Dalla fessura
dell’elmo
calato sul viso, mentre era lanciato al galoppo, Ian poteva ormai
scorgere
chiaramente i suoi avversari.
Sentiva
i suoi respiri risuonare sempre più
forti e affannosi all’interno dell’elmo,
finché lentamente le grida, il
calpestio degli zoccoli e ogni altro rumore, si ridussero soltanto
all’eco assordante
del suo ansimare: la concentrazione adesso era assoluta. Percepiva
l’adrenalina
scorrergli nel sangue e la paura, com’era normale che fosse,
istillarsi
brutalmente in lui. Ma Ian aveva imparato che tra poco, non appena i
due
schieramenti si fossero scontrati, non ci sarebbe più stato
tempo per pensare o
per tremare.
In battaglia non
c’era
tempo per nulla, se non per vivere o morire.
In una frazione
di
secondo, sapeva di dover agire per strappare la propria vita alla
morte, offrendole
in cambio la vita di un altro e un istante dopo, tutto ricominciava
daccapo, in
un balletto che si sarebbe concluso soltanto quando la terra fosse
stata
abbastanza pregna del sangue degli uomini. E prima
che si fossero contati vincitori e
vinti, morti e vivi, spesso in quel macabro spettacolo si perdeva
persino la
memoria del motivo per cui si era combattuto.
Ian strinse gli
speroni
sui fianchi della sua cavalcatura, trasformando l’andatura al
galoppo nella
carica finale, subito imitato dai suoi uomini.
Le
figure poco prima indistinte degli inglesi,
acquistarono volti ed espressioni. Nella moltitudine scelse un
bersaglio,
sforzandosi di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero che non
fosse il
suo obiettivo. D’ora in avanti solo l’istinto e
l’esperienza l’avrebbero
guidato e l’unica voce che avrebbe sentito, fino al momento
in cui tutto fosse
finito e si fosse sbarazzato dell’elmo, sarebbe stato
soltanto l’eco pesante del
suo respiro.
Gli inglesi
davanti a
lui erano visibilmente sconcertati dall’arrivo della
cavalleria pesante e
fuggivano da ogni parte, come selvaggina braccata dai battitori.
Quando scorse la
prima
linea di cavalieri abbattersi sul groviglio di soldati inglesi in
rotta, si
aspettò già di godere del sapore dolciastro della
vendetta, ma nel massacro che
seguì non trovò nulla che potesse placare la sua
furia.
Cercò
di convincersi
che non gli interessava la sorte dei suoi nemici, che lui voleva un
solo uomo,
William Glasdale, ma quella carneficina non fece altro che accrescere
la sua
irritazione.
Davanti a lui,
un
inglese attraversò il suo campo visivo correndo
disperatamente, zigzagando nel
tentativo di sfuggire al nemico, che comparve subito dopo
all’inseguimento,
spronando il suo destriero. Il fuggitivo inciampò in un
compagno già cadavere e
mentre il francese sopraggiungeva, alzò le braccia per
difendersi,
incrociandole davanti al volto. Il cavaliere aveva già
spezzato la sua lancia
contro un altro avversario e Ian lo vide ergersi in equilibrio sulle
staffe e
prendere la mira con la spada. Quando fu colpito, l’inglese
crollò a terra e
non si rialzò mai più.
La
cavalleria francese, sebbene notevolmente
inferiore nel numero, rase al suolo la fragile resistenza opposta dai
fanti, dagli
arcieri e dai balestrieri delle guarnigioni inglesi di Les Tourelles e
di Augustins,
lasciando a terra, disseminate tra i corpi martoriati dei loro
avversari, le lance
spezzate e insanguinate dei cavalieri.
Il suo cuore
pulsava ancora
ad un ritmo impossibile, ma Ian non lo ascoltava, né vedeva
davvero la strage
sotto i suoi occhi. In testa aveva soltanto l’eco del pesante
respiro che
risuonava dentro l’elmo e la sete di vendetta contro chi
aveva rapito e forse
violentato, torturato e ucciso la donna che amava.
Dopo aver
attraversato
completamente le file nemiche, fin quasi ad arrivare al cancello
frontale della
bastia in fiamme, cercò Daniel, individuandolo nel mezzo
degli arcieri a
cavallo che sopraggiungevano con la retroguardia della cavalleria.
Quando lo
raggiunse, scostò rapidamente l’ingombrante elmo
per rivolgersi all’amico:
“Presto,
attraversa il
ponte e cerca di salvare le donne!” Non menzionò
Isabeau, non voleva sperare
invano, ma non poteva nemmeno ammettere che fosse troppo tardi.
Daniel
annuì e subito
dopo si girò sulla sella per individuare gli uomini che
secondo il piano di attacco
dovevano accompagnarlo sul ponte, “Ci vediamo dopo la
battaglia, cerca di non
fare l’eroe…”.
“Nemmeno
tu”, replicò
asciutto Ian.
Il
senso di urgenza non permise a Daniel di
dilungarsi oltre. Avrebbe voluto rassicurare l’amico, dirgli
che sarebbe
tornato con Isabeau, ma capiva che le sue parole sarebbero state
inutili, Ian sapeva
che lui avrebbe fatto tutto il possibile e nella
loro amicizia non servivano parole superflue.
“Arcieri, a me!” li chiamò
a raccolta Daniel,
urlando sopra le grida della battaglia. Gli uomini scelti si riunirono
immediatamente
davanti alle rovine in fiamme della fortezza. Ognuno di loro
tirò fuori da un
borsone un grande panno che poco prima era stato imbevuto
nell’acqua. Stesero
gli ampi drappi bagnati sulle loro cavalcature, avendo cura di coprire
il muso
e le spalle dei cavalli. Loro stessi, si coprirono con altri tessuti
inzuppati
e quando furono pronti, Daniel ordinò: “Vado io
per primo, voi seguitemi subito
dopo con gli archi pronti!” così dicendo,
lasciò andare le redini e con un colpo
secco ai reni del cavallo, si lanciò attraverso il portone
frontale della
fortezza, avvolto dalle colonne di fumo nero.
Ian
osservò Daniel
mentre scompariva oltre i miasmi del fuoco, di fronte
all’entrata di Les
Tourelles. Il destino delle donne prigioniere e forse della stessa
Isabeau,
adesso era in mano dell’amico. Lui, invece, doveva finire
ciò che aveva
iniziato.
“Falchi
d’Argento!”
attirò a gran voce l’attenzione delle sue truppe,
“Indietro, ritirata!
Ricongiungersi alla fanteria!”
Mentre dava
l’ordine, tirò
sulla destra i finimenti delle redini, facendo girare il cavallo su se
stesso.
Prima che la retroguardia inglese potesse organizzarsi e sfruttare la
superiorità numerica, il loro piano di battaglia prevedeva
di ricongiungersi
velocemente con la fanteria guidata da Jeanne e prendere nuovamente
d’assalto le
truppe inglesi, con una nuova carica frontale.
Al comando di
Ian, i
cavalieri di Chatel Argent si raccolsero progressivamente intorno al
loro
comandante, girarono i cavalli, porgendo le spalle alla fortezza e in
breve
raggiunsero le truppe di Jeanne e Ty, che li aspettavano nei pressi
della
strada maestra.
Fu in quel
momento che
un frastuono assordate di voci giunse dal loro fianco destro. Le truppe
di
Saint-Jean-le-Blanc, la terza guarnigione inglese sulla sponda
meridionale
della Loira, erano state chiamate in soccorso non appena era divampato
il fuoco
all’interno della fortezza e andavano finalmente a
ricongiungersi col resto dei
distaccamenti inglesi di Les Tourelles e di Augustins, che nel
frattempo gridavano
ed esultavano per i rinforzi insperati.
Senza fretta, i
cavalieri di Chatel-Argent si disposero al passo, puntando nuovamente
il muso
minaccioso dei loro possenti destrieri davanti al nemico, disegnando
una linea
sottile che abbracciava tutta la larghezza del fronte.
Quando ogni
inglese che
aveva gioito al sopraggiungere dei rinforzi di Saint-Jean-le-Blanc,
levò lo
sguardo sul vasto spiegamento di cavalli da guerra dinanzi a loro,
strozzò in
gola il proprio grido di giubilo.
In mezzo allo
schieramento francese, una figura più minuta delle altre,
accompagnata da un
altro uomo a cavallo, avanzò facendosi largo fino alla linea
dei cavalieri.
Reggeva con una mano la bandiera
bianca,
con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso
francese.
La sua armatura
non
aveva più la protezione ad una spalla, che si intravedeva
nuda e fasciata, ma
nessun uomo sospettò che fosse rimasta indifesa: ognuno di
loro avrebbe dato la
propria vita per difenderla, ma più di questo, nessuno
dubitava che una forza
superiore stesse proteggendo quella ragazza.
Jeanne
abbracciò tutti
con lo sguardo o almeno così sembrò ad ognuno di
loro e bastò quel gesto per
infondere loro il coraggio per battersi fino alla morte. Quando la
videro chiudere
gli occhi, seppero che stava pregando per la loro vittoria e con lei al
loro
fianco, ogni soldato si sentì benedetto e invincibile.
Quando aprì nuovamente
gli occhi, scorsero nei suoi sguardi lacrime di pietà per i
morti e di rabbia
per i vivi.
“All’alba
il sole
sorgerà su una terra libera, Monsieur
Thierry”, mormorò fieramente la ragazza dentro
l’armatura.
Ty
annuì con un cenno
del capo.
“Monsieur Thierry?” Jeanne
esitò un istante, “promettetemi che
sarete prudente in battaglia, non mettete inutilmente in pericolo la
vostra
vita per proteggere la mia”.
“A voi
protegge le
spalle un signore molto
più potente
di me”, scherzò Ty, “questa volta
prometto di stare più attento a me stesso”.
Jeanne sorrise
d’istinto al ragazzo, tornando per un istante una ragazzina
di soli diciassette
anni, divertita da quella battuta impertinente, tipica del conte
Thierry.
Poi
quell’attimo passò
e quando distolse lo sguardo da Ty, il suo spensierato sorriso si
adombrò della
greve consapevolezza del compito che era chiamata a portare a termine.
La vide
respirare
profondamente e Ty seppe che stava provando le stesse emozioni che
stava
sperimentando lui: eccitazione, paura, angoscia, rimorso.
Il cuore gli
batteva
già all’impazzata e sapeva che sarebbe scoppiato,
non appena avesse colpito con
gli speroni i fianchi del cavallo.
Jeanne si
alzò sulle
staffe della sua giumenta bianca, levò al cielo la bandiera
e urlò con il fiato
che aveva in gola:
“Questo
è il momento
tanto atteso, uomini d’arme. Io vi condurrò alla
guerra! Vi guiderò alla vittoria
o alla morte! Chi mi ama, mi segua!”
Mentre il boato
tremendo che seguì echeggiava ancora nell’aria, la
cavalleria di Chatel Argent,
precedendo la fanteria leggera, si preparò ancora una volta
a lanciare l’assalto
frontale al castelletto di Les Tourelles.