle guardie di aspettarlo di fuori.
“Alla
mia sicurezza so badare da
solo!” ringhiò di nuovo il nobile,
“fuori di qui, ho detto!”
L’uomo,
interamente rivestito da una
splendida armatura decorata col motivo di un falco stilizzato,
entrò, subito
seguito da un ufficiale più esile ma ancora più
elegante dentro la propria
lucente corazza.
Ian
e la giovane damigella scattarono
immediatamente in piedi, porgendo con deferenza i loro saluti al conte
e poi
all’uomo al suo seguito.
In silenzio, il
conte fissò il
ragazzo per molto tempo e Ian ne percepì dietro la fenditura
dell’elmo, gli
occhi celesti e indagatori che lo studiavano con severità.
Il modo in cui
quegli occhi lo scrutavano, gli ricordarono fin troppo quelli di
Guillaume.
Cosa stava
pensando? Aveva già
compreso che non era lui l’uomo stava cercando? Come avrebbe
giustificato al
conte che lui era stato trovato in possesso del manoscritto con la
storia del suo
casato?
Per un attimo,
ringraziò il cielo che
Daniel fosse ancora troppo debole per sostenere un contraddittorio: se
fosse
stato costretto a inventare qualcosa per spiegare l’accaduto,
la presenza
dell’amico avrebbe potuto complicare la situazione.
L’uomo
infine si rivolse alla
damigella a fianco di Ian:
“I
miei due ospiti adesso godono di
buona salute, Sophie?”
La ragazza aveva
così fretta di
annuire, che rispose di si prima ancora che il conte avesse terminato
di
parlare.
“Bene,
ora lasciaci da soli, per
favore.”
“Come
volete, mio signore.” La
ragazza lanciò a Ian uno sguardo preoccupato e
sembrò volesse aggiungere
qualcosa, ma alla fine cambiò idea e sparì dietro
alla porta.
Non appena la
ragazza si fu
allontanata, Ian prese finalmente la parola:
“Innanzitutto,
mi preme informarvi che prima
che vostra madre mi salvasse la vita, stavo per recarmi proprio in
questo
luogo, per chiedervi di potermi unire ai cavalieri del vostro
esercito”.
“Servirete
senz’altro sotto il mio
comando”, acconsentì sbrigativamente
l’uomo.
Ian poteva
scorgere dalla fessura
sull’elmo, soltanto gli occhi attenti del feudatario, senza
tuttavia
indovinarne l’espressione. Facendosi coraggio,
continuò: “Vi ringrazio
infinitamente di avermi accordato questo privilegio e di esservi preso
cura di
me e del mio amico. Vi sarò eternamente debitore, mio
signore. Riguardo invece
il manoscritto…”
L’uomo
non gli consentì nemmeno di
concludere il suo discorso: “Sono io, invece, ad essere in
debito con voi ed è
motivo di gioia, poter finalmente cominciare a disobbligarmi,
cavaliere”.
“Non
sono sicuro di capire, signor
conte…”
Il suo
interlocutore alzò il palmo
della mano aperta, per intimare a Ian di tacere.
“Voi
mi avete già salvato più volte
la vita, Monsieur. Ma non sarebbe
servito a niente, poiché più di questo, col
vostro esempio, voi avete contribuito
a fare di me un uomo migliore.”
Ian non era
sicuro di aver compreso
appieno il senso della frase, era sconcertato e smarrito e temeva che
il conte
lo stesse ancora confondendo con qualcun altro che evidentemente gli
somigliava.
Stava per
ripeterlo al nobiluomo,
quando questi si rivolse all’ufficiale a suo fianco e gli
annunciò:
“Dinanzi
a me vedete l’unico uomo, inglese
o francese, al cui cospetto sono fiero di inginocchiarmi”.
Così
dicendo, posò a terra un
ginocchio e chinandosi davanti a uno Ian esterrefatto, si tolse
lentamente il
pesante elmo con l’effige del falco. Scrollò la
scompigliata zazzera bionda,
che si agitò per qualche istante nell’aria prima
di ricadere arruffata sulla
fronte.
“Ben
tornato a casa, Falco d’Argento”,
esclamò infine rivolto a Ian, con un sorriso colmo di
emozione e di gioia.
Ian
indugiò, ancora paralizzato da
quella scoperta, sbalordito oltre ogni immaginazione.
“T-Ty?”
balbettò ancora incredulo.
“Thierry
de Ponthieu”, lo corresse
lui, alludendo con un guizzo degli occhi al fatto che non erano soli.
Poi Ty si
alzò e lo avvolse in un abbraccio fraterno.
“So
che hai un mucchio di cose da
chiedermi, ma prima vorrei presentarti una persona”.
Ian
osservò l’ufficiale che aveva di
fronte, che intanto si stava liberando del proprio elmo.
E fu consapevole
che si era
sbagliato. Davanti a lui c’era una donna.
Anche se portava
i capelli castani
abbastanza corti per l’epoca, il taglio degli occhi, degli
zigomi, le labbra,
il collo sottile, rivelavano indubbiamente che era una ragazza, ancora
giovanissima.
Ed era la prima
donna che vedeva
dentro un’armatura.
Ma la cosa che
lo turbò di più,
mentre la sua mente cominciava ad elaborare spontaneamente quelle
informazioni,
era l’aurea di autorità e di ingenua dolcezza che
emanava, in splendido
contrasto tra loro.
La ragazza
avanzò di un passo e per
compiacere il conte, di fronte ad un suo caro amico, si
presentò porgendo il
dorso della mano a Ian: “Il mio nome è Jeanne e
provengo dalla regione della
Lorena. Se voi siete amico del conte Thierry, vi prego di farmi
l’onore di
considerarmi anche vostra amica, Monsieur”.
Ian
ghermì le dita affusolate della
giovane e piegò il capo per sfiorarle il dorso della mano,
senza che le parole che
intendeva pronunciare, gli uscirono mai di bocca.
Di fronte, era impossibile sbagliarsi, aveva Giovanna D’Arco.