Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: BBV    07/10/2010    7 recensioni
A diciotto anni, la vita di Victoria Hamilton
è stata completamente stravolta da un brutto incidente,
che l'ha portata a trasformarsi in una teenager ribelle e sfacciata.
Sua madre decide di mandarla a vivere dal padre e dalla sua nuova famiglia: una moglie e due figlie.
Insieme a suo fratello Shane parte per Longwood, un piccolo paese sperduto del Wisconsin.
Per Victoria è l'inizio di un incubo, un incubo dove appare Nathan,
un ragazzo presuntuoso e irruente, il ragazzo della sua sorellastra.
Un ragazzo che con prepotenza, arroganza e gesti folli riesce a sconvolgerle la vita.
«Se non mi dici il tuo nome, io mi butto», strillò ancora, facendomi sobbalzare.
«Victoria», gridai con quanto fiato avevo in gola. «Il mio nome è Victoria».
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie ''The Rain Series''
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Capitolo 3
"Sconosciuta"

 



 

Mi aveva spaventato la mia stessa reazione. Non potevo esserci rimasta così male. In realtà si, mi aveva sorpreso scoprire che quel bellissimo e arrogante ragazzo, fosse il bellissimo e arrogante ragazzo di Emma, ma non potevo essere addirittura dispiaciuta per questo, non ce ne era motivo. Ma le cose si complicavano. D’altronde era lui che dovevo aiutare ad aggiustare la moto che gli avevo rovinato, probabilmente conosceva benissimo mio padre, e grazie ad Emma avrebbe potuto sapere il mio nome. Oh diavolo, Vic!, urlai alla me stessa nello specchio del bagno. Mi ero impuntata, peggio di una bambina, che Nathan non dovesse sapere il mio nome, che non dovesse sapere niente di me. In pochi minuti mi aveva già trovato un altro nome molto più interessante. Sconosciuta. E in un certo senso, preferivo rimanere chiusa in un guscio invece di dover ripetere sempre le stesse cose: mi chiamo Victoria, vengo da New York, ho diciotto anni. Per una volta avrei voluto giocare.

 

«Ciao sconosciuta», una grande sorriso beffardo ed arrogante si aprì sul suo volto. Era indiscutibilmente meraviglioso, perché a dispetto del suo atteggiamento presuntuoso, avevo notato in lui un sorriso quasi infantile, dai tratti dolci e angelici. Ma forse era stato solamente un abbaglio.

 

«Nathan, vi conoscete?», gli aveva domandato Emma nascondendo un pizzico di sorpresa.

 

«Non proprio», rispose indifferente con un disprezzo, degno di un ragazzo presuntuoso e freddo.

 

Sembrava meno altezzoso di quanto si fosse presentato quel pomeriggio, con quel sorrisetto da schiaffi e il tono da bambino viziato, nonostante tutto, lui era lì e non ero affatto contenta.
 Mi voltai di scatto lasciando Emma al suo ragazzo, e con passo rallentato raggiunsi Shane, ancora sconvolta. 

 

«Tu lo sapevi?», lo tirai per un gomito portandolo dall’altra parte della stanza, dove non c’era nessuno e potevamo bisbigliare senza essere fissati.

 

«Ah, l’hai visto», sorrise compiaciuto, quasi si stesse divertendo di quell’imbarazzante situazione.

 

«Che coincidenza però, eh? Pare che qualcuno ce l’abbia con te», infierì sulla disastrosa situazione, e trattenne a stento una risatina. Se non fossi stata nei miei panni, anch’io mi sarei divertita di quella situazione.

 

«E tu ovviamente lo trovi divertente», sussurrai sprezzante.

 

«Stai scherzando?», rispose indignato, come se lo avessi veramente offeso con le mie accuse, «Lo trovo meraviglioso».
Stranamente non provai a fare del male a mio fratello, non provai a scappare, non provai a fare niente. Rimasi immobile, in fondo alla stanza come se avessi trovato il modo per apparire invisibile.

Emma chiacchierava tranquillamente con le sue amiche, includendo Shane nei suoi discorsi e naturalmente il mio fratellino ne stava approfittando di quel momento di notorietà che prima o poi sarebbe scomparso come la pioggia in estate. In disparte, come me, era rimasta Madison, con cui non ero riuscita a scambiare neanche una parola dal mio arrivo. Non ero sicura comunque di volerlo fare, perciò dopo essermi assicurata di non essere vista da nessuno, mi nascosi sul portico di casa, dove la luna era ben visibile e le stelle non erano altro che dei puntini su una tela blu. Le stelle, sospirai. Non le guardavo più da una vita, e probabilmente non le avrei mai guardate come facevo una volta, non nello stesso modo, non con le stesse persone.

 

«Non lo trovo giusto», esordì una voce alla mie spalle: femminile e delicata.

«Ciao Madison», le rivolsi un sorriso forzato.

 

«Non credi anche tu che io ho tutto il diritto di fare quello che mi pare in casa mia?», si avvicinò mormorando parole incomprensibilo, conseguenza della  rabbia che le stava accecando gli occhi. Poteva, una dodicenne, essere così arrabbiata?

 

«Ehm, si», deglutii incerta su cosa rispondere: non era il momento per risolvere il problema degli altri. I miei erano fin troppo complicati.

 

«Scusa, forse te ne frega ancor di meno di quanto importi a mia sorella». Con il mio silenzio confermai, a malincuore, quello che aveva detto, e tornai a fissare il mare così vicino a me, così irruente e forte.

 

«Com’è andata questa prima giornata?», mi domandò più cauta, Madison.

 

«Peggio di quanto mi aspettassi», risposi senza troppi scrupoli o esitazioni.

 

«Papà l’aveva detto che tu l’avresti presa diversamente da gli altri». Esclamò senza peli sulla lingua. Feci una smorfia appena disse la parola “papà” infastidita fin troppo da quella confidenza che poteva permettersi quasi più di me. Emma e Madison erano cresciute con mio padre, ma a  conti fatti non avevano alcun legame genetico con lui. Io si. 

 

«Tuo padre non capisce niente», usai un tono basso e scontroso, un tono che di certo non si meritava una bambina di dodici anni. Al contrario però, invece di prendersela, Madison alzò le spalle e fece finta di non avermi sentito.

 

«Longwood non offre molto, in realtà è una noia mortale. Però se non sai che fare vieni da me e ti do delle dritte», affermò con finta presunzione. Alzai gli occhi al cielo, divertita. Da quel momento in poi, sarebbe diventata la più simpatica della famiglia.

 

«Se mai vorrò uscire dalla mia camera, te lo farò sapere», annuì soddisfatta.

 

«Maddie!», un piccolo grido sfocato giunse fino a noi. Madison sbuffò e chiuse gli occhi per un attimo, lì riaprii e mi fece un cenno prima di scomparire in casa. Ma così come Madison entrò in casa, qualcuno né uscì. Roteai gli occhi verso l’alto e ripresi a fissare il mare e la sabbia fredda.

 

«Allora, ragazza senza nome, adesso ne usciamo anche parenti. Non sei contenta?», mi voltai verso di lui cercando di mantenere il mio viso scocciato. Nathan aveva gli occhi più chiari del nocciola che avevo notato quella mattina.

 

«Ora mi metto a piangere», mormorai chiaramente sarcastica.

 

«Sei veramente così acida?», mi domandò come se fosse deluso dai miei modi. Come se si aspettasse un altro tipo di persona. E a me, non dispiaceva affatto deluderlo. Non c’era nessuno particolare motivo per cui avrei dovuto tenerlo in antipatia – oltre al fatto che mi aveva quasi investita e minacciata -, eppure non mi attiravano i suoi atteggiamenti e le sue maniere.

 

«Ventitre ore al giorno», confermai, incrociando la mani.

 

«L’altra ora come sei?», mi domandò con una punta di ironia che nascondeva tanta curiosità.

 

«Perché dovrei dirtelo?», mi voltai con una smorfia di soddisfazione e sfida, lasciandolo lì a sorridere. Non varcai neanche la soglia della porta, per rientrare in casa, che mi sentii stringere un polso all’improvviso e una forte fitta mi attraverso l’intero braccio tanto da lasciarmi scappare un gemito sorpreso.

 

«Che diavolo stai facendo? Lasciami andare», esclamai disorientata dalla reazione che aveva avuto provai a divincolarmi dalla quella presa stretta e decisa, provocandomi solo altro dolore.

 

«Il tuo nome», mormorò come un bambino prepotente, più freddo di prima. Parve una persona totalmente diversa da quell’arrogante e presuntuoso ragazzo del luogo, mi ricordava una persona che non valeva la pena di stare tra i miei ricordi. Per l’ennesima volta strattonai il braccio via da lui che non smetteva di fissarmi negli occhi, gli stessi occhi che stavano cercando di sfuggirgli. Mi accarezzai il polso, controllai che non mi fossi fatta male sul serio, poi lo guardai negli occhi senza abbassare lo sguardo neanche per qualche secondo. 

 

«Ti dirò il mio nome», feci una pausa per sbollire la rabbia improvvisa che aveva preso il posto dello stupore. «Quando sarai ad un passo dalla morte ed io sarò lì con te a godermi la scena», bisbigliai. Nessuno poteva prendermi alla sprovvista e riuscire a spaventarmi senza pagarne le conseguenze. Capii di averlo sorpreso quando vidi i suoi occhi ridursi a due piccole fessure e incupirsi improvvisamente, diventando sempre più minacciosi.

 

«Sarà divertente», giurai di avergli sentitodire, prima di tornare in cucina dagli altri. La sua presa sul mio polso, i suoi occhi nei miei e l’odio che in quel momento avevo provato per lui erano mescolate in un vortice dentro il mio stomaco. Già, Nathan in una giornata, aveva sconvolto la mia permanenza lì, perché qualcosa mi diceva che niente sarebbe stato come me l’aspettavo.

 

«Sei ricomparsa! Stavamo giusto parlando di te…», esordì Emma, richiamando l’attenzione dei suoi amici, mio fratello compreso, su di me che avevo la faccia stanca e pallida. Imbarazzante.

 

«Di me?», dissi di scatto, un po’ troppo preoccupata.

 

«Tranquilla, non stavamo spettegolando su di te. Shane ci ha solo parlato della tua scuola e delle cose forti che fai». Ricominciai a respirare regolarmente.

 

«E’ così eccitante come penso? Cioè …la tua scuola?», mi domandò Carmen, con due occhi spalancati e avidi di curiosità.

 

«La New York Academy? E’ forte, si studiano tante cose, ma non è facile: non sono le solite materie», spiegai.

 

«Quanto ti invidio, dev’essere…», non terminò la frase.

 

«Deprimente, angosciante», una voce che poco prima avevo sentito così vicina e distante, interruppe le parole di Hilary, facendo rimanere tutti a bocca aperta.

 

«Nathan, ma che dici?». Emma confusa, molto di più degli altri, gli si avvicinò con uno sguardo pieno di domande, lasciandogli un bacio leggero e accennato sulle labbra.

 

«Nulla», rispose lui, con gli occhi che fissavano ma non guardavano.

 

La serata volò via da quel momento in poi. Sembrava che le persone mi passassero davanti, le parole corressero veloci, ma che io fossi su una altra stazione radio. Non passò molto tempo che i ragazzi se ne andarono e che mio padre e Norah tornassero a casa giusto in tempo per chiedere com’era andata la giornata.
Uno schifo, gli risposi e andai in camera prima che Shane potesse minacciarmi di morte per essere stata maleducata. Sentivo parlare al piano di sotto, non riuscivo a percepire niente di chiaro, a malapena riconoscevo le voci, ma qualcosa mi diceva che l’argomento ero io. Già immaginavo l’espressione apprensiva di papà che chiedeva a Shane com’era passata questa prima giornata, e Shane, troppo buono per farlo preoccupare gli diceva che era tutto apposto. Prima di andare a dormire mi feci una doccia fredda, evitando di canticchiare come facevo sempre, indossai una canottiera e dei pantaloncini, poi scovai nella mia valigia il mio portatile, e decisi di scrivere un e-mail a vuoto.

 

“Cara Rain, ho deciso che ti chiamerò così d’ora in poi.

Non mi piace tenere diari o essere tanto patetica da dover scrivere in segreto pur di sfogarmi,

ma ho deciso che d’ora in poi appunterò di questa permanenza a Longwood caso mai un giorno vorrò ricordare di queste torture.

Per adesso le uniche tre parole che mi vengono in mente sono “Tornare a casa” ed il resto sono parolacce che non so neanche come si scrivono.

Ed io che credevo che Longwood sarebbe stata la cosa più terribile, cavolo se mi sbagliavo! Mio padre si comporta come se ci avesse cresciuti nel migliore dei modi e ne fosse orgoglioso, la sua nuova famiglia è talmente stravagante e buona nei confronti miei e di Shane che mi hanno fatto venire i sensi di colpa e poi…

C’è una ragazzo, piuttosto strano. Sembra quel tipo di ragazzo abituato ad avere tutto, che si sente in diritto e in dovere di poter pretendere ciò che vuole con un bel sorriso. Quando sono uscita dall’aeroporto ci è mancato poco che non mi investisse con la sua moto.
Non mi pentirò mai di avergliela graffiata, ma non sono sicura del perché…Ah, dimenticavo di dirti che è il ragazzo di Emma, che non sa il mio nome perciò preferisce chiamarmi “sconosciuta”, e mi ha intimato più di una volta ad aiutarlo ad aggiustare quella sua stupida moto. Naturalmente, non lo farò mai. 

Detesto questo giorno, detesto Longwood e la sua gente, detesto quello che mi aspetta, ma…

                                                                                                                        

                                                                                                                                               Vicky.”

 

E bastarono pochi minuti per farmi crollare.

 

                                                                      ---------

 

«Buongiorno». Mi stiracchiai i muscoli e sbadigliai rumorosamente. 

 

«Buongiorno, Madison. Dove sono gli altri?», chiesi afferrando una scatola di cereali poggiata sul bancone, sedendomi sullo sgabello rosso della cucina.

 

«Papà è andato al lavoro, mamma è al centro commerciale con Emma, e Shane è uscito stamattina prestissimo senza dire dove andava», mi spiegò in modo esauriente. Era incredibile come una ragazzina di undici anni potesse notare tutte quelle cose. Io a undici anni neanche mi sarei ricordata dove abitavo.

 

«E tu rimani qui?», le domandai tra un cereale e l’altro, poco interessata ai suoi reali impegni nella vita. Madison aveva solo undici anni, le piaceva pensare di dimostrarne di più, e a me piaceva pensare che non mi avrebbe mai dato fastidio, perché sembrava piuttosto in gamba.

 

«Aspettavo te», disse tranquillamente. Quasi mi affogai con una manciata di cereali rimasti incastrati in gola.

 

«Me?», mi indicai con un dito, convinta di aver capito male.

 

«Facciamo un giro», mi pregò. «Non sono una persona noiosa. O meglio, lo sono per Emma, ma tu sembri diversa da lei e ho bisogno di qualcuno che mi accompagni da Emily, la mia migliore amica», cacciò tutto d’un fiato, aspettandosi chissà quale brutta risposta da me. Sbuffai, perché almeno quello potevo permettermelo, ma non rifiutai l’invito. Non ero ancora abbastanza sveglia per farlo.

«Sei fortunata. Mi hai preso alla sprovvista. Muoviti a prepararti e aspettami in …», non terminai la frase appena mi accorsi che non avevamo un mezzo con cui spostarci.

 

«Papà ci ha lasciato la macchina», annuii e affondai nuovamente la mano nella scatola di cereali. Li avevo finiti.

Un’ora dopo, verso le dieci e mezzo del mattino, quando il sole colpiva forte sui finestrini della Mercedes di papà, io e Madison ci ritrovammo l’una di fianco all’altra. Io con il cappuccio della maglia sui capelli, e lei con una spilla sulla t-shirt rosa confetto. Passavamo per le strade di Longwood, strade per lo più deserte in piena estate. La maggiorparte delle persone popolano le spiagge, mi aveva spiegato Madison, era praticamente impossibile trovare qualcuno in giro per i negozi di Longwood a quell’ora. Mi diede indicazione precise per raggiungere la casa della sua amica Emily, un’altra probabile undicenne a colori. 
Abituati, pensai. E' questo che fanno le sorelle maggiori. E mi sembrava ancora incredibile che dopo diciotto anni da sorella minore, passavo a fare la babysitter ad un'undicenne. Sbuffai tra me e me, seguendo letteralmente le istruzioni di Madison.

 

«Devi attraversare il ponte», davanti a noi c’era un piccolo ponte che dava sul fiume. Era deserto, lungo e inquietante. Una location perfetta per un film dell'orrore.

 

«Hey, quello lì è Nathan», sussultai al suono di quel nome e mi voltai di scatto perdendo per un mini-secondo il controllo dell'auto. Seguii il dito di Madison che, proprio dietro di noi, indicava una moto. Una moto che non era quella che avevo graffiato, una più vecchia e consumata, ma pur sempre una moto. Seguii con lo sguardo il percorso della moto. Ci sorpassò senza problemi fino a fermarsi davanti a noi, tagliandoci la strada. Frenai giusto in tempo per non investire lui e la sua moto. Ma perché diavolo avevo frenato?

 

«Ma che sta facendo? Ci ha tagliato la strada, potevo investirlo!», urlai tra me e me. Nathan sembrava su un altro mondo, non guardò nella nostra direzione neanche per un istante: gettò la sua moto a terra, proprio dove noi dovevamo passare, e si diresse verso i pali di ferro che sorreggevano il ponte. Uscii dalla macchina sbattendo forte la portiera, pronta a dirgliene quattro sul codice della strada, poi mi accorsi che stava per succedere qualcosa di brutto.

 

«Che ti è saltato in mente? Hai visto così hai fatto? Potevi ucciderci», sbraitai contro di lui, che pareva non sentirmi. Gesticolai, ignorando i suoi strani e sospetti movimenti. Improvvisamente, dopo un secondo del mio silenzio, capii ipotizzai le sue intenzioni e le mie braccia e le mie gambe si pietrificarono. La paura mi mozzò il respiro, quando raccolsi n inaspettato coraggio mormorai.

 

«Nathan, stai bene?», riprovai più cauta.

Ma lui non rispondeva. Lo guardai, arrampicarsi sulla recinzione del ponte aggrappandosi con una mano al palo di ferro accanto a lui, con gesti decisi. E guardò la corrente del fiume scorrere velocemente e violentemente chissà dove. Non sapevo quali emozioni provare, mi sentii prima di tutto, vuota. Inutile. Dopo, quando il coraggio tornò a tratti, ripresi la parola.

 

«Hey, puoi scendere da lì? E’ pericoloso», la mia voce cadde di qualche nota e cominciai a tremare. Nel frattempo Nathan mi teneva le spalle, sempre con la testa verso il fiume, e una mano stretta alla palizzata.

 

Dopo un paio di secondi, mormorò convinto. «Io mi butto». La sua voce era bassa e roca, ma non impaurita.

 

«No!», urlai avanzando verso di lui di slancio. Mi guardai attorno, sperando che qualcuno passasse. Era proprio come nelle scene dei film, ma io non riuscivo a comportarmi come una persona sana di mente. Avevo solo un vortice di pensieri che mi dicevano di chiamare qualcuno, di provare a parlargli o di lasciarlo morire per fatti suoi e scappare. Per un attimo pensai a Madison, ancora lì in macchina, attaccata al finestrino con gli stessi occhi di Pinocchio nel paese dei Balocchi, se avesse visto qualcosa…

 

«Avevi detto che se fossi stato ad un passo dalla morte mi avresti detto il tuo nome. Ora lo sono» strillò tutto d’un fiato, perfettamente in tempo per lasciarmi sentire i battiti del cuore accelerare e colpire il mio torace ritmicamente.  

 

«Se non mi dici il tuo nome, io mi butto», strillò ancora, facendomi sobbalzare. Spalancai gli occhi e le labbra contemporaneamente: stava per uccidersi, gettarsi da un ponte e morire tra la corrente di un fiume perché io non gli dicevo il mio nome? Cominciai a credere che quel ragazzo aveva qualche problema mentale ed io non lo sapevo, forse dovevo assecondarlo. E’ così che si fa di solito, no? Provai a respirare inutilmente, annaspando aria. La mia paura era l’unico testimone del mio folle tentativo.

 

«Victoria», gridai con quanto fiato avevo in gola. «Il mio nome è Victoria», chiusi gli occhi per un istante, sperando di non dover vedere morire un’altra persona. Intorno a noi

 

«Victoria», ripeté. «Bel nome, finalmente lo so». Lentamente, con paura, aprii gli occhi aspettandomi il peggio. E invece…

Nathan era proprio di fronte a me, non più sulla staccionata di quel ponte pronto a buttarsi. Aveva uno strano sorriso, gli occhi vispi, e l’aspetto chiaramente fresco. Mi ricordava la stessa espressione del giorno prima, ma io ero troppo confusa per capire che…Nathan mi aveva presa in giro.  Che non aveva alcune intenzione di buttarsi, che non era pazzo, ma solo perfido.

L’improvviso scambio di emozioni tra paura e rabbia divenne incontrollabile e le mie gambe non mantennero il peso. Mi accovacciai a terra, appena mi sentii mancare per un attimo. Tutta quella paura per niente? Per un gioco?

«Stai per svenire?», sentii la voce di Madison raggiungere le mie orecchie sottoforma di acuti incomprensibili. Ti prego non svenire Vicky, mi pregai.

 

«Tu torna in macchina, adesso ce ne andiamo», dal mio tono lento e basso, quasi minaccioso, Madison capii che era meglio obbedire e tornò di corsa in macchina, riattaccandosi al finestrino per vedere il finale della puntata.

 

«Ti sei spaventata così tanto?», domandò divertito, trattenendo una risata tra le labbra. Mi rialzai in piedi, mi avvicinai a lui e raccogliendo tutte le forte in una mano, gli tirai uno schiaffo. Uno di quelli che mi porterebbero in galera solo per la forza con cui l’avevo dato.

 

«Sei violenta». Una persona violenta. Io? No, l’unica violenza a cui ero abituata era l’auto difesa. Nathan non mi aveva propriamente messo la mani addosso ma mi aveva quasi uccisa di paura fingendo di stare per uccidersi pur di sapere il mio nome. Io da povera ingenua –che non ero- avevo creduto che fosse pazzo e l’avevo assecondato. Ma non era uno psicopatico, tutt’altro. Lo fissai mentre si toccava la guancia rossa e calda e poi si rivolgeva me con uno sguardo molto simile a quello di un omicida. Come poteva avere il coraggio di contraddire quello che gli avevo fatto? Era da stupido non aspettarsi una reazione del genere. Ci mancava solo che mi sarei sciolta ad una follia del genere. Non aveva neanche idea di com’ero.

 

«Ti sei preoccupata per me», disse tra sé con un sorrisetto compiaciuto, ma comunque sorpreso.

 

«Sono arrabbiata, furiosa…sono», cominciai ad inveire contro di lui, ad usare toni sempre più alti e per poco, giuro per poco, non scattai in una crisi isterica. In modo brutale e violento, più di quanto lo fossi stata io, mi afferrò per il gomito e mi spinse verso di lui, bloccandomi in una stretta ferrea. Stringeva le mie braccia con una facilità spaventosa e con una forza esagerata. Evitai di mettere in evidenza le smorfie di dolore ricordandomi di Madison nell’auto, che ci guardava.

 

«Non farlo mai più», sussurrò ad un passo dalle mie labbra. Mandai il viso all’indietro per cercare di allontanarlo per quanto possibile, ma mi teneva stretta con una prepotenza incredibile. Avevo forse toccato il suo orgoglio? Bene, lui aveva scansato il mio.

 

«Tu non prenderti mai più gioco di me», un ultimo strattone e mi liberai dalla sua presa. Per orgoglio ignorai il mio polso dolorante e mi diressi verso l’auto stringendo forte i denti, torturandomi le mani. Non era la smania di poter picchiare qualcuno, dicevo sul serio quando parlavo della non violenza. Ma era il gesto che mi aveva dato su i nervi. Era stato un giochetto veramente crudele, un giochetto che nessuno si era mai curato di farmi.


«Ci vediamo, Victoria».

 

«Và al diavolo», digrignai i denti scossa dalla mia stessa furia.


Nathan scosse la testa divertito, «Il modo in cui l’hai detto è così eccitante che credo che lo farò».

 

Fine Terzo Capitolo.


 


Grazie mille. So che, molto probabilmente lo ripeterò fino alla fine, ma grazie veramente! I vostri commenti sono così divertenti e emozionanti. Ed ogni volta che vedo aumentare le visite cominciò a lanciare inquietanti urletti che spaventano anche la mia sorellina. Perciò, prendetemi sul serio quando vi ringrazio! Spero che la storia di Vicky cominci a intrigarvi, e spero di riuscire a delineare per bene i comportamente i caratteri dei personaggi, in modo da poterli "giustificare".
Alla prossima, adesso vi lascio con un bella frase di una canzone che sto ascoltando in questo momento.

 

 "Cause I can't confess my rock and roll ways. Cause i'm so possesed with the music, the music he plays"


alessi828: Grazie mille per i complimenti! Sono contenta che ti sia piaciuta Vicky, spero che questo capitolo ti piaccia allo stesso modo, se non di più! Fammi sapere….alla prossima!
Twilighterina: Ciao! Che bel nickname che hai! (Lo dico a caso...no, non è vero, sono una fan accanita di Twilight, xD) Ti ringrazio per i complimenti e mi sono piaciute molto le tue aspettative e le tue prime impressioni, è divertente pensare che ti abbia già preso. Spero che anche questo capitolo sia di tuo gradimento. =) Alla prossima!
nicoletta93: Ciao! Spero di non averti fatto aspettare tanto! Spero che ti piaccia anche questo terzo capitolo...Grazie ancora per il tuo commento!
DreamsBecameTrue: Grazie! Già ti piace Nath? Ti ha già conquistata? Beh, non so se con quello che succederà in seguito, ti farà cambiare idea, o ti piacerà ancora di più! Ci saranno tanti equivoci, e tanti battibecchi tra Nathan e Victoria! Saranno l'uno spietato con l'altro...però adesso non voglio dire troppo! Grazie mille per i tuoi simpatici commenti!
fataflor: Ciao Anna! Sei indecisa tra Shane e Nathan? Dipende molto dal tipo di persona che ti piace, però entrambi hanno delle qualità e dei difetti. Sono davvero emozionata, grazie per i complimenti. Davvero ti sta conquistando, questa storia? Mi sembra impossibile...grazie! A Presto!

Shadow_Soul: Ciao! Ti ringrazio per i complimenti, e si…sono stata costretta a cancellare la storia per alcuni motivi. Ma adesso sono qui con Vicky e Nathan e sono contenta che abbia recensito questa storia! Mi fa piacere che Nathan stia riscuotendo tutto questo successo in soli due capitolo. Spero di non deluderti!

P.S: Naturalmente conosco Twilight e ne sono una grandissima fan. Eh si, Hilary è la Jessica del Wisconsin, ma non è detto che possa cambiare in meglio o in peggio!

  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: BBV